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HAD-EL-GARBÌA

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Era una folla di ministri, di consoli, di dracomanni, di segretarii, di cancellieri, una grande ambasciata internazionale, che rappresentava sei monarchie e due repubbliche, composta per la maggior parte di gente che aveva girato mezza la terra. Fra gli altri, il console di Spagna, vestito del grazioso costume della provincia di Murcia, con un pugnaletto alla cintura; il console gigantesco degli Stati Uniti, antico colonnello di cavalleria, che s’alzava di tutta la testa al di sopra della comitiva, e cavalcava un bel cavallo arabo bardato alla messicana; il dracomanno della Legazione di Francia, un uomo di forme atletiche, piantato sopra un enorme cavallo bianco, col quale presentava in certi atteggiamenti i contorni fantastici e poderosi di un centauro; delle faccie inglesi, portoghesi, andaluse, tedesche. Tutti parlavano, ed era una conversazione in dieci lingue, accompagnata da risate, canterellamenti e nitriti. Davanti a noi cavalcava il portabandiera, seguito da due soldati della Legazione d’Italia; dietro venivano i cavalieri della scorta, guidati dal generale mulatto, coi fucili ritti sulle selle; dai lati uno sciame di servi arabi a piedi. Tutta questa comitiva, dorata dagli ultimi raggi del sole, presentava uno spettacolo così splendidamente pittoresco, che ognuno di noi lasciava trasparire sul volto la compiacenza d’essere una figura del quadro.

A poco a poco quasi tutti coloro che ci accompagnavano, si accomiatarono e tornarono a Tangeri; non rimasero più con noi che l’America e la Spagna.

La strada, per allora, non era delle peggio; la mia mula pareva la mula più docile dell’Impero; che cosa mi rimaneva a desiderare? Ma non c’è felicità intera sulla terra. Il capitano mi si avvicinò e mi diede una notizia spiacevole. Il vice-console, Paolo Grande, nostro compagno di tenda, era sonnambulo. Il capitano stesso l’aveva incontrato la notte prima, su per le scale della casa della Legazione, ravvolto in un lenzuolo, con un lume in una mano e una pistola nell’altra. I servi della casa, interrogati, avevano confermata la cosa. Dormire sotto la tenda con lui era pericoloso. Il capitano pregava me, poichè avevo maggiore famigliarità col vice-console, d’indurlo a rimettere a qualcuno le sue armi durante la notte. Io promisi di fare tutto il possibile.—Mi raccomando—; disse allontanandosi;—anche in nome del Comandante; si tratta di salvare la pelle.—Questa ci mancava!—pensai, e cercai subito il vice-console. Egli stesso mi venne accanto. Di domanda in domanda riuscii a sapere che aveva con sè un piccolo arsenale, tra armi da fuoco e armi da taglio; compreso un pugnalaccio moresco, di cui mi fece la descrizione, e che, non so perchè, mi pareva stato fabbricato apposta per farmi un buco nel cuore. Ma come fargli capire la cosa? E se non ne avesse avuto coscienza? Decisi di aspettare fino a notte, quando andassimo a letto, e per tutta la strada non mi potei più liberare da quel pensiero molesto.

Camminavamo sopra un terreno ondulato a grandi curve, in una campagna verde e solitaria. La strada, se si può chiamar strada, era formata da un gran numero di sentieri paralleli, in alcuni punti incrociati, serpeggianti in mezzo a cespugli e pietroni, infossati come letti di rigagnoli. Qualche palma e qualche aloè disegnava le sue forme nere sull’orizzonte dorato. Il cielo cominciava a coprirsi di stelle. Non si vedeva nessuno nè vicino nè lontano. A un certo punto, sentimmo alcune fucilate. Era un gruppo d’arabi che dalla sommità d’una collina salutavano l’ambasciatore. Dopo tre ore di cammino, era notte fitta; cominciavamo a desiderare l’accampamento. La fame in qualcuno, in altri la stanchezza aveva troncate le conversazioni. Non si sentiva più che il passo dei cavalli e il respiro affannoso dei servi che ci seguivano correndo. A un tratto risuonò un grido del Caid. Ci voltammo e vedemmo un’altura, alla nostra destra, tutta scintillante di lumi. Era il nostro primo accampamento e lo salutammo con un grido.

