Читать книгу I mattoidi al primo concorso pel monumento in Roma a Vittorio Emanuele - Dossi Carlo - Страница 6
II.
ОглавлениеLa sacra pazzìa non poteva quindi mancare al concorso pel monumento al Re Galantuomo e infatti vi è apparsa in tutta la pompa del suo variopinto vestito. Ai sei bozzetti che raffigùrano, salvo errore, la categorìa del genio ossìa l'esuberanza della salute intellettuale, fanno riscontro ben 39 che pèndono decisamente alla follìa, ossia all'eccesso del disòrdine. Quest'ùltima classe segna per conseguenza sul nùmero di 296 progetti, chè tanti sono gli esposti, il 13,2 per cento, proporzione che salirebbe a quella del 25, qualora vi si comprendèssero anche i progetti (circa 35) di menti semplicemente cretine, progetti i quali, stretti di parentela con i pazzeschi, stanno di fronte a questi, come, rispetto a quelli di genio, i duecento-sèdici altri, rappresentanti l'ingegno mediocre.
Concentrando però il nostro dire sui bozzetti mattòidi, i caràtteri coi quali essi distinguonsi a tutta prima, sono, in generale, il subisso di sìmboli e di allegorìe che li sopracàrica, la spropositata prolissità del commento che li accompagna — tantochè, in qualche caso, il bozzetto si riduce unicamente alla sua descrizione — le confidenze affatto personali e affatto estranee al soggetto che l'autore ci favorisce; sovratutto, ove sia possìbile di accertàrsene, la condizione o professione del medèsimo autore che è tutt'altra di quella che occorrerebbe per un lavoro scultorio od architettònico.
Infatti, per quest'ùltimo capo, noi troviamo, tra i nostri progettisti, de' maestri di grammàtica e di matemàtica, dei dottori di medicina e di legge, dei militari, un impiegato telegràfico[2] un ragioniere, nonchè altri parecchi che ci dichiàrano di non aver mai maneggiato nè scalpello nè matita nè seste. Ringraziamo questi cortesi che si son compiaciuti di farci conoscere la lor condizione professionale a giudicare però dall'esecuzione dei bozzetti esposti anche dagli altri, si dovrebbe inferire che non pìccola parte dei concorrenti ha studi, ha inclinazioni, che non hanno nulla a che fare colle arti plàstiche.
Affrettiàmoci a soggiùngere che l'imperizia artistica, per sè sola, non è sintomo di follia. Le maglie del programma per il gran monumento èrano amplissime e perciò vi poteva passare qualunque sia idèa: si èbbero quindi proposte di stabilimenti industriali (bozz. n. 22, Camillo Ferrara)[3], od igiènici, come bagni (bozz. n. 24)[4], e fùron proposte, se non accettàbili, ragionèvoli.
Senonchè, l'imperizia della mano, quando è accoppiata alle incongruenze della mente o ad altri disòrdini cerebrali, concorre ad accentuare le caratteristiche della pazzìa. Non è ammissibile infatti che una persona, nel pieno possesso della sua coscienza, si ostini a far cosa alla quale è assolutamente incapace, e ancor meno, ne faccia pùbblica mostra e chieda un premio per essa. Pur consentendo che i bozzetti segnati coi numeri 11, 19, 28, 16 a e b, 66, 74, 112, 115, 134, 234, 242, 277, 290, 293, 241[5] e altri molti, non sìeno che infelici conati di majùscoli bimbi completamente ignari dell'arte del disegno; chi non porrebbe senza alcun scrùpolo nella razza mattòide quel prof. E.P. Wanderburg (bozzetto n. 267) che invìa all'imponente concorso un mezzo fogliuzzo di carta con su mal delineata una colonnetta ed in cima, fatta ancor peggio, una croce? o quei progettisti (nella più parte, come i sovraenumerati, inglesi e tedeschi[6]), fra i quali — oltre i parecchi di cui diremo poi di propòsito — primeggia il signor Delmar Philippis William Thomas Lambert H.A.D. (n. 59) (nota filza di nomi!) che circonda il suo orrìbil progetto di tempio indiano-barocco con una corona di sgorbi a matita, affatto incoerenti col tema, oppure quel n. 181 (Esperia, Ausonia, Italia civile e guerriera) che ci offre tre tàvole di sìmboli ridicolosi e di più còmiche spiegazioni, o quel n. 65 (Num et Sàul?) che dal Würtemberg manda sette fogli mal disegnati a làpis con una relazione spropositata in latino, ed anche quel n. 158 (Felix Hodorowitch) che dal Càucaso ci fà il presente di un cerotto di gesso e di colla rossa con quattro mostricini sui lati, da lui creduti guerrieri etruschi — bozzetto che, per la forma, il colore e la puzza, imprime allo stòmaco quel moto di ripugnanza e di nausea che incoglie alla vista di roba in putrefazione. La qual cosa osserviamo, poichè, tra i segni della mente non sana, è pure da annoverarsi la deficenza, più o meno totale, di quel sentimento che insegnò all'uomo il sapone e la scopa, la decenza nei modi, il pudore nelle espressioni.
