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AMERICA DEL SUD

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LA DONNA VELATA

(Quintetto romantico di un decapitato ecuadoregno)

Nuziale veleno nel

rantolo dell’ebbrezza.

Urli il dolore che fuoriesce dai tuoi pori

quando riveli la tua dentatura

ed eserciti il tocco di Tanato.


Pioggia di oscuri prismi rovesciati.

Vulva putrefatta che intorpidisce la fellatio.

Coloro che ti hanno baciato testimoniano la tua fragranza,

ma coloro che hai toccato sono morti;

ergo, ho parlato con la morte.


Vicoli angusti ti venerano,

madre dell’oscurità, sposa del sonno,

amante dello zolfo, amica dell’antracite.

La magnolia espelle il sudore dal tuo utero:

squarcia le strade ecuadoregne come carcasse.


Distrai il giovane e l’anziano nello stesso modo.

I tuoi postulati filosofici: sesso e punizione.

Coloro che ti hanno visto legittimano la tua bellezza,

ma ora sono chierici oppure sono nei manicomi;

ergo, ho parlato con un’imbrogliona.


Una notte, ebbro d’amore, ti raggiunsi.

Ti trovai nera come il silicio

e io pallido come uno stagno

che rifletta la luna del tuo sesso.

Il suicidio è la forma più pura d’amore.



IL MUQUI

(Poema umano di un minatore peruviano)

Appartengo alle miniere.

L’alba dà fine a tutto o dà inizio a tutto.

Il corollario degli storpi è un cantico di dolore.

Mastico una foglia di coca mentre mi masturbo

rimuginando sulla paralisi del materialismo.


Sono inafferrabile sebbene i miei cugini siano gregari

e circolino per i torrenti come uno sciame di ilarità.

Ho decodificato i loro quipu e le loro passioni,

ho studiato l’oro e l’uomo.


Appartengo all’acqua

che lava anche gli angoli più cupi:

un minatore passa con le sue ascelle puzzolenti,

sbatte la sua testa contro una pietra nerissima.

Come poter parlare quindi della chiusura categoriale

se i suoi figli, giovani e ninfe, non hanno mangiato?


Non ho collo: come poter spiegare l’esistenzialismo?

Loro tremano: gridano per il freddo; loro urlano: sono a digiuno.

Porto il poncho: come credere nel dio sole, se ci abbandona?

Mangio muschio: come confidare in Huiracocha se non c’è mais?

Uso il sombrero: come avanzare se ci permutano le idee?

Sono piccolo: la natura umana fa schifo

tanto quanto la natura degli dei.

Io puzzo, tu puzzi, e così fino all’infinito.


Sono il murik che dà la liberazione

delle trasparenze che si riuniscono dopo la sera.

Il cammino verso la salvezza conduce a una miniera

e loro sono i muriski che si lasciano condurre.


Mi hanno visto a Cuzco, a Cajamarca e Arequipa.

I più audaci sognano di catturarmi nelle loro terre.

Non so se la laringe che ho studiato ieri appartenesse

a un boliviano o ad un peruviano; la presi intatta dal Titicaca.


Mi accusano di rubare gli strumenti dei minatori.

Io mi vanto di commettere malefatte più sublimi.

Oggi ho giocherellato con l’ombelico di uno stagno

e in cambio di tale carità due pepite d’oro.

Il sangue dell’umanità continua a distillare sopra le pietre.

Poi mi sono rinchiuso nell’Uku Pacha.

Il crepuscolo dà fine a tutto o dà inizio a tutto.



YASI YATERÉ

(Lamento di un adolescente paraguaiano)

Il petto biancastro, i capelli cangianti.

Bizzarro nano albino in mezzo a stolidi mulatti

propizia l’eccesso degli innocenti.


Lilith e Asmodeo furono i suoi antenati.

A loro obbedisce il bastone fatto di rami e oro.

Uno splendore è il suo amico all’abbandonare la luna.


Percepisci il fruscio delle fronde e ti osserva dal fogliame.

Ti obbliga a impazzire mentre suona il suo strumento.

Offre frutta e miele selvatico alla tua nuda adolescenza.


Se sei un giovane di suo gradimento: bacio sulla bocca.

Se sei una fanciulla: morso sulla nuca.

C’è chi afferma che nel cielo non vi sia luce,

che l’oscurità sia ventriloqua e

Yasi Yateré il miglior interprete dei suoi monologhi.


Ci sono anche gli animali ottimisti.

Credono che il folletto del flauto inebri

con inventiva per controllare le masse

di creature anemiche che si perdono nella canicola.


Yasi Yateré spia dai rami.

Yasi Yateré scaccia rospi, pappagalli e tapiri.

Yasi Yateré non fa la siesta.



L’UOMO CAIMANO

(Poema esistenziale di un caimano colombiano)

Alcuni assicurano che io abbia corpo di caimano

e testa di uomo.

Io dico che i miei pensieri sono umani:

vile tessuto di frasi oscure.


C’è chi dice che ho testa di uomo

e corpo di caimano.

Io dico che il mio cuore è bestiale:

parassita anomalo che nuota nel caos.


Un giorno copulai con una nera e le sue labbra

erano come fiori di cristallo che raggiungevano una palude.

Venne il tramonto e continuavamo a copulare.

Ella gemette e io le dissi Ti amo.


