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I.

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Nell'ottobre del 1866, moriva in Milano di pneumonite il vedovo conte Guglielmo O'Stiary dopo una fiera malattia di cinque giorni. Lasciava un milione al suo unico figlio Enrico, di passa vent'anni, col patto espresso nel testamento, ch'egli non potesse andar in possesso assoluto e dispotico della sostanza se non compiuti i ventiquattro, come portava la legge cho vigeva al tempo degli Austriaci.

In caso che l'erede avesse voluto fare opposizione al testamento il severo babbo lo privava di tutto, e sostituiva nella eredità: il Sacro Cuore di Gesù.

I titoli per diseredare suo figlio Enrico, secondo lui, non mancavano. Egli era fuggito dal collegio dei Barnabiti, adolescente ancora, per correre a combattere gli Austriaci con Garibaldi. Egli si mostrava irreligioso e liberale. Egli sarebbe riuscito, senza alcun dubbio, prodigo e dissoluto.

Il conte Guglielmo O'Stiary discendeva da una famiglia irlandese molto cattolica, stabilitasi a Milano nel secolo decimosesto.

Enrico O'Stiary ricevette la notizia della malattia mortale del babbo, quando questi era già spirato. La campagna contro gli Austriaci era finita. Chiese ed ottenne il congedo e partì, sperando di rivedere ancor vivo l'autore de' suoi giorni, che egli amava in cuor suo di grande e profondo affetto, malgrado la di lui severità piuttosto unica che rara. Quando giunse a Milano trovò che suo padre era già stato seppellito da una settimana.

E intanto l'esecutore testamentario, don Ignazio Martelli, di lui zio materno, aveva già pensato in fretta ed in furia a praticare certe operazioni e certe riduzioni nell'appartamento, nella cucina e nella scuderia, dalle quali si riprometteva di aumentare il reddito del pupillo di una mezza dozzina di mille lire all'anno. Il conte padre, anche dopo la morte della contessa sua moglie, e la partenza di Enrico per il collegio, non aveva mutati d'un pelo l'ordine e l'ampiezza dell'aristocratica magione. Ma ora? Che cosa avrebbe dovuto farne l'Enrico di sedici stanze? "Troppa grazia a sant'Antonio!", Fece dunque appiccar all'imposta del portone il suo bravo cartello col da affittarsi al presente, e dopo sei ore ebbe, il piacere di vedere, come disse lui, bruciato via l'appartamento e invaso da stranieri.

La creatura, che si dava maggiore affanno in palazzo, era la guardarobiera: una vecchia che chiamavano la balia, che aveva allattato il conte Guglielmo e portato in braccio il contino. Oh il suo non era certo l'affacendato ozio dei Ritratti Umani! Con che amore la buona donna mise in ordine il quartierino, che il tutore spilorcio aveva lasciato al di lei caro Enrico! Con che cura gli preparò la biancheria e fece rimetterle cortine alle finestre e gli fornì dell'occorrente la teletta, e dispose qua e là nelle camere dei fiori appena colti.

—Le pare, marchese, ch'egli sia alloggiato come un principino?—disse la signora Eugenia Martelli al marchese d'Arco, uscendo insieme dalle stanze destinate al giovine ereditiero.—Per dire la verità queste sono le camere migliori del vecchio appartamento. Che ne dici tu Elisa?

La Elisa, una fanciulla di poco più che quindici anni, una rosa thea appena sbucciata, una bellezzina molto distinta, con occhioni e denti da sbalordire, rispose con una piccola smorfia, un umh! che voleva come dire "per l'Enrico ci sarebbe voluto ben di più!"

—Io sono certo però,—disse il marchese d'Arco,—che l'Enrico avrà gran dispiacere di vedere affittate così subito e a della gente ignota, le camere dove tien raccolte le memorie della sua infanzia….

—Se sapesse quante volte ho detto anch'io questa cosa a mio marito!

Non è vero Elisa?

—Sì, certo; ma il babbo non vedeva che la necessità di cavare di più dal palazzo.

—La casa de' suoi maggiori,—riprese con grande nobiltà il marchese d'Arco—va tenuta da conto e il lasciarla invadere dal primo che capita è un mancarle di riguardo.

—Che vuole marchese? Lei sa bene che mio marito non le ha mai capite certe delicatezze.

—Come!—domandò questa volta ingenuamente l'Elisa.—Il babbo non ha mai capite le delicatezze?

—Zitta Elisa—disse la madre stringendo, nel suo il braccio di sua figlia. Poi di nuovo al marchese:

—Del resto l'Enrico sarà, come si dice, in famiglia. Tra il suo quartierino il nostro non c'è di mezzo che l'anticamera e questa sala in comune.

—E noi per far tutto questo tramestìo,—disse la Elisa mostrando un gran dispiacere nella voce—abbiam dovuto cambiare alloggio anche noi e andare verso il giardino.

—Povera ragazza, guarda mò,—fece ridendo il marchese d'Arco—dover cambiare alloggio!

—E non abbiamo tenuta neppur una straccia di finestra verso strada.

—Ah capisco ora! Neppur una straccia di finestra verso strada!

—Stare sul Corso e non poter andare al balcone, la mi concederà marchese che è una condanna…. Io non ho che il giardino da vedere.

—Ma il giardino ha anch'esso i suoi meriti! replicò il marchese sorridendo.—Questa primavera vedrai a sbucciar i fiori, a spuntar l'erba, a fiorire i tulipani.

—È vero,—sclamò la Elisa,—ma a me sarebbe piaciuto di più il poter vedere fiorir le rose in giardino….

—E spuntar i tulipani sul Corso?—domandò ridendo il marchese.

E, quasi per farsi perdonare la facezia un po' ardita, soggiunse subito:

—Basta! Non vedo l'ora di abbracciarlo quel caro ragazzo!

—Oh marchese!—sclamò la fanciulla.—Ora non è più tanto un ragazzo.

Ha quasi ventun anni ora. Cinque più di me.

—È vero! Sono tre anni ormai ch'io non lo vedo più.

—E che ne dice marchese di quel barocco d'un testamento di suo padre?—domandò la signora Martelli.

—Che vuole mai che le dica, cara signora? Quel povero conte Guglielmo era fatto così. Una testa debole, che non calcolava mai gli effetti delle sue azioni; pur di assecondare i moti dell'animo dispotico e pieno di ghiribizzi egli non badava a nulla.

—Ah, lei lo deve sapere, che fu tanto amico della povera contessa!

Il marchese mise un sospiro, e quasi per stornar l'attenzione da quella frase, ripigliò:

—A che ora crede lei che potrà arrivare l'Enrico?

