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CAPITOLO CINQUE

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Sara si guardò nello specchio del bagno mentre si sistemava la coda. Odiava i suoi capelli. Erano troppo lunghi: non li tagliava da mesi. Aveva delle terribili doppie punte. Circa sei settimane prima aveva lasciato che Camilla le facesse una tinta rossa, e anche se sul momento le era piaciuto molto il risultato, stava iniziando a spuntare una fastidiosa ricrescita bionda. Non faceva un bell'effetto.

Odiava la polo blu scuro che doveva indossare al lavoro. Era troppo grande per la sua corporatura sottile, e aveva le parole “Swift Thrift” stampate in serigrafia sul petto. Le lettere erano sbiadite, i bordi rovinati dai lavaggi ripetuti.

Odiava andare al negozio dell'usato, con il suo odore costante di falene e sudore stantio, odiava sforzarsi di essere gentile con le persone maleducate. Odiava il fatto che a sedici anni e senza un diploma di scuola superiore il massimo che potesse percepire fossero nove dollari all'ora.

Ma aveva preso una decisione. Ormai era quasi completamente indipendente.

La porta del bagno si aprì improvvisamente. Tommy la sorprese in piedi di fronte allo specchio.

“Che diamine, Tommy!” Urlò Sara. “Ci sono io!”

“Perché non hai chiuso a chiave la porta?” ribatté lui.

“Era chiusa, o sbaglio?”

“Beh, datti una mossa! Devo pisciare!”

“Vattene!” Chiuse la porta e il ragazzo rimase fuori dal bagno ad imprecare. La vita con i coinquilini era tutt'altro che piacevole, ma dopo un anno si era abituata. Forse era passato anche più di un anno. Dovevano essere tredici mesi ormai, pensò tra sé e sé.

Si passò un po' di mascara sulle ciglia e diede un'ultima occhiata allo specchio. Va abbastanza bene, si disse. Non le piaceva truccarsi molto, nonostante i tentativi di persuasione di Camilla. Il suo corpo cambiava velocemente.

Uscì dal bagno, che dava sulla cucina, e vide Tommy sporgersi dal lavandino e tirarsi su i pantaloni.

“Dio mio”. Sussultò. “Dimmi che non hai fatto pipì nel lavandino”.

“Ci hai messo troppo”.

“Sei disgustoso”. Si avvicinò al vecchio frigorifero beige e tirò fuori una bottiglia d'acqua, non avrebbe più bevuto l'acqua del rubinetto, e, nel richiuderla, una lavagnetta attirò la sua attenzione.

Sussultò di nuovo.

Sulla porta del frigorifero c'era una lavagna magnetica con i nomi degli inquilini scritti in pennarello nero. Sotto ogni nome c'era scritto un numero. Ogni mese dovevano dividersi le spese dell'affitto e delle bollette. Se non potevano pagare la loro quota, avevano tempo tre mesi per cancellare il loro debito, altrimenti avrebbero dovuto andarsene. E il debito sotto il nome di Sara era il più grande.

Quella casa non era certo il peggior posto in cui vivere a Jacksonville. La vecchia casa aveva bisogno di alcune riparazioni, ma non era un disastro. C'erano quattro camere da letto, tre doppie e una adibita a studio e magazzino.

Il proprietario, il signor Nedelmeyer, era un tedesco sulla quarantina che aveva un sacco di proprietà come questa nell'area metropolitana di Jacksonville. Era piuttosto tranquillo; voleva che lo chiamassero semplicemente “Needle”, che a Sara sembrava un soprannome da spacciatore. Ma Needle era una persona alla mano. Non gli importava se ospitassero degli amici o se facessero delle feste occasionali. Non gli importava nemmeno delle droghe. Aveva dato loro solo tre regole: se vieni arrestato, sei fuori. Se non riesci a pagare il debito dopo tre mesi, sei fuori. Se aggredisci un altro inquilino, sei fuori.

Al momento, dopo aver visto la lavagna sul frigorifero, Sara si preoccupò per la seconda regola. Ma poi una voce proprio dietro il suo orecchio spostò la sua preoccupazione sulla terza.

“Qual è il problema, piccola? Ti preoccupa quel grande spaventoso numero sotto il tuo nome?” Tommy rise come se avesse appena fatto una gran battuta. Aveva diciannove anni, era magro e ossuto, ed era tatuato su entrambe le braccia. Lui e la sua ragazza, Jo, condividevano una delle camere dell'appartamento. Nessuno dei due lavorava; i genitori di Tommy gli davano del denaro ogni mese, più che sufficiente per coprire le spese di affitto. Il resto lo spendevano in cocaina.