Mi innamorai della nera e delle sue labbra leggere,

la delicatezza del loro intreccio che incendiava le mie squame.

Fu l’ultima notte che la vidi al fiume Magdalena

e vagai lungo le sue sponde per mio proprio scherno.


Gli spettri confabulano sulle proprie leggende

e proiettano le loro frustrazioni sulla mia vita.

Ficcanaso intermittenti che oscurano il giorno,

tristi voyeuristi che alimentano la notte.


Penso come un uomo e sento come una bestia.

Quando mi trasformo in uomo sono depravato,

produco il fondamento di pallidi slogan.

Quando mi trasformo in bestia sono sensitivo

e mi innamoro delle creature dell’acqua.


Quando divento un uomo sono la bestia.

Quando mi annichilisco sono la resurrezione delle paludi.

Sono un caimano con testa di uomo

o sono un uomo con corpo di caimano?

Quando è degenerata la mia natura e mi sono trasformato in un umano?


Ogni giorno combatto per non confondermi col mostro.

Cerco la nera tra le macerie

che hanno dato luogo a estuari di pessimismo.

Da Plato a Bocas de Ceniza,

sempre mi vedranno sulle coste dei Caraibi.



IL KHARISIRI

(Ballata fischiata al vento da Guaqui a Potosí)

Calano le ombre e si svegliano le loro viscere.

(Il lago Titicata è di suoni un alveare)

Le creature emergono con una nuova pelle.

(I wacana, wac, wac, insistono col loro starnazzare)


Coro

Non guardare i loro occhi, i loro capelli biondi.

Il demonio dell’altopiano.

Il demonio delle Aymara.

Non invocare il suo nome, non dire il suo nome:

Liqichiri, Phistaco, Ñaqaq, Khari Khari.

I demoni già non dormono.


Non viaggiare mai da solo lungo i sentieri dell’Achacachi.

(A volte non cerca il grasso ma il midollo)

Se non ci sono umani si ciba di alpaca.

(Prima ti ruba l’anima, poi usa il suo strumento)


Si ripete il coro

Non guardare i loro occhi, i loro capelli biondi.

Il demonio dell’altopiano.

Il demonio delle Aymara.

Non invocare il suo nome, non dire il suo nome:

Liqichiri, Phistaco, Ñaqaq, Khari Khari.

I demoni già non dormono.



IL SILBÓN

(Monologo di un cavaliere solitario venezuelano)

Suono acuto spinto dall’aria

invade il silenzio e squarcia le tenebre:

sorge lo spavento, i peli si rizzano.

La notte risplende di oscurità.


Fischio che rompe il solfeggio,

un errante si trascina in lontananza

tra la coperta di nebbia

proclama l’arrivo della morte.


Il suo fischio nasce come frutto di dolore,

grido di assassino, lamento di parricida.

Maledetto dai suoi antenati

si porta dietro lo scheletro del suo progenitore.


Vaga per le pianure in tempi di pioggia,

percorre Los Llanos in tempi di siccità;

mentre riposa un latrato lo spaventa:

il cane Tureco lo segue fino alla fine dei giorni.


Il fischio penetra nelle orecchie e infonde freddo,

perseguita le donne incinta e gli ubriachi.

È lungo e goffo come una falce.

Cammina con lo sguardo melanconico.


Usa un sombrero che nasconde la sua vergogna.

Usa una borsa che gli piega la schiena.

Usa una pena che lo consuma.

Usa un dolore che lo condanna.


Se il fischio si sente vicino,

non temere perché il Silbón è lontano.

Se il fischio si sente lontano,

il Silbón è su di te.


Perseguita noi ubriaconi e donnaioli.

A noi sbronzi risucchia l’ombelico

per bere il nostro alcol.

A noi donnaioli ci fa a pezzi.


Non si riposa.

Quando si concede il riposo

parlando con lo scheletro del suo creatore,

l’ululato di Tureco lo terrorizza.


Gli innocenti li scuoia

e colleziona gli scheletri

insieme ai resti del suo artefice.

Se sei uno che cammina porta con te il tuo cane.


Il fischio è premonizione di morte.

Facciano attenzione coloro che transitano

per le pianure di Guanarito

o per le pianure di Cojedes e Barinas.



LA VEDOVA

(Canzone disperata di una vedova cilena)

Mi sposai con la luna piena con un amore smisurato.

Il mio sposo mi prese quella notte felice.


Confusione d’amore, luna e sangue: lo assassinarono.

Giurai di terminare la stirpe degli omicidi: impazzii.


Feci un patto con forze oscure che promisero di ricambiare

se avessi compiuto una quota di omicidi notturni.


Non esitai e intrapresi la folle impresa,

cercando etilici vietati, ubriaconi adirati.


E grido: Voi lo assassinaste e sono rimasta così sola,

sorprendendoli alle spalle con le mie sembianze di spavento.


Conservo la mia essenza femminile con la mia sottoveste.

Sono alta, non lascio scorgere il mio volto attraverso il velo.


Fermo destrieri, carrozze, automobili,

motociclette, barche da Chiloé a Puerto Montt.


Compaio alle loro spalle, bacio di spettro.

Li strangolo in un abbraccio di furia e passione.


Faccio sì che lo stallone rallenti nel cammino.

La bestia nitrisce e impazzisce disperata.


Io sorprendo la nuca della creatura ignara


Bestiario Americano

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