—Io dico che sta per arrivare fra mezz'ora—sclamò la fanciulla.—Lo sento quì!—E posò la destra sul cuore.

—Ma zitto Elisa!

—La lasci dire. È così bella l'ingenuità a quindici anni.

—E quattro mesi!—sclamò la Elisa.

—Oh, ma non la creda poi tanto ingenua, sa?—fece ridendo la madre.—È un capetto, mah!

—Senti Elisa? Tua madre dice che sei un capetto…. mah!

—Miracolo che questa volta non abbia aggiunto anche l'ameno!

Il marchese rideva.

—Dunque io ripasserò stasera,—soggiunse egli—e se l'Enrico arrivasse prima, gli dica di venir subito da me a farsi vedere. Sans adieux. E tu Elisa ricordati di voler un po' di bene anche a questo povero vecchio che te ne vuol tanto!

—Oh, anch'io, anch'io, caro marchese,—rispose con espansione sincera la fanciulla.

—Ora andiamo a vestirci subito,—disse la madre quando il d'Arco fu uscito,—che non abbiamo tempo da perdere se non vogliamo salare la messa.

* * * * *

La Elisa era un capetto davvero.

Un tipo di fanciulla più simpatica, più piccante, più piacente di lei non lo si potrebbe imaginare facilmente.

Dove diamine la signora Eugenia ed il notaio Martelli fossero andati a pescar tanto spirito, per dare vita a quella loro creatura, è un mistero! La signora Eugenia era infatti una eccellente madre, una buonissima donnetta, una moglie irriprovevole, ma sgraziatamente peccava assai nel fisico; quanto al padre era sgraziato nel fisico e nel morale.

La Elisa appariva come la perfetta antitesi de' suoi genitori. Sua madre era piuttosto piccola e tozza, Elisa era slanciata e svelta come un giunco odorato. Sua madre era scarsa d'ingegno; sua figlia un genietto. Suo padre era taccagno e di idee ristrette; la Elisa era una socialista spiegata senza sapere di esserlo. Forse di lei s'avrebbe potuto dire, come della maggior parte dei figli unici, ch'era un enfant gatè. La mamma, le aveva sempre voluto troppo bene, le aveva fatte buone le innumerevoli fantasie, l'aveva sempre accontentata in ogni capriccio e baciucchiata troppo. Ma le madri che amano assai non ci sentono da questo orecchio. Quanto non si è detto contro il soverchio amore di certe madri? Ai fanciulli esse parlano incessantemente e quasi esclusivamente del bel musino, del bel vestitino, delle belle scarpette, e li baciano tutto il santo giorno con tali frenesie di tenerezza, che spesso i bimbi ne scoppiano in pianto. Cari e santi baci quei delle madri! Ma non pensano desse che, a lungo andare, anche quei baci riescono fatali, giacchè stimolando senza posa nei bimbi la delicata innervazione, sviluppano in essi una, per quanto inavvertita, troppo precoce sensualità. Amorevole, ma fatale stupro materno, che già rende colpevole l'adolescenza prima che essa abbia cessato di esser innocente!

Le madri romane si guardavano bene dall'insegnare la voluttà del bacio alle loro figliuoline. E quando alcuno lodava la bellezza d'una loro figlia in faccia a lei stessa, quelle madri nobilissime usavano di metter la punta del dito medio sulla lingua e di toccar con quella la guancia dell'adulata quasi a purgarla col materno amore da un maleficio straniero.

La Elisa aveva tra le altre cose una voce che agiva voluttuosamente sulla corda sensibile dell'udito. Nessuno ha mai ascoltato le arpe eolie, ma chi ha sentita la voce di Elisa Martelli, giura che non la cambierebbe con quella di un'arpa eolia.

E il sorriso?

S'ha un bel dire, ma dinanzi al realismo della bellezza e della gioventù restano eterne e immutabili anche le ispirazioni romantiche, alle quali fummo allevati. Elisa quando rideva, rideva tutta, come disse il Dossi, e s'avrebbe detto che facesse una luce maggiore intorno a sè, giacchè, il di lei sorriso alleandosi al nitor dei denti e lampeggiando nelle pozzette delle guancie e raggiando fuori collo splendor degli occhi pareva davvero la circondasse di una gioiosa aureola, che è luce appunto e delle più lucenti!

Queste doti, già s'intende, preziose per tutti erano difetti per quella lesina di suo padre. Egli avrebbe amato tanto una figlia belloccia sì… non dico! ma che avesse avuto il suo quietismo nel sangue, che andasse in cucina a sorvegliar la cuoca, che facesse tutti i rimendi alla biancheria e rivedesse i libretti della spesa. Ma non c'era verso, e la mamma su questo la difendeva a spada tratta e qualche volta la si permetteva di ricordare al marito una certa loro speranza, sorta si può dire il giorno stesso della nascita della bambina e nutrita religiosamente in famiglia:

—Pensa poi che la Elisa deve essere contessa e milionaria!

Era la frase sacramentale, che metteva ogni pace e ogni buon umore in quella casa.

* * * * *

Il contino arrivò, come aveva presentito la Elisa, mezz'ora dopo, mentre le donne erano a messa.

Montò quattro a quattro i gradini dello scalone, che non aveva riveduto da circa tre anni e tirò il campanello all'uscio di casa sua.

Il servitore che venne ad aprirgli non lo conosceva punto.

—Chi cerca di grazia il signore?

—Il notaio Martelli è in casa?—domandò Enrico con un mesto sorriso.

—No signore,—rispose l'altro,—il signor cavaliere Martelli è uscito.

Enrico si fece conoscere. Entrò, andò difilato alla camera dove era morto suo padre, e vi si rinchiuse. Poi mezz'ora dopo cogli occhi rossi di pianto, si fece portar nascosto in una carrozza al cimitero per visitare il luogo dov'era stato sepolto.

Di ritorno a casa Enrico trovò il notaio Martelli suo tutore, che lo aspettava per abbracciarlo.

Prima che questi tornasse a casa dal cimitero, il notaio avendo udito dal portiere, come il contino fosse arrivato, era salito frettoloso le scale, ed entrato in anticamera:

—Dov'è dov'è questo ragazzo?—aveva sclamato, non pensando che il ragazzo s'era fatto ormai un uomo di quasi ventun'anni.

—È andato al cimitero—gli rispose il servitore.

—Ah, povero figliuolo!… È vero! Bravo, bravo!