Tommy pensava di essere un duro. Ma era solo un bambinetto in vacanza.

Sara si girò lentamente. Il ragazzo, più grande, era più alto di lei di quasi 10 centimetri e a pochi centimetri di distanza la sovrastava. “Penso”, disse lentamente, che “dovresti fare un paio di passi indietro”.

“Altrimenti?” Sorrise maliziosamente. “Mi colpirai?”

“Certo che no. Sarebbe contro le regole”. Lei sorrise innocentemente. “Ma sai, l'altra sera ho fatto un piccolo video. Mentre tu e Jo vi facevate di cocaina sul tavolo della cucina”.

Un lampo di paura attraversò il viso di Tommy, ma rimase fermo. “E quindi? A Needle non importa”.

“Hai ragione. Non gli importa”. Sara abbassò la voce fino quasi a sussurrare. “Ma a Thomas Howell, Esquire, di Binder & Associates? A lui potrebbe interessare”. Inclinò la testa da un lato. “È tuo padre, non è vero?”

“Come hai...”, Tommy scosse la testa. “Non oseresti fare una cosa del genere”.

“Forse no. Dipende solo da te”. Gli passò accanto, dandogli una spallata. “Smetti di pisciare nel lavandino. Fa schifo”. E si diresse di sopra.

Sara aveva lasciato la Virginia più di un anno prima, e allora era una quindicenne spaventata e ingenua. Non era passato molto più di un anno, ma era cambiata. Sull'autobus da Alexandria a Jacksonville, si era data due regole. La prima è che non avrebbe mai chiesto niente a nessuno, meno che mai a suo padre. E l'aveva sempre rispettata. Di tanto in tanto Maya l'aveva aiutata, e Sara le era grata di ciò, ma non le aveva mai chiesto niente.

La seconda regola era che non si sarebbe fatta mettere i piedi in testa da nessuno. Ne aveva passate già troppe. Aveva visto cose di cui non avrebbe mai potuto parlare. Cose che la tenevano ancora sveglia di notte. Cose che un ragazzo come Tommy non avrebbe mai potuto immaginare. Aveva superato le sue turbe adolescenziali. Aveva accettato il suo passato.

Al piano di sopra aprì la porta della camera da letto sua e di Camilla. Era sistemata come un dormitorio, con due letti singoli alle pareti opposte e un comodino in comune. Avevano un piccolo tavolino e un armadio che condividevano. La compagna di stanza era ancora a letto e stava giocando con il telefono.

“Ehi”, disse con uno sbadiglio mentre Sara entrava. Camilla aveva diciotto anni e per fortuna era simpatica. Era la prima amica che Sara aveva trovato in Florida e aveva garantito per lei presso il proprietario dell'appartamento. Andavano molto d'accordo. Camilla le stava anche insegnando a guidare. Le aveva insegnato come mettere il mascara e come scegliere dei vestiti che valorizzassero il suo fisico. Sara aveva imparato nuovi termini e nuove cose da lei. Era un po' come una sorella maggiore.

Come una sorella maggiore che non ti abbandona con un uomo che non sopporti.

“Ehi tu. Alzati dal letto, sono quasi le dieci”. Sara prese la borsa dal comodino e si assicurò di avere tutto ciò di cui aveva bisogno.

“Ho fatto tardi ieri sera”. Camilla lavorava come cameriera e barista in un ristorante di pesce. “Ma… ehi, guarda qui”. Lei lanciò una spessa mazzetta di denaro, mance della sera prima.

“Fantastico”, mormorò Sara. “Devo andare al lavoro”.

“Bene. Sono libera stasera. Vuoi che ti faccia di nuovo i capelli? Si vede un po' la ricrescita”.

“Sì, lo so, fanno schifo”, scattò Sara irritata.

“Uh, stai calma”. Camilla si accigliò. “Cos'è che ti ha innervosita?”

“Mi dispiace. Tommy fa lo stronzo”.

“Dimentica quel ragazzo. Si dà delle arie”.

“Lo so”. Sara sospirò e si strofinò la faccia. “Ok. Mi alzo”.

“Aspetta. Sembri piuttosto in difficoltà. Vuoi una barra?”

Sara scosse la testa. “No, va tutto bene”. Fece due passi verso la porta. “Fanculo, sì”.

Camilla sorrise e si mise a sedere sul letto. Prese la propria borsa e tirò fuori due oggetti: una bottiglietta arancione senza etichetta e un piccolo cilindro di plastica con un tappo rosso. Tirò fuori una barra di Xanax blu dalla bottiglia, la lasciò cadere nel trita pillole e avvitò saldamente il tappo rosso. “Mano”.

