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CAPITOLO DUE

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Cieco. Freddo. Scosso. Assordato. Confuso. Dolorante.

La prima cosa che Reid notò svegliandosi fu che il mondo era buio, non riusciva a vedere niente. La puzza acre di carburante gli riempiva le narici. Cercò di muovere le membra doloranti, ma le mani erano legate dietro la sua schiena. Stava congelando, ma non c'era un alito di vento, solo aria fredda, come se fosse seduto in un frigo.

Lentamente, come se emergessero da una nebbia, i ricordi di quello che era successo gli tornarono alla mente. I tre uomini mediorientali. La sacca sulla testa. L’ago nel braccio.

Il panico prese il sopravvento e cominciò a tirare le manette e ad agitarsi. Gli si accesero di dolore i polsi, dove il metallo delle manette gli tagliò la carne. La caviglia pulsava, spedendo ondate di sofferenza su per la sua gamba. Aveva un’intensa pressione nelle orecchie e non riusciva a sentire nulla se non il rombo di un motore.

Per un breve istante provò una strana sensazione allo stomaco, come dovuta a un’accelerazione verso l’alto. Era su un aereo. E a giudicare dal rumore non era un normale aereo passeggeri. Il rombo, l’intenso rombo del motore, la puzza di carburante… capì che doveva trovarsi su un aereo cargo.

Per quanto tempo era rimasto svenuto? Che cosa gli avevano iniettato? Le ragazze erano al sicuro? Le ragazze. Gli salirono le lacrime agli occhi, mentre sperava contro ogni buon senso che stessero bene, che la polizia avesse ricevuto il suo messaggio, che le autorità fossero state mandate a casa sua…

Si agitò sul suo sedile di metallo. Nonostante il dolore e la gola chiusa, provò a parlare.

“Sa-salve?” Fu poco più di un bisbiglio. Si schiarì la gola e provò di nuovo. “Salve? C’è qualcuno?” Si rese conto che il rumore del motore avrebbe coperto la sua voce e nessuno che non fosse stato seduto accanto a lui lo avrebbe sentito. “Salve!” provò a gridare. “Vi prego… qualcuno mi dica che…”

Una secca voce maschile gli sibilò qualcosa in arabo. Reid sussultò. L’uomo era vicino, a meno di un metro di distanza.

“Ti scongiuro, dimmi che cosa sta succedendo,” supplicò. “Che cosa volete? Perché mi state facendo questo?”

Un’altra voce gridò minacciosamente nella stessa lingua, quella volta dalla sua destra. Reid sussultò per il duro rimprovero. Sperò che il movimento dell’aereo mascherasse il tremore del suo corpo.

“Avete preso la persona sbagliata,” disse. “Che cosa volete? Denaro? Non ne ho! Posso… aspettate!” Una mano robusta si chiuse in una morsa attorno al suo braccio e fu strappato dal suo sedile. Barcollò, cercando di rimanere in piedi, ma l’instabilità dell’aereo e il dolore alla caviglia ebbero il sopravvento. Gli cedettero le ginocchia e cadde su un fianco.

Qualcosa di solido e pesante lo colpì al corpo. Il dolore si allargò per tutto il suo busto. Cercò di protestare, ma gli salirono alla bocca solo singhiozzi intellegibili.

Un altro stivale gli atterrò sulla schiena. Poi un altro, al mento.

Nonostante la situazione tremenda, Reid fu colto da uno strano pensiero. Quegli uomini, le loro voci, i loro colpi, tutto suggeriva una vendetta personale. Non si sentiva semplicemente attaccato. Si sentiva odiato. Erano arrabbiati, e la loro rabbia era diretta precisamente verso di lui.

Il dolore si allontanò, lentamente, e lasciò spazio a un freddo torpore che lo avvolse completamente mentre perdeva coscienza.

*

Dolore. Acuto, pulsante, incandescente.

Reid si svegliò di nuovo. I ricordi del passato… non sapeva nemmeno quanto tempo fosse passato, né sapeva se fosse giorno o notte, o dove si trovasse. Ma i ricordi tornarono, frammentati, come fotogrammi tagliati da una pellicola e lasciati a terra.

Tre uomini.

Il telefono delle emergenze.

Il furgone.