Quanto diciamo dell'imperizia artìstica, può anche valere per la sgrammaticatura letteraria, la quale pure, quando è isolata, non dà altro indizio che della ignoranza di chi la commette. Ora, ignoranza non è mai stata demenza: trovi anzi, non raramente, in iscritti di quasi-analfabeti maggiore buon senso che nei volumi di parecchi filòsofi, di un Quìrico Filopanti ad esempio. Un sorriso e non più, mèritano quindi i farfalloni grammaticali di cui sono assiepate moltissime relazioni annesse ai bozzetti e noi non c'inquieteremo davvero per il concorso imbandito al mondo del n. 214 (Optimus ille est qui minimis urguetur), pei leoni di marmo colchi del 253 (al Re ed alla patria), tanto più che il loro descrittore vorrebbe posto il monumento in piazza di Tèrmini affine di non dar disturbo; pel gioco d'aratro del n. 147 (Fr. Romaniello); per l'òrdine romano, scelto dal n. 222 (ars longa, vita brevis) come il più venusto ed eròe; nè ci formalizzeremo se gli autori del n. 40 (Pinaroli I. ed Enrico) hanno mutato tutti i q della lor relazione in altrettanti e. Quando però alla scorrettezza puramente grammaticale si allea o si sostituisce quella delle idèe, è un altro pajo di màniche, e l'ignorante lascia il posto al cretino o al mattòide. Ecco quindi il sig. Paolo Torchiana (bozz. n. 206) che, propòstosi di sistemare la piazza del Pòpolo (la quale, tra parentesi, non ha alcun bisogno di sistemazione, comechè perfetta), la ingombra di nuovi edifizi, che ròmpono la euritmìa dei preesistenti; ecco l'autore del nùmero 36 (Ezechiel CXLVII-v. 5) un inglese, il quale, dichiarato anzitutto che il monumento non deve avere uno scopo utilitario — chè sarebbe ignòbile idèa — non deve èssere cioè nè un ospedale nè una scuola ecc., conchiude proponendo la costruzione di un ponte, costruzione che, in una città traversata da un fiume, è tra tutte la più utilitaria. Così il n. 292 (Fons vitae), che ha preso a modello una rapa per disegnare uno scoglio e un tacchino per fingere un'àquila — ci avverte che lo scoglio sarà fatto di ghisa: ho scelto — nota egli — tale metallo onde caratterizzare l'època nostra; mentre il n. 46 (Concordia), progettato un mucchietto di rocce e fontane che renda imàgine de' sette colli, vi sovrappone il tempio della Concordia con il colosso della Dea possibilmente in oro, aggiungendo, che, quanto alle altre statue, permettèndolo il mite clima di Roma, si faranno di marmo. Nè va taciuta la peregrina trovata dal professore cav. Domènico Mollajuoli (n. 216) che, tracciato confidenzialmente in matita su due branicelli di carta una colonna e un archetto, ci spiega, che: in cima all'arco si porranno le cèneri di Vittorio Emanuele, cosicchè chi vi passa sotto, dirà: qui sopra ripòsano le cèneri di colùi che mi ha dato l'indipendenza e la unità, e l'altra idèa, non meno preziosa, del n. 287 (Dall'uno all'altro polo) il quale, dopo di èssersi con molte considerazioni persuaso che la statua del Re debba, èssere equestre ossìa posta su di un cavallo, esce a dire: la mia architettura io la chiamerò romano-arcimperiale in omaggio alla Nazione ed al Re.... Finalmente — e si noti che non spicchiamo per ora che qualche foglia da ogni manoscritto — c'è il signor A. B. di Messina (n. 41) il quale non spedisce alla Commissione il suo monumento perchè è troppo grandioso: quindi