Così dicendo, attraversò l'anticamera ed entrò in uno studio attiguo, dove era solito stare qualche ora del giorno a sbrigare le faccende della tutela.

—Dì un po'—ruppe a dir egli quando fu seduto allo scrittoio rivolto al Leopoldo—sei stato dal Saulino?

—Sì, signor cavaliere.

—Cosa ti disse?

—Che verrà qui lui dopo pranzo.

—E dal Sala?

—Anche.

—E quello che cosa ti rispose?

—Mi disse che ora non ha voglia di comperare carrozze usate. Ma stamattina è stato qui un signore a vederle in rimessa e ha fatto un'offerta.

—Quanto?

—Mille lire.

—Non c'è male. Si può cederle a questo prezzo, mi pare.

—La scusi signor cavaliere se metto il naso anch'io in questa materia. È solo per avvertirla che lo steage è quasi nuovo, perchè l'ha fatto fare l'anno scorso il signor conte e l'ha adoperato non più di otto volte in tutto l'anno.

—Ebbene?

—Ebbene dico che si potrebbe tenerlo, ora che è arrivato il signor contino. È un legno del buon genere.

—Che cosa? Buon genere? Bagattelle! Quest'è una parola inventata adesso. A' miei tempi non si parlava punto del buon genere.

"Sicuro. Quando regnava Carlo V" pensò tra sè il Leopoldo.

—Io di carrozza non me ne intendo una maledetta—continuò il notaio—ma se questo steage è quel demonio di un carrozzone coi sedili fin sull'imperiale come una diligenza….

—Sì, sì, proprio quello!

—Allora ti dico addirittura di mettere da parte il pensiero, perchè a trascinare quella macchina non ci vorranno meno di due cavalli….

—Come due! La dica pur quattro.

—Figuratevi! No, no, no, vendiamolo subito.

—Lei signor cavaliere vorrebbe forse che il signor contino tenesse meno di quattro cavalli in scuderia?

—Ma che quattro, ma che tre, ma che due!—sclamò il notaio vivamente.—Adesso so che è di gran moda un legnettino leggero da un cavallo solo. Tanto più per un giovinetto della sua età. Bagattelle, anche troppo!

—La mi scusi don Ignazio—disse il palafreniere con voce insinuante—ma anche volendo tenere un cavallo solo da tiro ce ne vorrà sempre almeno uno di cambio e uno da sella.

—Ma che cambio, ma che sella!—sclamò il notaio inviperito.—Il cambio è perfettamente inutile, perchè se quell'altro fa il suo servizio bene, il cambio resterebbe in stalla a mangiar fieno e biada a tradimento. E quanto a quello da sella si può scusare con un cavallo a doppio uso.

"Bazzica!" pensò il Leopoldo. "Come il curato di Cilavegna!"

E non disse più nulla, giacchè cominciò a mulinare come qualmente per rubare la biada ad un cavallo solo non gli sarebbe più convenuto di star in quella casa,

—Dunque?—domandò il notaio.

—Ma ecco, se il signor cavaliere mi permette di parlare.

—Te lo permetto.

—Le faccio presente che se il cavallo a doppio uso si ammalasse….

—Oh, allora poi, bagattelle, si va un po' anche a piedi… pedibus calcantibus.

"Ah sicuro!" pensava fra sè quello scorbellato di Leopoldo, "un bel paio di scarpe nuove e avanti."

—Io sono bene andato a piedi tutta la mia vita!—riprese il notaio.

"E sì, che è un cavaliere!" pensava l'altro.

—Se poi il mio signor pupillo non volesse proprio degnarsi di andar a piedi ci sono sempre dei buoni omnibus a dieci centesimi.

"Ma sì, guarda me! Non ci pensavo. Ci sono questi omnibus?

Adoperiamoli."

—Qualche volta ci vado anch'io in omnibus; non però quando non ho fretta, perchè allora arrivo prima colle mie gambe.

—Lei è il padrone!—conchiuse Leopoldo.—Faccia lei.

—Sicuro che debbo far io—sclamò il notaio.—Anzi, ti avviso di non mettergli in testa all'Enrico delle fisime inutili. L'economia è la madre di tutte le virtù, e quando un solo cavallo può far il servizio di tre, non saprei come possa venir in testa ad un cristiano di tenerne tre invece di un solo. Questi cavalli a doppio uso ci sono o non ci sono? Saranno ben stati inventati per qualche cosa, io credo? Adesso chiama la balia, che mi deve dar la nota della spesa della guardaroba.

* * * * *

Chi era la balia?

Poco prima che il notaio arrivasse a casa, una vecchia sbacando fuori da una scaletta interna, che metteva nelle cucine del palazzo, aveva sclamato tutta intenerita:

—Oh, ch'io lo veda questo mio signor contino, ch'io lo stringa ancora una volta al seno prima di morire.

Il palafreniere, che aveva condotto il padroncino nella camera del conte padre, pose l'indice attraverso le labbra e additando alla balia la stanza dove era entrato Enrico, aveva risposto:

—È là dentro e non vuol essere disturbato. Piange.

—Povero ragazzo!—sclamò la balia con amore.—Starò qui ad aspettarlo.

Così detto si adagiò, trasse di tasca la corona e cominciò a biascicare orazioni.

Ma il palafreniere non le lasciò il tempo di finire il panem nostrum quotidianum, che le domandò:

—Voi balia che dovete esser vecchia di casa….

—Altro che vecchia di casa!—interruppe questa.—Io sono nata nel castello dei conti O'Stiary, ed erano già sessantanove anni che ci stavo prima di venir giù a Milano. Io ho allattato il povero conte Guglielmo che è morto or ora; e sono stata la balia secca del contino Enrico.

—Tanto meglio! Io volevo domandarvi conto di questo signor marchese, che è venuto un'ora fa a a vedere se il contino era arrivato.

—Il marchese d'Arco?

—Sicuro. Mi pare di aver capito ch'egli abbia un grande attacco pel giovinetto che deve arrivare, e m'è passato per la testa, così per dire a dire, che egli fosse stato l'amante della mamma…. Si sa bene!

La balia levò lentamente la testa canuta, con un fiero rimprovero negli occhi:

—Dica, signor Leopoldo; la si ricordi che non è di moda in questa casa il fare dei giudizii temerarii. La contessa Irene era una santa donna e il bene che il signor marchese le voleva era come quello che noi altri cristiani vogliamo alla Madonna.

—Tanto peggio per lui!—rispose cinicamente il palafreniere.

Leopoldo fece entrare la vecchia e don Ignazio stava per interrogarla, quando s'intese il campanello dell'uscio d'ingresso e poco stante comparve sulla soglia dello studio il giovinetto conte.