L’aereo

E ora…

Reid si azzardò ad aprire gli occhi. Fu difficile. Gli sembrava che gli avessero incollato insieme le ciglia, ma anche dietro la pelle sottile vedeva una luce accesa e rovente. Ne sentiva il calore sul volto, e distingueva la rete di capillari delle proprie palpebre.

Strizzò gli occhi. Tutto ciò che vedeva era quella luce crudele, luminosa, bianca e penetrante. Dio, gli faceva male la testa. Cercò di gemere e scoprì, grazie a una nuova scarica di dolore, che anche la mascella gli doleva. Aveva la lingua gonfia e secca, e in bocca c’era un sapore metallico. Sangue.

I suoi occhi… capì che era stato difficile aprirli perché in effetti era incollati insieme. Il lato della faccia era caldo e appiccicoso. Il sangue gli era colato dalla fronte e negli occhi, senza dubbio per via dei calci che aveva preso sull’aereo.

Ma riusciva a vedere la luce. Gli avevano tolto la sacca dalla testa. Che fosse o meno un risvolto positivo rimaneva ancora da vedere.

Mentre si abituava alla luce, cercò invano di muovere le mani. Erano ancora legate, ma non più da manette. Grosse corde ruvide lo tenevano fermo. Anche le sue caviglie erano strette alle gambe della sedia di legno su cui si trovava.

Dopo poco cominciò a intravedere sagome incerte in mezzo al chiarore. Era in una piccola stanza senza finestre con pareti irregolari di cemento. Era caldo e umido, abbastanza perché il sudore lo solleticasse dietro al collo, nonostante si sentisse il corpo freddo e insensibile.

Non riusciva ad aprire del tutto l’occhio destro e provarci era doloroso. Doveva aver preso un calcio, o forse i suoi rapitori avevano continuato a picchiarlo mentre era svenuto.

La luce brillante veniva da una sottile lampada tecnica su una base alta e con le ruote, che era stata sistemata alla sua altezza e puntata verso la sua faccia. La lampadina alogena emetteva una luce intensa. Se c’era qualcos’altro dietro quella lampada, lui non riusciva a vederlo.

Sussultò quando un secco suono metallico riecheggiò nella stanzetta—il rumore di una serratura che veniva aperta. Cardini cigolarono, ma Reid non vide nessuna porta. Poi si richiuse con un frastuono discordante.

Una figura si frappose tra lui e la luce, incombendo su di lui e mettendolo in ombra. Reid tremò e non ebbe il coraggio di alzare lo sguardo.

“Chi sei tu?” La voce era maschile, leggermente più acuta dei suoi precedenti aggressori ma colorata dallo stesso accento mediorientale.

Reid aprì la bocca per parlare, per dire che non era altro che un professore di storia e che avevano preso la persona sbagliata, ma si ricordò che l'ultima volta che ci aveva provato era stato preso a calci fino a svenire. Gli sfuggì solo un gemito.

L’uomo sospirò e si spostò dalla luce. Qualcosa fu trascinato sul pavimento di cemento, le gambe di una sedia. Lo sconosciuto spostò la lampada lontano dal volto di Reid e si sedette davanti a lui, tanto vicino che le loro ginocchia quasi si toccavano.

Reid alzò lentamente lo sguardo. L’uomo era giovane, doveva avere al massimo trent’anni, con la pelle scura e un’ordinata barba nera. Portava occhiali rotondi dalla montatura argentata e una kufi bianca, un cappello tondo senza tesa.

Dentro Reid sbocciò la speranza. Il giovane uomo sembrava un intellettuale, non come i selvaggi che lo avevano attaccato e strappato da casa sua. Forse avrebbe potuto negoziare con lui. Forse era al comando…

“Iniziamo dalle cose semplici,” disse l’uomo. La sua voce era bassa e tranquilla, parlava come uno psicologo avrebbe potuto rivolgersi a un paziente. “Come ti chiami?”

“Io… Lawson.” Al primo tentativo quasi non riuscì a parlare. Tossì, e fu vagamente allarmato di vedere gocce di sangue colpire il pavimento. L’uomo di fronte a lui arricciò disgustato il naso. “Mi chiamo… Reid Lawson.” Perché continuavano a chiedere il suo nome? Glielo aveva già detto. Aveva fatto un torto a qualcuno non volendo?