si lìmita a mandarne la fotografìa (che viceversa è uno sconcio disegno a penna) e ci annuncia che il monumento dev'èssere in marmo scolpito e bronzo fuso. È di stile che sfida ogni descrizione. Sullo schizzo sta scritto: Concetto a colpo d'occhio — Due granatieri di bronzo, ai lati del monumento — così spiega l'autore — stanno impiantiti, in atteggiamento stanco, su due tamburi dello stesso metallo... col kepì indietro, in modo da lasciar vedere ciocche di capelli bagnate di sudore, ossìa in quel riposo-arm, comandato da Vittorio Emanuele.[7]
Ma procediamo un passo più addentro nell'ànimo di questi egregi signori, e, giacchè vògliono ad ogni costo onorarci delle lor confidenze, ascoltiàmole. Non prenderemo nota, però, della scusa di non aver potuto, per mancanza di tempo, presentare completi lavori o di non èsservisi dedicati che ad intervalli, nè dell'affermazione di non aver fatto il progetto che dopo maturo esame, circostanza aggravante, o che il progetto fu accolto con deferenza dalla Casa Reale e dal giornalismo, tentativo di corruzione. Sono scuse troppo comuni, sono affermazioni sbugiardate presto dal fatto. Piuttosto compiangeremo quel pòvero n. 291 (V) al quale una quantità d'inaspettate vessazioni impedì d'inviare de' competenti disegni, e quel n. 163 (Hanc ratus sum partem meam) che, nel medèsimo caso del suo collega, si lìmita ad incolparne gli incòmodi che sono attinenti alla sua avanzata età. Non sappiamo, peraltro, che farci se il signor Cànfora (n. 294) non sia nè ingegnere, nè architetto, ma solamente inspirato da Dio, e se il signor Giacinto Carmelo di Francesco (n. 237) si affacci al concorso sfornito di severi studi essendo la sua professione di sèmplice ebanista. Resta a vedere se si dovrà chiùdere un occhio per quel n. 46 già citato, che non intese presentare un saggio d'inappuntàbile architettura e tanto meno una esatta prospettiva: ma seguiremo invece, attenti più che potremo, le elucubrazioni del n. 35 (l'architettura e la scultura sono arti inseparàbili) il quale comincia scrivendo: diciàmolo sùbito; il progetto che io presento, meglio che una trovata puramente artìstica, è il risultato, è la conclusione d'un breve ragionamento, ed ecco, filo per filo, come ragionò la mia pòvera testa...; oltrepasseremo, ammirando, quel professore nelle scuole tècniche di Arezzo, (n. 183, Esperienza è madre di scienza), che, offerta la più visìbile prova di una assoluta incapacità, delineando un arco che è il trionfo del cretinismo, modestamente c'informa che la sua applicazione fu immensa, essendo da solo riuscito a portare a tèrmine il suo lavoro; e quell'altro (n. 191, Secondo-Primo) che ha fatto una colonna, quantunque piena d'immense difficoltà; e finiremo col fermarci dinanzi al signor Alessandro Mugnaini di Lucca (n. 26) il quale, dopo di aver saputo felicemente comporre il dissidio tra la Roma transtiberina e la Roma dei monti, che vorrèbbero ciascuna esclusivamente per sè il gran monumento, collocando quest'ùltimo in mezzo al Tèvere su un ponte piramidale, è tanto gentile da presentarci il suo viso[8], incollàndone la fotografìa sullo stesso progetto (viso somigliantìssimo a quello, sorridente a sè stesso, di Benedetto Cairoli); è tanto ossequente ai regolamenti in vigore da non affìggersi al pùbblico senza la dèbita marca da bollo.