Vedendo la balia, la quale si era voltata al rumor dell'uscio che s'apriva, Enrico le corse incontro, colle braccia tese e le saltò al collo.

—Oh Teresa, la mia buona Teresa, quanto tempo che non t'ho abbracciata!

Ma poi vedendo il suo tutore, che s'era levato dallo scrittoio e gli si avvicinava colle braccia protese, si staccò dalla balia e andò con premura verso di lui.

—Scusami, caro zio, se il mio primo saluto fu per la Teresa, che mi ha veduto nascere e che mi ha portato tanto in braccio.

La balia si asciugava col lembo del grembiale i luciconi.

—È naturale, caro Enrico—disse il tutore—Guarda che l'hai perfino fatta piangere di consolazione.

—La m'ha scusare—fece la balia, colla voce ancora fra le lagrime—ma non avrei potuto far di meno, e ora posso morire contenta. Avevo tanta paura di morire prima di poterla rivedere.

—Ma ho da sentir di peggio?—disse Enrico alla vecchia.—Dammi subito del tu come mi hai sempre dato in castello.

—Ah caro lei, adesso è impossibile signor conte. Adesso lei è un uomo.

—No, no, non importa. Ti comando espressamente di trattarmi ancora come pel passato.

Poi si volse al tutore.

—Ma sicuro che mi sei diventato un uomo!—sclamò questi,—tu mi mangi la torta in capo ora. Bravo, bravo! Bene bene! E dimmi un poco. Hai già vedute le mie donne?

—No,—rispose Enrico,—non mi ero ancora mosso dalla camera del povero babbo.

—Sono andate a messa,—disse la balia.—La signorina Elisa non vede l'ora di vederla,—aggiunse ella sottovoce, mentre il notaio s'era voltato.

—A proposito,—ripigliò questi—tu l'avrai già sentita la santa messa?

—La messa? Ma no, a dirti la verità. Sono arrivato di buon mattino, ho viaggiato tutta notte… non saprei neanche dove avrei potuto averla sentita.

—Bene, bene, per questa volta…! Oh, dimmi un poco, tu forse non avrai con te altri abiti che questi che hai indosso, non è vero? In ogni modo ti abbisogna un vestito di lutto.

—Sicuro! Quando il colonnello mi disse che il babbo era moribondo e mi lasciò partire, fu tale la mia fretta che non ho neppure fatta la valigia della biancheria. Ora bisognerà provvedere subito a tutto, altrimenti non potrei uscir di casa.

—Leopoldo,—disse il tutore al palafreniere,—andate ad avvisare il mio sarto che venga qui subito.

—Il suo sarto?—domandò Leopoldo con ironia.—Il portinaio di casa…?

—Ma sì, ma sì, il mio sarto,—replicò don Ignazio,—ci vuol tanto?

Andate.

Poi, rivolgendosi all'Enrico continuava:

—Non è certamente uno dei primi sarti di Milano, ma è bravino e mi è tanto raccomandato dal preposto della parrocchia. E poi, è tanto discreto nei prezzi. Vedi quest'abito?—Così dicendo voltava al contino le spalle per mostrargli una palandra, verdolina sgualcita sui gomiti, che gli faceva delle pieghe da tutte le parti.—Mi sta abbastanza bene, n'è vero? Ebbene, indovina un po' quanto me lo ha messo fuori, compreso stoffa, fodere, bottoni, guarnizioni, spedizioni, tutto insomma?

Enrico conosceva a un dipresso l'umore di suo zio e non fu sorpreso da quella domanda. Si die' a ridere; però rispose:

—Caro il mio zio, non me ne intendo davvero,

—Ma perchè ridi? Sono cose molto più serie di quello che tu imagini. Me lo ha fatto pagare ventinove franchi. E nota che l'ho già fatto voltare e rivoltare.

Enrico era un po' sulle spine. Tutta questa roba gretta, spilorcia, sordida gli faceva provare una specie di angoscia nervosa. S'intese il campanello.

—Saranno le mie donne,—disse il notaio.—Vedrai, vedrai anche la mia Elisa che hai lasciata colle vesti al ginocchio, come si è fatta grande e donna.

Enrico arrossì. Il nome di Elisa gli aveva dato un tuffo nel sangue.

Erano infatti la signora Eugenia Martelli e la Elisa che tornavano dalla messa.

* * * * *

Enrico ed Elisa, primi cugini per parte della madre, erano cresciuti insieme e si erano anche picchiati qualche garontolino giuocando a moscacieca nelle anticamere dell'avito palazzo. Enrico quasi non la riconosceva più, tanto s'era fatta grande, bella e vistosa uscendo dall'età ingrata.

I saluti, le condoglianze, le frasi scambiate fra di loro son tutte cose che il lettore intelligente imagina da sè. Elisa negli occhi, nel sorriso, nel colorito del viso, bello e innocente, mostrava una felicità così sincera e grande, che non c'era da sbagliarsi. Povera fanciulla! Ella s'era avvezzata già da qualche tempo a considerare apertamente il contino come il suo amante, come il suo futuro sposo. Era una cosa quasi convenuta in famiglia. Sua madre e la balia glielo ripetevano spesso. La balia qualche volta, non ridendo, la chiamava contessina. La mente dell'Elisa, per non dir ancora il suo cuore, era piena dell'imagine di Enrico, bello, giovine, conte, simpatico, ricco. Perchè non l'avrebbe essa desiderato per marito?

Del resto l'Elisa non ne sapeva nulla più in là!

Dopo una mezz'ora di condoglianze, di domande, di risposte, di progetti, di spiegazioni la signora, Martelli fece all'Enrico l'ambasciata del marchese d'Arco.

—Ci vado subito dal povero vecchio. Mi vuol sempre tanto bene?

—Oh sì,—disse la Elisa,—come tutti, del resto.

La madre diede a sua figlia uno sguardo significante.

Di lì a poco la signora Martelli domandò a suo marito se aveva pensato di invitare l'Enrico a pranzo.

—C'è anche Aldo Rubieri, che desidera di conoscerlo.

—Non faceva però bisogno d'invitarlo,—rispose don Ignazio,—dove vuoi che vada a pranzare oggi se non è con noi?

—Aldo Rubieri, il bravo scultore?—domandò Enrico.

—Lui! Io gli faccio tutti i suoi affari,—rispose il notaio.

—Oh! bravo, bravo, pranziamo insieme—aveva sclamato intanto l'Elisa battendo le palme una contro l'altra.