Sara tese la mano destra, con il palmo verso il basso, e Camilla fece cadere un po' di polvere tra pollice e indice. Sara si portò una mano sul viso, si tappò una narice e tirò.

“Bravissima”. Camilla la schiaffeggiò leggermente sul sedere. “Ora esci di qui o farai tardi. Ci vediamo stasera”.

Sara la salutò mentre chiudeva la porta alle sue spalle. Sentiva in bocca il retrogusto amaro della polvere. Non ci sarebbe voluto molto prima che facesse effetto, ma sapeva che un tiro l'avrebbe fatta arrivare a malapena a metà giornata.

Faceva ancora caldo, per essere ottobre. Ma si stava abituando a quel clima. Le piaceva che ci fosse il sole quasi tutto l'anno, e di trovarsi abbastanza vicina alla spiaggia. La sua vita non era fantastica, ma era decisamente meglio di come era due estati fa.

Sara era appena uscita dalla porta quando il suo telefono squillò nella borsa. Sapeva già chi fosse, una delle poche persone che la chiamava di tanto in tanto.

“Ehi”, rispose mentre camminava.

“Ciao”. La voce di Maya sembrava calma, tesa. Sara capì subito che era arrabbiata con qualcuno. “Hai un minuto?”

“Uh, si. Sto andando al lavoro”. Sara si guardò intorno. Non viveva in un brutto quartiere, ma il negozio dell'usato in cui lavorava non era in una bella zona. Non aveva mai avuto problemi, ma rimaneva sempre vigile e teneva la testa alta mentre camminava. Una ragazza distratta dal suo telefono era un potenziale bersaglio. “Che succede?”

“Ehm io...”, Maya esitò. Non era solita essere scontrosa e riluttante. “Ho visto papà ieri sera”.

Sara si fermò, ma non disse nulla. Il suo stomaco si strinse istintivamente come se si stesse preparando per un pugno all'intestino.

“Non... non è andata bene”, Maya sospirò. “Ho urlato alcune cose, sono scappata...”

“Perché me lo stai dicendo?” Chiese Sara.

“Che cosa?”

“Sai che non voglio vederlo. Non voglio sentir parlare di lui. Non voglio nemmeno pensare a lui. Perché me lo dici?”

“Ho solo pensato che avresti voluto saperlo”.

“No”, disse Sara con forza. “Mi spiace deluderti se pensavi di parlare con qualcuno che potesse capirti. Non sono interessata. Ho chiuso con lui. Okay?”

“Sì”. Maya sospirò. “Penso di aver chiuso anche io con lui”.

Sara esitò un momento. Non aveva mai sentito sua sorella così sconfitta. Ma rimase fedele alla sua posizione. “Bene. Continua con la tua vita. Come va la scuola?”

“Va benissimo”, disse Maya. “Sono la migliore della mia classe”.

“Non mi stupisce. Sei molto intelligente”. Sara sorrise mentre riprendeva a camminare. Ma allo stesso tempo, notò dei movimenti sul marciapiede vicino ai suoi piedi. Un'ombra la seguiva. Qualcuno stava camminando non lontano da lei.

Stai diventando paranoica. Non era la prima volta che scambiava un pedone per un inseguitore. Era una conseguenza delle sue esperienze passate. Nonostante ciò, rallentò quando raggiunse l'incrocio successivo per attraversare la strada.

“Ma seriamente”, disse Maya al telefono. “Stai bene?”

“Oh, sì”. Sara si fermò e attese il verde. L'ombra fece lo stesso. “Sì, va tutto bene”. Avrebbe potuto girarsi e guardarlo, fargli capire di essersene accorta, ma continuò a guardare dritto davanti a sé e attese il verde del semaforo.

“Bene. Sono contenta. Proverò a inviarti qualcosa tra un paio di settimane”.

“Non devi farlo”, le disse Sara. Il semaforo diventò verde.

Attraversò rapidamente il passaggio pedonale.

“So di non doverlo fare. Ma voglio farlo. Ad ogni modo, ti lascio andare al lavoro”.

“Domani sono libera”. Sara raggiunse l'angolo opposto e proseguì per la sua strada. L'ombra teneva il passo. “Ti chiamo?”

“Certo. Ti voglio bene”.

“Ti voglio bene anch'io”. Sara terminò la chiamata e infilò il telefono nella borsa. Quindi, senza preavviso, fece una brusca svolta a sinistra e fece qualche passo, solo per uscire dalla sua visuale. Si voltò, incrociò le braccia sul petto e si accigliò mentre il suo inseguitore girava l'angolo dietro di lei.

Praticamente si fermò di colpo quando la vide lì ad aspettarlo.

“Per essere un presunto agente segreto, fai schifo”, gli disse. “Ho visto subito che mi stavi pedinando”.