Non saprei esprimere il piacere che provai mettendo piede a terra in mezzo a quelle tende. Se non fosse stata la dignità, che dovevo serbare, di rappresentante della letteratura italiana, mi sarei messo a fare delle capriole. Era una piccola città, illuminata, popolata, rumorosa. Da ogni parte scoppiettavano i fuochi delle cucine. Servi, soldati, cuochi, marinai andavano e venivano scambiandosi ordini e domande in tutte le lingue della torre di Babele. Le tende formavano un gran circolo, in mezzo al quale era piantata la bandiera italiana. Di là dalle tende erano schierati i cavalli ed i muli. La scorta aveva il suo piccolo accampamento appartato. Tutto era ordinato militarmente. Riconobbi subito casa mia e corsi a prenderne possesso. V’erano quattro letti da campagna, stuoie e tappeti, lanterne, candelieri, tavolini, seggiole a ìccase, lavamani colle asticciuole strisciate dei tre colori italiani e un grande sventolatore all’indiana. Era un accampamento principesco, da passarci volentieri un annetto. La nostra tenda era posta fra quella dell’ambasciatore e quella degli artisti.

Un’ora dopo l’arrivo ci sedemmo a tavola sotto la gran tenda consacrata a Lucullo. Credo che fu quello il pranzo più allegro che sia mai stato fatto dentro i confini del Marocco dalla fondazione di Fez in poi. Eravamo sedici, compreso il console d’America coi suoi due figli e il console di Spagna con due impiegati della Legazione. La cucina italiana riportò un trionfo solenne. Era la prima volta, credo, che in mezzo a quella campagna deserta s’alzavano ad Allà i vapori dei maccheroni al sugo e del risotto alla milanese. L’autore, un grosso cuoco francese venuto per quella sola notte da Tangeri, fu chiamato clamorosamente agli onori del proscenio. I brindisi scoppiarono l’un dall’altro in italiano, in spagnuolo, in verso, in prosa, in musica. Il console di Spagna, un bel castigliano dello stampo antico, gran barba, gran torace e gran cuore, declamò, con una mano sul manico del pugnale, il dialogo di don Juan Tenorio e di don Luis Mendia nel dramma famoso di Josè Zorilla. Si disputò sulla quistione d’Oriente, sugli occhi delle donne arabe, sulla guerra carlista, sull’immortalità dell’anima, sulle proprietà del terribile cobra capello, l’aspide di Cleopatra, dal quale si lasciano morsicare impunemente i ciarlatani marocchini. Qualcuno, in mezzo al clamore della conversazione, mi disse nell’orecchio che mi sarebbe stato riconoscente per la vita se nel mio futuro libro sul Marocco avessi scritto ch’egli aveva ammazzato un leone. Io colsi quest’occasione per pregare i commensali di darmi ciascheduno una nota bene ordinata delle bestie feroci di cui desideravano che li facessi trionfare. Il console di Spagna, per riconoscenza, improvvisò una strofetta castigliana in onore della mia mula, e cantando tutti insieme questa strofetta sopra un motivo dell’Italiana in Algeri, uscimmo dalla tenda per andar a dormire.

L’accampamento era immerso in un profondo silenzio. Davanti alla tenda dell’Ambasciatore, che s’era ritirato prima di noi, vegliava il fido Selam, primo soldato della Legazione. Fra le tende lontane passeggiava lentamente, come una larva bianca, il Caid della scorta. Il cielo era tutto scintillante di stelle. Che beata notte, se non avessi avuto quella spina del sonnambulo!

Entrando nella tenda, il capitano mi ripetè la raccomandazione. Decisi d’intavolare il discorso quando fossimo a letto. Era indispensabile; ma mi costava un grande sforzo. Il viceconsole avrebbe potuto prender la cosa in mala parte e ne sarei stato dolentissimo. Era un compagno così piacevole! Da schietto siciliano, pieno di fuoco, parlava delle cose più insignificanti collo stile e coll’accento d’un predicatore ispirato. Profondeva gli aggettivi terribile—immenso—divino—ad ogni proposito. Il suo gesto più riposato era di agitare le mani al di sopra della testa. A vederlo discutere, con quegli occhi che gli uscivan dal capo, con quel naso aquilino che pareva volesse agganciare l’avversario, si sarebbe giudicato un uomo irascibile e imperioso; ed era invece la più buona, la più arrendevole pasta di giovanotto che si possa immaginare.

—Animo—disse il capitano quando fummo tutti e quattro a letto.

—Signor Grande,—io cominciai—lei ha l’abitudine di levarsi durante la notte?

Parve molto meravigliato della mia domanda.—No—rispose—e mi spiacerebbe che l’avesse qualchedun altro.

Quest’è curiosa! pensai.—Dunque—soggiunsi—lei riconosce che è un abitudine pericolosa.

Mi guardò.

—Scusi—disse poi—mi pare che su quest’argomento lei non dovrebbe scherzare.