Ma l'esplosione di gioia erasi troncata di botto perchè ella aveva incontrato di nuovo lo sguardo severo di sua madre.

* * * * *

—Non vuoi proprio dunque imparare a dissimulare un poco i tuoi sentimenti?—le diss'ella quando furono sole.

—Ma che cosa ho fatto poi? Non m'hai detto tu stessa qualche volta che sono destinata ad essere la sua sposa?

—Certo—disse la madre—ma se vuoi che egli prenda molta stima di te, è necessario….

—Ch'io finga di non volergli bene?—interruppe l'Elisa.

—Non dico questo…. Tu sei sempre estrema nelle tue frasi. E poi pensa che c'è tempo. Egli non ha che ventun'anni. Figurati quanti ne devono passare ancora prima ch'egli abbia l'età conveniente per sposarti.

—Ah, non troppo poi!—sclamò l'Elisa con un adorabile atto di sorpresa—io ne ho quasi sedici, sai mamma, e fra quattro anni sarò già vecchia perchè ne avrò venti.

—Oh!—sospirò la madre alzando gli occhi alla soffitta,—esse credono di esser già vecchie a venti anni!

* * * * *

Un lungo colloquio ebbe luogo più tardi fra il marchese d'Arco e il giovine conte, che era andato in quella stessa giornata a cercare di lui.

—Tu sai come ti ha trattato tuo padre?—gli domandò il marchese fissando negli occhi il giovine con molta attenzione.

Enrico piegò leggermente il capo sul petto e rispose:

—Sì.

—E quali sono le tue intenzioni in proposito?—domandò il marchese con una leggerissima emozione nella voce. Tu fra poco in faccia alla legge sarai maggiorenne.

E il suo sguardo nelle pupille di Enrico raddoppiava d'intensità. Era ansioso.

—Io voglio rispettare religiosamente la volontà di mio padre,—rispose il giovane alzando la testa con molta naturalezza.

Il viso pallido del marchese, si illuminò; gli occhi gli si inumidirono. Allungò le braccia e attirò al petto il giovine conte, che non sapeva spiegarsi bene il perchè di tanta tenerezza.

A lui pareva una cosa tanto naturale quella di rispettare l'ultima volontà di suo padre!

"Bisogna dire—pensò fra sè—che la cosa a Milano non sia creduta molto facile."

Anche il tutore il giorno dopo abbordò la questione del testamento.

Don Ignazio, più ancora, del marchese, temeva che l'Enrico si ribellasse alla protratta maggior età e volesse tentare la lite, la quale aveva certamente assai probabilità di essere vinta, ma non la certezza. E s'ingannava!

A lui pure l'Enrico dichiarò quello che il giorno prima aveva risposto al marchese, intendere cioè di rispettare il testamento, quantunque fosse persuaso che legalmente parlando quella clausola non avrebbe avuta una sanzione!

Il cavaliere Martelli era fuori di sè per la gioia.

—Che bravo figliolo! Chi l'avrebbe detto! Che bravo figliolo! Allora discorriamo un poco del tuo avvenire—soggiunse egli col suo miglior sorriso.

Il ribollimento del suo dolore, fece scoppiar l'Enrico in nuovo pianto.

—Via Enrico—disse il tutore tra l'ammirazione e il compatimento—non rammaricarti poi troppo colle tristi memorie. Tuo padre, come pure la tua povera mamma, erano due degne e sante creature che ti stanno guardando di lassù e che ti proteggeranno contro i pericoli della vita.

—Son qua, se lo crede necessario,—disse il giovinetto.

—Hai tu pensato qualche volta a quello che vorrai farne della tua vita?—cominciò a bruciapelo don Ignazio.

—Quello che vorrò farne della mia vita?—ripetè Enrico—-ma credo che farò anch'io nè più nè meno di quello che fanno tutti gli altri.

—Gli altri, gli altri!—sclamò il tutore con una smorfia—chi sarebbero secondo te questi altri?

Enrico fu un poco sorpreso di questa specie di interrogatorio, ma dissimulando rispose:

—I miei amici d'infanzia, i giovani della mia età, i miei compagni di collegio… non saprei io… quelli che conoscerò in società… per esempio, mio cugino Lorenzo e Gigi Prato e Ferdinando Sappia che sono maggiori di me, ma che mi volevano tanto bene, e Alfonso Sant'Albano, che veniva sempre a trovarmi, con la sua mamma e con cui giuocavo… ti ricordi zio? precisamente in questo salotto, prima di andar in collegio….

—Ascolta, caro il mio figliolo; questo già non è il momento di farti un predicozzo sui cattivi compagni, però….

—Come!—interruppe Enrico—mio cugino Lorenzo e Gigi Prato e

Santalbano sarebbero cattivi compagni?

—Non dico questo… non faccio il nome a nessuno io… parlo in generale. Ti basti di sapere che acqua torbida non fa bel specchio. Qui a Milano ci sono dei giovani, così detti del buon genere, che buttano via il tempo, la salute e i quattrini in cavalli, in cene, in ball… in baldorie, in frascherie insomma, e che so io.

—Io non ho davvero queste intenzioni—disse Enrico seriamente.—In collegio mi hanno insegnato che cosa si deve fare per diventare un uomo che possa far onore al proprio paese.

—Tu mi consoli, caro Enrico—sclamò con giubilo don Ignazio.—Mi piace sentirti a parlare così dei Barnabiti!

Enrico sorrise.

—Dunque siamo intesi. Ora veniamo alla morale. Tu già non avrai più nessun danaro di quello che ti ho spedito per fare il viaggio.

—Non solo non ne ho più di quello, ma siccome, fatto il conto all'ingrosso, quello che tu mi hai mandato non sarebbe stato sufficiente per venire fino a Milano….

—Come! come! Ti sbagli,

—Io non volevo farmi vedere a piangere e ho preso un cuppè tutto per me, caro zio. Tu mi hai mandato il denaro misurato per viaggiare nei secondi posti.

—Io viaggio sempre nei secondi.

—Io no; sempre nei primi. Mi feci dunque prestare duecento franchi da un compagno a cui bisogna li rimandi subito.

—Cominciamo male!—disse il tutore grattandosi in capo.—Dunque non hai più neppur un centesimo?

—Ma no, caro zio; l'ultima lira l'ho data al facchino, che portò le mie valigie sul legno, tanto è vero che il cocchiere l'ha pagato la portinaia a cui debbo un altro paio di franchi.

—Ma caro Enrico, dovevi sapere che non si dà un franco al facchino della stazione.

—Non avevo altro. Non potevo farmi dar indietro il resto in spiccioli.