L'uomo sospirò piano, dentro e fuori dal naso. Appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si sporse in avanti, abbassando ancora di più la voce. “Ci sono molte persone che vorrebbero essere in questa stanza, al momento. Fortunatamente per te, siamo solo tu e io. Però se non sei sincero con me non ho altra scelta se non invitare… gli altri. E loro tendono ad avere poca compassione.” Si raddrizzò. “Quindi te lo chiedo di nuovo. Come… ti… chiami… ?”

Come poteva convincerli che era chi diceva di essere? I battiti del cuore di Reid presero velocità mentre la realizzazione lo colpiva come una mazzata alla testa. Stava rischiando di morire in quella stanza. “Ti sto dicendo la verità!” insistette. All’improvviso le parole sgorgarono dalle sue labbra, come acqua che avesse sfondato una diga. “Mi chiamo Reid Lawson. Ti prego, dimmi perché sono qui. Non so che cosa sta succedendo. Non ho fatto niente…”

L’uomo schiaffeggiò Reid sulla bocca. La sua testa scattò di lato e lui ansimò per il dolore del labbro appena spaccato.

“Il tuo nome.” L’uomo si pulì il sangue dall’anello d’oro che aveva alla mano.

“Te l’ho detto,” balbettò. “Mi chiamo Lawson.” Soffocò un singhiozzo. “Ti prego.”

Alzò lo sguardo, spaventato. Il suo interrogatore lo fissò a sua volta, impassibile e freddo. “Il tuo nome.”

“Reid Lawson!” Reid sentì il calore salirgli sulle guance, mentre il dolore si trasformava in rabbia. Non sapeva che altro dire, che cosa volessero che dicesse. “Lawson! È Lawson! Potete controllare la mia…” No, non potevano controllare la sua carta d’identità. Non aveva avuto con sé il portafoglio quanto i tre uomini lo avevano preso.

Il suo interrogatore schioccò la lingua in segno di disapprovazione e poi scagliò un pugno ossuto al centro del plesso solare di Reid. Di nuovo il professore si ritrovò senza fiato. Per un minuto intero non riuscì a respirare; e alla fine boccheggiò ansimante. Gli bruciava il petto. Gli colava il sudore sulle guance e gli bruciava sul labbro spaccato. La testa gli pendeva senza forza, il mento appoggiato sul petto, mentre lottava contro un’ondata di nausea.

“Il tuo nome,” ripeté con calma l’interrogatore.

“Io… non so che cosa vuoi che ti dica,” sussurrò Reid. “Non so che cosa stai cercando. Ma non sono io.” Stava impazzendo? Era certo di non aver fatto niente per meritarsi un trattamento di quel tipo.

L’uomo con la kufi si sporse di nuovo in avanti, prendendo gentilmente il mento di Reid tra due dita. Gli sollevò il capo, costringendolo a guardarlo negli occhi. Le sue labbra sottili si stesero in un sorrisetto.

“Amico mio,” disse. “Le cose andranno molto molto peggio, prima di migliorare.”

Reid deglutì e sentì il sapore del rame in fondo alla gola. Sapeva che il sangue era un emetico; bastavano settecento grammi per far vomitare, e lui si sentiva già nauseato e stordito. “Ascoltami,” lo implorò. La sua voce suonò tremante e timida. “Mi chiamo Reid Lawson. Sono un professore di storia europea alla Columbia University. Sono vedovo e ho due…” Si interruppe. Fino a quel momento i suoi rapitori non avevano dato nessuna indicazione di sapere delle sue figlie. “Se non è questo che state cercando, non posso aiutarvi. Ti prego. È la verità.”

L’interrogatore lo fissò per un lungo momento, senza battere ciglio, poi disse seccamente qualcosa in arabo. Reid sussultò a quello scatto improvviso.

La serratura si aprì di nuovo. Oltre la spalla dell’uomo, Reid vide apparire la forma della porta. Sembrava di qualche tipo di metallo, ferro o acciaio.

La stanza, capì, era stata costruita per essere una cella di prigione.

Una sagoma apparve all’ingresso. L’interrogatore disse qualcos’altro nella sua lingua nativa, e la sagoma svanì. Sogghignò verso Reid. “Lo vedremo,” disse semplicemente.