L'agente Todd Strickland fece un sorrisetto. “Anche a me fa piacere rivederti, Sara”.

Lei non ricambiò il sorriso. “Continui a tenermi d'occhio, vedo”.

“Cosa? No. Ero in zona e stavo lavorando a un'operazione”. Lui fece spallucce. “Ti ho vista per strada, ho pensato di passare a salutarti”.

“Uhm”, disse lei in tono piatto. “In tal caso, ciao. Adesso devo tornare al lavoro. Arrivederci”. Si voltò e se ne andò svelta.

“Ti accompagno”. Accelerò il passo per raggiungerla.

Lei ridacchiò. Strickland era giovane per essere un agente della CIA, non ancora trentenne, e, si rese conto, incredibilmente bello, ma le ricordava anche troppo suo padre. I due erano diventati amici quando Sara e sua sorella erano state rapite dai trafficanti slovacchi. Strickland aveva aiutato a salvarle e in quel momento aveva promesso che, qualunque cosa fosse accaduta, avrebbe fatto tutto il possibile per proteggere le due ragazze.

Apparentemente ciò significava usare le risorse della CIA per sapere dove si trovasse Sara.

“Quindi va tutto bene?” le chiese.

“Già. Benissimo. Adesso vattene”.

Ma era ancora vicino a lei. “Quel ragazzo nel tuo edificio ti dà ancora problemi?”

“Oh mio Dio”, gemette. “Hai messo delle cimici in casa mia?”

“Voglio solo assicurarmi che tu stia bene...”

Lei si girò verso di lui. “Non sei mio padre. Non siamo nemmeno amici. Una volta, forse eri un... Non lo so. Un babysitter. Ma ora sembri un fottuto stalker”. Sapeva che la stava seguendo da un po’ di tempo; questa non era la prima occasione in cui era apparso all'improvviso in Florida. “Non ti voglio qui. Non voglio che mi venga ricordata quella vita. Che ne dici di dirmi cosa vuoi da me, così poi puoi andartene?”

Strickland quasi non reagì. “Voglio che tu sia al sicuro”, disse piano. “E, se devo essere sincero, voglio che tu smetta di drogarti”.

Gli occhi di Sara si restrinsero e la sua bocca si aprì leggermente. “Ma chi ti credi di essere?”

“Qualcuno a cui importa di te. Se lo sapesse tuo padre, gli si spezzerebbe il cuore”.

Se lo sapesse? “Oh, vuoi dire che non gli stai consegnando dei rapporti settimanali?”

Strickland scosse la testa. “Non lo vedo da mesi”.

“Quindi mi stai seguendo per qualche deviato senso del dovere?”

Il giovane agente sorrise tristemente e scosse la testa. “Che ti piaccia o no, ci sono ancora molte persone là fuori che ricordano l'Agente Zero. Spero che non arrivi mai il giorno in cui dovrai ringraziarmi per averti tenuto d'occhio. Ma fino ad allora, continuerò a farlo”.

“Sì. Scommetto che lo farai”. Guardò il cielo. “Cos'è quello, un satellite? È con quello che mi guardi” Sara si ficcò un braccio sopra la testa e lanciò un dito medio alle nuvole. “Ecco una foto per te. Mandala a mio padre con gli auguri di Natale”. Quindi si voltò e ricominciò a camminare.

“Sara” la chiamò lui. “Le droghe?”

Cristo, perché non se ne va? Lei si voltò a guardarlo. “Ho fumato un po' di erba. Qual è il problema? È quasi legale qui”.

“Uhm. E lo Xanax?”

Lo Xanax. La sua prima domanda fu: come faceva a saperlo? La seconda fu: perché non ha ancora fatto effetto? Ma conosceva già la risposta a quest'ultima. Il suo corpo si stava abituando a una barra. Non era più abbastanza.

“E la cocaina?”

Lei rise, ma era una risata amara. “Non provarci. Non cercare di farmi sentire una specie di criminale perché ho provato qualcosa una o due volte a una festa”.

“Una o due volte, eh? Fai queste feste ogni notte?”

Sara si sentì avvampare. Non perché l'avesse offesa, ma perché aveva ragione. Aveva iniziato provando occasionalmente a qualche festa, ma era diventata un'abitudine dopo il lavoro. Qualcosa per staccare la spina. Ma non lo avrebbe ammesso in quel momento.

“Deve essere così facile per te”, disse lei. “Stare lì, come un Boy-scout e Army Ranger. Agente della CIA. Deve essere così facile giudicare qualcuno come me. Dici di sapere cosa ho passato. Ma non capisci. Non puoi capirlo”.

Il ritorno di Zero

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