—Io ai facchini do sempre dieci centesimi e sono contentoni.

—Sarà benissimo.

—E poi che necessità di prendere un legno? C'è l'omnibus della stazione, che passa qui davanti alla porta.

Enrico cominciava sul serio a inquietarsi.

—Ti dicevo dunque—continuava il tutore—che per metterti nella società che conviene al tuo rango e alla tua educazione ci vuole un po' di denaro in tasca.

—Lo credo io!

—Però, tu non devi aver bisogno di molto. Qui hai il tuo bell'appartamento di sei camere. Hai la balia per la guardaroba e il palafreniere come cameriere e per la scuderia. Colazione, pranzo e vestiario tutto pagato. È un lusso asiatico. Veniamo dunque al concreto e fissiamo questa benedetta cifra dei minuti piaceri, che è lo scoglio più difficile da sorpassare coi pupilli. Quanto ti pare che ti dovrà abbisognare per le tue spese fuori di casa?

—Caro zio, ti ripeto che non ne so nulla. Potrei dirti troppo, potrei dirti troppo poco. Mi fido nella tua esperienza.

—Io sapevo che tu eri un bravo figliolo—sclamò il tutore tutto contento—noi andremo perfettamente d'accordo. Ebbene io avrei pensato che duemila franchi ti dovrebbero bastare….

—Ma anche di troppo!—sclamò ingenuamente Enrico battendo palma a palma.—Duemila franchi al mese sono un assegno principesco!

—Oh, Oh! Bagatelle! Come corri! Io m'intendevo dire duemila franchi all'anno.

—Ah!—sclamò il giovine mortificato—allora mi sembrano ben pochi!

—Perchè, diciamola qui fra noi; a che cosa ti devono servire questi benedetti denari fuori di casa? Ad essere buttati via in cose inutili, in cose da nulla, in sciocchezze, in frascherie. Un qualche capiler al caffè, quando tu voglia leggere i giornali, una qualche corsa in omnibus….

—Una qualche scampagnata cogli amici….

—Ah! le scampagnate, mio caro, costano troppo. E poi, adesso vedi, è diventato quasi inutile l'andar in campagna. Abbiamo il nostro bel giardino pubblico. Io ci vado spesso e talvolta mi par proprio di essere in Svizzera sulle Alpi.

—Oh, diamine! Ma, e il teatro?

—Se vorrai andar a teatro ti procurerò i biglietti pel

Filodrammatico. Tutti i venerdì ci va anche mia moglie coll'Elisa.

—Sì? coll'Elisa?—disse vivamente Enrico.—Volontieri ne approfitterò.

—Io credo dunque che con duemila franchi all'anno, che sono per così dire sei franchi al giorno, tu potrai fare una bella figura in società e forse anche qualche risparmio.

—Risparmio!—sclamò il giovine—perchè dovrei fare dei risparmi? Mi fu detto che io potrò disporre di circa ventimila franchi all'anno. Mi pare che tu zio ci pensi ora già abbastanza a fare per me dei risparmi. Duemila all'anno mi paiono pochi davvero!

—Bene, facciamo cifra tonda: duecento franchi al mese—disse il tutore mordendosi le labbra.—Del resto, come dico, in casa troverai tutto ciò che ti sarà veramente necessario.

—Basta così—disse Enrico che cominciava oltre al resto ad annoiarsi fieramente di quel dialogo.

—E di cavalli ne sono rimasti in stalla?—domandò egli dopo breve pausa.

—Oh, no—rispose il tutore—l'Elisa e mia moglie avrebbero ben voluto che li tenessi, ma io ho pensato che sarebbero rimasti in scuderia a mangiar fieno e biada a tradimento.

—Il poney almeno m'avresti fatto proprio un gran regalo a conservarmelo, caro zio!

—Ma sei un benedetto ragazzo—rispose il tutore—non capisci che il poney, come dici tu, è stato quello che mi ha compensato delle perdite che ho dovuto fare sulle quattro rozze da tiro.

—Lo credo bene!

—Ieri sono stato io stesso a vederne uno che par fatto apposta per te.

—Tu zio, sei stato a veder un cavallo per me?—disse Enrico ridendo.

—Sì, perchè?

—È bello?

—Sì, è bellino, ma quello che più importa si è che costa poco. Sono quasi certo di portarglielo via per un tozzo di pane.

—A chi di grazia?

—Ad un mio amico, che è uno dei primi sensali di zucchero e di cacao di Milano. E nota che è a doppio uso.

—Chi, il sensale?

—No, il cavallo. Egli lo monta e lo attacca alla carrettella.

—Mi pare che sarà un po' difficile che lo possa montar io.

—Ma perchè? Il mio amico lo montava tutti i dopo pranzo sul bastione, e bisognava vedere che brio. Adesso, povero diavolo, deve come aver sofferto delle disgrazie nel cacao, e gli tocca di vendere il cavallo per pagare i debiti.

—Ma è impossibile!

—Si può sapere il perchè?

—Caro zio, un cavallo che costa un tozzo di pane o è una gran rozza di figura, oppure è tanto vizioso, che mi farà rompere l'osso del collo in meno di quella.

—Tutt'altro invece. Vedi come sbagli—sclamò il tutore credendo aver trovata una gran ragione in contrario.—Quel mio amico non si è mai rotto l'osso del collo, quantunque siano già diciotto o vent'anni che lo monta.

Enrico scoppiò in una grande risata. Il tutore capì d'aver detta senz'accorgersi una minchioneria.

—Venti, e tre di puledro, ventitre per lo meno. Tu dunque zio vorresti darmi il cavallo dell'Apocalisse? Sarebbe più vecchio di me. Se lo montassi mancherei di rispetto al Luogo Pio Trivulzio!

—Bene, bene insomma, al cavallo ci penseremo più tardi,—disse don Ignazio levandosi—Oggi siamo intesi; aspettami qui che ti porterò la prima quindicina dei minuti piaceri.

—Cento franchi?

—Cento franchi.

—Basta! Io penso poi che se non mi basteranno tu zio non vorrai mostrarti crudele verso di me.

—Crudele no, mio caro Enrico, ma neppur troppo corrente. Ricordati che c'è un limite a tutto e che il mio dovere di tutore e di esecutore testamentario è quello, non solo di conservarti intatta la sostanza, che tuo padre morendo ha affidata alle mie cure, ma anche di aumentarla; perchè devi pensare che, per uscire dalla minorità fissata da tuo padre nel testamento, ti mancano ancora quasi quattro anni.