Accompagnato da un cigolio di ruote, la sagoma riapparve, quella volta spingendo un carrello metallico nella stanzetta di cemento. Reid riconobbe chi lo spingeva, era l’uomo grosso e silenzioso che era apparso a casa sua, con la stessa espressione accigliata di prima.

Sul carrello c’era una macchina arcaica, una scatola marrone con una decina di manopole e manovelle e grossi cavi neri che spuntavano da un lato. Dal lato opposto emergeva un rotolo di carta bianca su cui si agitavano aghi sottili.

Era un poligrafo, probabilmente vecchio quanto Reid, ma comunque una macchina della verità. Sospirò per il sollievo. Almeno avrebbero capito che stava dicendo la verità.

Che cosa gli avrebbero fatto in seguito… preferiva non pensarci.

L’interrogatore cominciò a stringere i due sensori con il velcro alle sue dita, un manicotto attorno al suo bicipite sinistro e due corde attorno al suo petto. Si sedette di nuovo, estrasse una matita dalla tasca e si infilò l’estremità con la gomma rosa in bocca.

“Sai che cosa è,” disse semplicemente. “Sai come funziona. Se dici qualsiasi cosa che non sia la risposta alle mie domande, ti faremo del male. Lo capisci?”

Reid annuì una volta sola. “Sì.”

L’interrogatore premette un pulsante e armeggiò con le manopole sulla macchina. Il gigante accigliato era immobile dietro di lui, bloccando la luce della lampada e fissando storto Reid.

Gli aghi sottili si mossero leggermente sopra il rotolo di carta bianca, lasciando quattro segni neri. L’interrogatore scarabocchiò qualcosa sul foglio e poi spostò lo sguardo freddo su Reid. “Di che colore è il mio cappello?”

“Bianco,” rispose piano Reid.

“Di che specie sei tu?”

“Umano.” L’interrogatore stava stabilendo i valori di riferimento per le successive domande—di solito si annotavano quattro o cinque verità per controllare le potenziali bugie.

“In che città vivi?”

“New York.”

“Dove sei ora?”

Reid quasi sbuffò. “In una… sedia. Non lo so.”

L’interrogatore fece qualche segno intermittente sulla carta. “Come ti chiami?”

Reid fece del suo meglio per tenere ferma la voce. “Reid Lawson.”

Tutti e tre stavano fissando la macchina. Gli aghi continuarono indisturbati; non c’erano creste o vallate significative nelle linee tracciate.

“Che lavoro fai?” chiese l’interrogatore.

“Sono un professore di storia europea alla Columbia University.”

“Da quanto tempo fai il professore?”

“Tredici anni,” rispose sinceramente Reid. “Sono stato assistente professore per cinque e professore aggiunto in Virginia per sei. Da due anni sono professore associato a New York.”

“Sei mai stato a Tehran?”

“No.”

“Sei mai stato a Zagreb?”

“No!”

“Sei mai stato a Madrid?”

“N-sì. Una volta, circa quattro anni fa. Sono andato per un summit, mi ci ha mandato l’università.”

Gli aghi rimasero stabili.

“Non vedete?” Per quanto Reid avrebbe voluto gridare, cercò di rimanere calmo. “Avete la persona sbagliata. Chiunque stiate cercando, non sono io.”

L’interrogatore spalancò le narici, ma altrimenti non reagì. Il gigante congiunse le mani davanti a sé, le vene in netto rilievo sulla sua pelle.

“Hai mai incontrato un uomo chiamato sceicco Mustafar?” chiese l’interrogatore.

Reid scosse la testa. “No.”

“Sta mentendo!” Un uomo alto e magro entrò nella stanza, uno dei due che lo avevano aggredito a casa sua, lo stesso che gli aveva chiesto per primo come si chiamasse. Si avvicinò a grandi passi, lo sguardo ostile puntato su Reid. “La macchina può essere aggirata. Lo sappiamo.”

“Ci sarebbe qualche segno,” replicò con calma l’interrogatore. “Il linguaggio del corpo, il sudore, i segni vitali. Tutto indica che sta dicendo la verità.” Reid non poté evitare di pensare che stessero parlando in inglese a suo beneficio.

L’uomo alto si girò e cominciò ad aggirarsi per la stanzetta di cemento, borbottando furioso in arabo. “Chiedigli di Tehran.”

“L’ho fatto,” rispose l’interrogatore.