—Mi scusi lei, io risposi,—non ho menomamente l’intenzione di scherzare. Non è mia abitudine di scherzare sulle cose tristi.

—È una cosa triste davvero, e toccherebbe a lei a scongiurarne le cattive conseguenze.

—Questa è bella! Pretenderebbe che andassi a dormire in mezzo ai campi?

—Dei due mi pare che ci dovrebbe andar lei e non io.

—È una vera impertinenza!—diss’io balzando a sedere sul letto.

—Oh stiamo a vedere adesso,—gridò il viceconsole alzandosi istizzito,—che è un’impertinenza il non volersi lasciar ammazzare!

Una gran risata del capitano e del comandante troncò la discussione, e prima ancora che essi parlassero, il signor Grande ed io capimmo d’esser stati corbellati tutt’e due. A lui pure avevan fatto credere che io giravo la notte per la casa della Legazione, con un lenzuolo sulle spalle e una pistola nel pugno.

La notte passò senz’accidenti, e la mattina mi svegliai in tempo per vedere l’aurora.

L’accampamento europeo era ancora immerso nel sonno; soltanto in mezzo alle tende della scorta si cominciava a mover qualcuno.

Il cielo era tutto color di rosa ad oriente.

Mi avanzai fino in mezzo all’accampamento e rimasi per molto tempo immobile a contemplare lo spettacolo che mi si spiegava d’intorno.

Le tende erano piantate sul fianco d’una collina tutta coperta d’erbe, di fichi d’india, d’aloè e d’arbusti fioriti. Vicino alla tenda dell’ambasciatore s’alzava una palma altissima, inclinata graziosamente verso oriente. Davanti alla collina si stendeva una grande pianura ondulata e florida, chiusa lontano da una catena di monti di color verde cupo, di là dalla quale apparivano altri monti azzurrini quasi svaniti nella limpidezza del cielo. Non si vedeva in tutto quello spazio nè una casa, nè una tenda, nè un armento, nè un nuvolo di fumo. Era come un immenso giardino chiuso ad ogni creatura vivente. Un’aria fresca e odorosa faceva stormire leggermente le foglie della palma: unico rumore che mi giungesse all’orecchio. A un tratto, voltandomi, vidi dieci occhi spalancati fissi nei miei. Erano cinque arabi seduti sopra un masso di roccia, a pochi passi da me: lavoratori della campagna, venuti durante la notte, chi sa di dove, per vedere l’accampamento. Parevano scolpiti nella roccia medesima su cui riposavano. Mi guardavano senza battere palpebra, senza dar segno nè di curiosità, nè di simpatia, nè di malevolenza, nè d’imbarazzo: tutti e cinque immobili e impassibili, coi visi mezzo nascosti nei cappucci, che parevano la personificazione della solitudine e del silenzio della campagna. Misi una mano in tasca; quei dieci occhi accompagnarono il movimento della mano; tirai fuori un sigaro; quei dieci occhi si fissarono sul sigaro; andai innanzi, tornai indietro, mi chinai a raccogliere un sasso, e quei dieci occhi m’erano sempre addosso. E non erano i soli. A poco a poco, ne scopersi molti altri, più lontano, seduti in mezzo all’erba, a due a due, a tre a tre, anch’essi incappucciati, immobili, cogli occhi fissi su di me. Parevano gente sbucata allora di sotto terra, morti cogli occhi aperti, apparenze piuttosto che persone reali, che dovessero svanire ai primi raggi del sole. Un grido lungo e tremulo, che veniva dall’accampamento della scorta, mi distrasse da quello spettacolo. Un soldato mussulmano annuciava ai compagni l’ora della preghiera, la prima delle cinque preghiere canoniche che ogni musulmano deve fare ogni giorno. Alcuni soldati uscirono dalle tende, stesero per terra le loro cappe, vi s’inginocchiarono su, rivolti verso l’oriente; si soffregarono tre volte le mani, le braccia, la testa e i piedi con una manata di terra, e poi cominciarono a recitare a bassa voce le loro preghiere inginocchiandosi, rizzandosi in piedi, prostrandosi col viso sull’erba, alzando le mani aperte all’altezza delle orecchie, e accoccolandosi sulle calcagna. Poco dopo uscì dalla sua tenda il comandante della scorta, poi i servi, poi i cuochi; in pochi minuti la maggior parte della popolazione del campo fu in piedi. Il sole, appena spuntato sull’orizzonte, scottava.

Rientrando nella tenda feci la conoscenza di parecchi personaggi assai curiosi, di cui mi occorrerà di parlare sovente.