Con tale considerazione era terminato fra tutore e pupillo questo memorabile dialogo, il quale doveva essere, per così dire, la pietra fondamentale d'un edificio destinato a crollare e a cadere a terra in meno appunto di quattro anni.

* * * * *

Enrico O'Stiary s'era dato a fantasticare anche lui sul proprio avvenire, e, cosa non molto strana nella sua posizione, s'era sentito invaso, insieme a un certo desiderio di gloria artistica, giacchè egli adorava, la pittura, da una grande voglia di spendere, di brillare, di far la bella vita. L'avvenire? L'avvenire, pensava lui, come quello della maggior parte dei mortali, che non hanno una meta fissa e sicura o che non possedono la forza d'animo che serve a raggiungerla, è in balìa della fortuna; poteva dipendere dalla prima donna che avesse incontrata sul suo cammino, dalla prima amicizia che avesse stretta al club, dal primo avvenimento che gli fosse capitato sulle spalle.

Il tutore dal canto suo non aveva già fatto, senza saperlo, il primo passo per riuscire alla di lui più deplorabile rovina finanziaria?

Negandogli i mezzi di vivere dignitosamente nella società del suo rango, obbligandolo a far sicuramente dei debiti, fissandogli nella sua gretta ignoranza del mondo, i duecento franchi al mese, non gli apriva forse dal bel principio la strada al disastro?

Qualche volta c'è da pensare volentieri che i Turchi non abbiano così gran torto di credere nel destino! La nostra sorte, la nostra felicità, la nostra vita pur anche, non è forse continuamente in balìa del caso? Se il tal dei tali fosse uscito dalla sua porta il tal giorno, del tale anno, soltanto cinque minuti più tardi, avrebbe forse incontrata alla svolta della via quella straniera, che lo colpì di botto, che si fermò a Milano per lui, ch'egli amò come un pazzo, che lo rovinò miseramente e che lo spinse al suicidio? Se quell'altro tal dei tali, invece di tirar dritto per un'altra via avesse dato ascolto all'amico, che lo pregava di svoltare con lui a sinistra e di accompagnarlo a casa, avrebbe forse trovato quei malandrini che lo accopparono quella famosa notte per rubargli il portafogli e l'orologio? E suo figlio, non orfano, sarebbe certo cresciuto un galantuomo, mentre oggi sta a Procida condannato a vent'anni di lavori forzati!

Il primo amico in cui s'imbattè il conte Enrico O'Stiary, lo stesso giorno del suo arrivo a Milano, fu il Marchesino Ferdinando Sappia, che venne a cercarlo in casa.

—Finalmente! Sai tu che sono ormai più di tre anni che non ci vediamo?—sclamò il Sappia contento di riabbracciare il suo giovine amico d'infanzia.

—Come ti vedo volentieri,—disse a sua volta Enrico con uguale espansione.

Qui il Sappia, vedendo che Enrico era ancora mezzo vestito da garibaldino, gli domandò se non pensava a mutar d'abito e a uscir di casa.

—Certamente,—rispose Enrico,—sto aspettando che il sarto mi rechi il vestito nero.

—E chi è mai di grazia il tuo sarto?—domandò il marchese, mentre arrovesciava indietro sull'omero con ineffabile garbo la rivolta del suo soprabito da mattino.

—A dirti il vero non lo so bene ancora; ma credo non debba essere gran cosa perchè mi pare di aver udito, non ridere! che sia un portinaio.

—Un portinaio!—sclamò il Sappia, balzando in piedi come preso da vero spavento.—Tu conte O'Stiary, discendente…

—Bene lascia stare la genealogia!…

—Vestito da un sarto portinaio come un diurnista del Municipio? Ma è un tradimento, un disonore, un abbominio!

—Che importa? Tu sai che io sono un artista! Io non faccio conto di andar attilato come te.

—Prandoni mio caro,—gridò il Sappia, continuando colla intonazione semienfatica con cui aveva incominciato.—Fuori di questo non c'è salute.

Il Sappia era un di que' giovani, che quando parlano non ascoltano che sè stessi, e non rispondono mai direttamente all'interlocutore. Per essi l'obiezione, l'affermazione e la negazione di quegli con cui stanno a colloquio non esistono. Si capisce che essi non spezzano mai nella mente il filo delle proprie idee; talchè la parte abbondantissima che essi mettono nel dialogo finisce coll'essere un lungo soliloquio, nel quale non trova posto neppur l'ombra del sentimento altrui.

—Che vuoi caro Nando—disse Enrico appena potè avere la parola—sono arrivato oggi stesso dopo essere stato per molti anni nei padri barnabiti e per molti mesi volontario in guerra. Sono ignorante come un pilastro di queste cose. Da quest'oggi, se vuoi, io mi metto sotto la tua direzione. Comincerò col licenziare il sarto portinaio.

—Il tuo tutore—ripigliò il Sappia—sarà un bravissimo, notaio, ma non può avere pratica di mondo. Guai a te se io non arrivavo da Parigi.

—Ah sei stato a Parigi?

—Sono tornato l'altro giorno con Filippo Marliani che è fuggito via dalla Nanà, perchè temeva di pigliare una potente cotta. Anzi l'aveva già pigliata! Ma fu bravo e mi diede ascolto.

—Nanà?—domandò Enrico curioso come un fanciullo, udendo quel nome muliebre esotico, e vedendo schiudersi con esso un inaspettato spiraglio del mondo delizioso d'amore a cui sognava.

—Sì, un'attrice delle Varietès, una cocotte in gran voga… una bellezza superlativa.

—Ah una cocotte!—ripetè quasi macchinalmente Enrico.

Il Sappia non fe' caso di quell'esclamazione e tirò via.

—Guai ti dico se io non giungevo in tempo. Chissà come ti conciavano. E sopratutto non lasciarti abbindolare dalle stupide ragioni di chi ci dà del leggiero e dell'effeminato, perchè spendiamo qualche migliaio di lire più di loro nel vestirci, nel pettinarci, nell'andare eleganti. Mummie costoro! Il vestirsi bene per noi ricchi e nobili è un dovere nè più nè meno di quello del farci la barba tutti i giorni e del curvarci a raccogliere un ventaglio o una pezzuola sfuggiti di mano a una signora.

Notisi che tutte queste cose, esposte dal Sappia con una grande volubilità, non erano che teorie; giacchè, quanto a lui, se lo poteva appena appena, schivava di curvarsi a terra per raccogliere il ventaglio di una signora.