Allora lui si voltò verso Reid, furibondo. Il professore trattenne il fiato, aspettandosi di essere colpito.

Invece, l’uomo riprese a camminare. Disse rapidamente qualcosa in arabo. L’interrogatore rispose. Il gigante fissò Reid.

“Vi prego!” disse lui ad alta voce sopra le loro parole. “Non sono chi pensate voi, non ho memoria di quello di cui state parlando…”

L’uomo alto ammutolì e sgranò gli occhi. Fece un gesto come per colpirsi la fronte, e poi parlò concitato all’interrogatore. L’uomo impassibile con la kufi si accarezzò il mento.

“È possibile,” disse in inglese. Si alzò e prese la testa di Reid tra entrambe le mani

“Che cosa significa? Cosa stai facendo?” chiese Reid. Le punte delle dita dell’uomo si mossero lentamente su e giù per il suo scalpo.

“Silenzio,” disse piatto lui. Tastò l’attaccatura dei capelli di Reid, il suo collo, le sue orecchie… “Ah!” esclamò poi. Disse qualcosa al suo socio, che si avvicinò di corsa e piegò la testa di Reid di lato.

L’interrogatore passò un dito lungo il mastoide sinistro di Reid, la piccola sporgenza d’osso appena dietro l’orecchio. C’era un bozzo allungato sotto la pelle, poco più grande di un chicco di riso.

Disse qualcosa all’uomo alto e quest’ultimo uscì rapidamente dalla stanza. A Reid doleva il collo per via della strana angolazione a cui stavano tenendo la sua testa.

“Cosa? Cosa sta succedendo?” chiese.

“Questo ingrossamento, qui,” disse l’uomo, passandoci di nuovo un dito sopra. “Che cosa è questo?”

“È solo un’irregolarità dell’osso,” disse Reid. “Ce l’ho da un incidente d’auto che ho avuto quando avevo vent’anni.”

L’uomo alto tornò rapidamente, quella volta con un vassoio di plastica. L’appoggiò sul carrello, vicino al poligrafo. Nonostante la luce fioca e l’angolo a cui gli tenevano la testa, Reid vide chiaramente che cosa c’era nel vassoio. Un nodo di paura gli attorcigliò lo stomaco.

Dentro il vassoio c’erano diversi strumenti di metallo lucente.

“A che cosa servono quelli?” C’era il panico nella sua voce. Si agitò tra le corde. “Che cosa state facendo?”

L’interrogatore diede un rapido comando al gigante. Lui fece un passo in avanti e l’improvvisa luce della lampada quasi accecò Reid.

“Aspetta… aspetta!” gridò. “Dimmi che cosa vuoi sapere!”

Il gigante gli prese la testa in una grande mano e la strinse con forza, costringendolo a fermarsi. L’interrogatore scelse uno strumento, uno scalpello dalla lama sottile.

“Vi prego, non… non…” Reid cominciò ad ansimare in fretta. Stava quasi iperventilando.

“Sssh,” disse con calma l’interrogatore. “È meglio se rimani fermo. Non voglio tagliarti l’orecchio. Almeno, non per sbaglio.”

Reid gridò quando la lama tagliò la pelle dietro l’orecchio, ma il gigante lo tenne immobile. Ogni muscolo delle sue braccia si tese.

Uno strano suono lo raggiunse, una dolce melodia. L’interrogatore stava cantando una canzone in arabo mentre affettava la testa di Reid.

Lasciò cadere lo scalpello insanguinato nel vassoio mentre Reid continuava a respirare sibilando tra i denti. Poi afferrò un paio di pinze piane.

“Temo che quello fosse solo l’inizio,” gli sussurrò all’orecchio. “La prossima parte farà davvero male.”

Le pinze si strinsero attorno a qualcosa nella testa di Reid—l’osso del cranio?—e l’interrogatore tirò. Reid gridò per l’agonia, mentre un dolore accecante gli attraversava il cervello, pulsando nelle sue terminazioni nervose. Gli tremarono le mani. Sbatté i piedi sul pavimento.

Il dolore crebbe fino a quando Reid pensò che non sarebbe più riuscito a resistere. Il sangue gli pompava nelle orecchie e le sue stesse grida sembravano lontanissime. Poi la luce della lampada si affievolì, vide tutto nero e perse i sensi.

Il ritorno dell’Agente Zero

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