Enrico cominciava ad ascoltare il Sappia con quel sorriso a mezza strada fra l'ironia e la sazietà; un sorriso che voleva dire: sono anch'io perfettamente del tuo avviso; non c'era bisogno che tu ti sfiatassi a dirmi cose tanto note; sarebbe stato meglio che tu mi avessi risposto qualche cosa di meglio intorno a quella Nanà….

Il Sappia, dopo un altro paio di tirate su quel gusto, trovando, che Enrico era presso a poco della sua statura, lo invitò a scender nel brougham che teneva alla porta per andar da Prandoni a comandar l'abito di lutto. O'Stiary non se lo fece dir due volte e così uscirono insieme.

Quando furono seduti l'uno accanto all'altro nel legno, Enrico disse:

—Ora tu devi farmi un programma della mia vita. Come passi tu le ore della tua giornata? Ti diverti o ti annoi a Milano? È bella davvero questa vita milanese o c'è pericolo di stancarsene?

—Non è certo tutto oro quel che luce;—rispose questa volta il Sappia, che trovava in quella domanda soddisfatto l'amor proprio.—Si stava meglio a Parigi! Però con un poco di buona volontà e con molti danari….

"Ahi," pensò Enrico.

—La giornata la si può passare abbastanza bene anche qui senza studiare e senza far della politica, come vorrebbero che facessimo noi giovani i parrucconi e i gazzettieri utopisti, che ci rinfacciano continuamente il dolce far niente. Povera gente! Essi non sanno che non c'è creatura la quale abbia maggior da fare d'un uomo che non fa niente! E la ragione è chiara; siccome la sola religione di costoro è l'interesse, siccome il solo idolo ch'essi adorano è il danaro, così sapendo che in questo paese non si può guadagnar danaro, che facendo l'avvocato o il notaio o il negoziante, essi non vedono che queste professioni. Del resto tu sei dilettante di pittura e questo basta già a darti il diploma di uomo che fa qualche cosa a questo mondo.

—Tutto sta che io trovi il tempo di dipingere….

—Tu discendi da un'antica prosapia irlandese, ed è naturale che i tuoi istinti siano più cavallereschi che artistici o letterarii. Ebbene quella tal genìa col pretesto che a Milano nell'aristocrazia ci furono dei Verri, dei Beccaria, dei Borromei, dei Taverna, dei Litta, dei che so io, vorrebbero che tutti noi fossimo scenziati e letterati e che invece di montare a cavallo, tirar di spada, far delle scarrozzate, amar le belle donne, e divertirci a cena avessimo a studiar tutto il giorno e tutta la notte. Non nego che la cosa in massima non sia eccellente, ma più per tutti gli altri che per noi. Noi abbiamo il dovere di non rubar il mestiere a chi lavora per vivere. Le tre sole carriere che ci convengano sono quella delle armi, quella della diplomazia e quella della chiesa. Ma se si può far a meno!… Capisci. Di diventar arcivescovo, per esempio, io non mi sento la foia.

—Neppur io. Tu mi consoli—disse O'Stiary.

—Intanto per questa sera tu sei sequestrato—continuò il

Sappia.—Comincerò col presentarti alla mia amorosa.

—Chi è?

—Una bella ragazza, che non ha altro difetto che una piccola cicatrice in fronte. Le ho già parlato di te e desidera di conoscerti.

—Desidera di conoscermi?—sclamò Enrico ridendo.—Sono dunque diventato già un personaggio in poche ore? Ma no, ti sono obbligato—riprese facendosi serio ad un tratto.

L'imagine casta e nobilissima della sua Elisa gli si era affacciata a un tratto.

—Capisco—ripigliò—che con una signorina di questo genere sarei ancora molto imbarazzato e temo di aver l'aria di un collegiale.

—Fidati di me. La è una casa deliziosa. Non perchè gliel'abbia montata io… ma ella sa fare, parola d'onore. Sans gêne, come lei, che in illo tempore fu barabbina la sua parte. Dopo cinque minuti ti parrà d'essere in casa tua. La si saluta, poi chi non ha voglia di farle la corte non pensa più nemmeno che essa esista. Tu ti sdrai, fumi, parli, leggi, ridi, sfogli degli albums e senti dire delle enormi sciocchezze e dei calembours impossibili che sono anche quelli che fanno ridere di più.

—E la ragazza è contenta che la si tratti così?

—Contentissima. L'abbiamo lanciata noi?

—Dimmi un po'…. E questa Nanà chi è?

—Ah Nanà è un prodigio! È una parigina puro sangue! Bella come una leonessa, matta come una Baccante, calda, piena di spirito. Quel povero Marliani, s'io non lo strappavo da lei, ci lasciava la sostanza, la salute e le ossa.

—E tu?—domandò il conte.

—Oh, io non mi lascio pigliare!

Non appena, nel cervello del marchesino Sappia, fu entrata l'idea, che parlando all'amico di quella gran cocotte di Parigi, il proprio prestigio di uomo di mondo ne sarebbe ingrandito di cento palmi, cominciò a lodare e a magnificare Nanà in tutti i sensi. Da sballone d'ingegno, qual era, inventò su di lei cose inaudite e rare. Parlò delle di lei bellezze, del suo treno di casa, delle sue scuderie, del suo modo di ricevere, del suo appartamento. Cose tutte, tranne la prima, che egli non aveva mai vedute, nè conosciute, che per bocca di Marliani.

—Imagina una testa—disse a Enrico—che avrebbe fatto delirare Tiepolo, Giorgione e Tiziano insieme; una testa coi capelli color del pomo d'oro pallido, quando è proprio d'oro, quel colore insomma che la scuola veneta prediligeva; capelli che quando glieli scioglievi, andavano giù fino a terra e la celavano tutta intorno intorno, tanto ne era il profluvio. Imagina tutto ciò che v'ha di più bianco e di splendido nei toni della carnagione, che, come puoi pensare dal color dei capelli, è pari a neve, rosata insieme e calda, con dei riflessi d'oro per la lanugine fulva che la ricopre. Imagina delle linee e delle curve sode e belle come non le hanno mai imaginate neppure gli scultori greci, che si crede abbiano dato il non plus ultra della formosità femminile. Tutte queste bellezze di linee e di curve formano un vero incantesimo, caro il mio Enrico. In quanto al morale imagina una buona pasta di fanciulla, piena di cuore, di voglia di far all'amore, allegra, spensierata, alla mano, una vera bambina di diciannove anni, ma che conosce la scuola erotica come una parigina ch'ella è, e che sa mandarti in paradiso o in inferno a tua posta; imagina tutto questo, e avrai una pallida idea di quello che sia la Nanà di Parigi.

Nanà a Milano

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