Il primo a comparire fu uno dei due marinai italiani, ordinanza del comandante di fregata, siciliano, nato a Porto Empedocle, di nome Ranni, un giovanotto di venticinque anni, di alta statura, di forza erculea, d’indole buonissima, sempre grave come un magistrato, e dotato della singolare virtù di non stupirsi di nulla, di trovar tutto naturale, come il Goe delle Cinque settimane in pallone, di meravigliarsi soltanto della meraviglia degli altri. Per lui, Porto Empedocle, Gibilterra, l’Africa, la China dov’era stato, la luna se ce l’avessero portato, erano la stessissima cosa.

—Che ne dici di questa vita?—gli domandò il comandante, mentre l’aiutava a vestirsi.

—Che vuol che ne dica?—rispose.

—Oh bella! Il viaggio, il paese nuovo, tutto questo trambusto, non t’ha fatto nessuna impressione?

Stette un po’ pensando, e rispose ingenuamente:—Nessuna impressione.

—Ma come! Quest’accampamento, almeno, non è uno spettacolo nuovo per te?

—Eh no, signor comandante.

—Ma quando mai l’hai visto prima d’ora?

—L’ho visto ieri sera.

Il comandante lo guardò.

—Ma ieri sera—domandò poi reprimendo la stizza—che impressione t’ha fatto?

—Eh.... rispose candidamente il buon marinaio—; si capisce.... la stessa impressione di questa mattina.

Il comandante abbassò la testa in atto di rassegnazione.

Poco dopo entrò un altro personaggio non meno curioso. Era un arabo di Tangeri, che il viceconsole aveva preso al suo servizio, per tutto il tempo del viaggio. Aveva nome Ciua; ma il padrone lo chiamava Civo per maggiore facilità di pronunzia. Era un giovanotto grande e grosso, minchione quanto ce n’entrava, ma buono e pieno di buon volere; un fanciullone ingenuo, che a guardarlo, si metteva a ridere e nascondeva il viso. Non aveva altro vestito che una lunga e larga camicia bianca, sciolta, che quando camminava, gli sventolava addosso in una maniera ridicola, e gli dava l’aria d’una caricatura di cherubino. Sapeva una trentina di parole spagnuole, e con queste s’ingegnava di farsi capire, quando era costretto a parlare; ma col suo padrone s’esprimeva quasi sempre a gesti. Così a occhio gli avrei dati venticinque anni; ma cogli arabi è facile sbagliare. Glielo domandai.

Prima si coperse il viso con una mano, poi meditò qualche momento e rispose:

Cuando guerra España.... año y medio. Al tempo della guerra colla Spagna, che fu nel 1860, un anno e mezzo; aveva dunque diciasette anni.

—Che pezzo d’uomo per la sua età! dissi al vice-console.

—Immenso!—rispose.

Il terzo personaggio fu il cuoco dell’Ambasciatore, che ci portò il caffè; un piemontese pretto, tagliato tutto d’un pezzo in un pilastro dei portici di piazza Castello, il quale da Torino, ch’egli chiamava il giardino d’Italia, era piovuto, pochi giorni prima, a Tangeri, e non aveva ancora ritrovato sè stesso. Il pover’uomo non faceva che esclamare:—Oh che paese! Oh che paese!

Gli domandai se prima di partire da Torino, non gliel’avevan detto che paese fosse il Marocco, che città fosse Tangeri. Mi rispose di sì. Gli avevan detto:—Badate, Tangeri non è Torino.—Non sarà come Torino—egli aveva pensato—; pazienza! Sarà come Genova, come Alessandria, via!—E invece s’era ritrovato in una città di quella fatta! N mes ai sarvaj![1] E gli avevan messo ad aiutarlo due arabi che non capivano una parola di piemontese! O mi povr’om! E oltre a questo bisognava fare un viaggio di due mesi a traverso i deserti dell’Egitto! Egli prevedeva che non ne sarebbe tornato vivo.

—Ma almeno—gli dissi—quando tornerete a Torino, avrete qualche cosa da raccontare.

—Ah!—rispose con accento malinconico, andandosene via—che cosa si può raccontare d’un paese dove non si trovano due foglie d’insalata!

Fatta colezione, l’Ambasciatore diede ordine di levare l’accampamento.

Durante quella lunga operazione, alla quale lavoravano poco meno di cento persone, osservai un tratto singolare del carattere degli arabi, che è la passione smaniosa del comando. Non c’era bisogno di nessun’indicazione, per riconoscere alla prima in mezzo a quella folla confusa il capo mulattiere, il capo dei facchini, il capo dei servi delle tende, il capo dei soldati della Legazione. Chiunque era investito d’un’autorità, la faceva sentire e vedere, a proposito e a sproposito, colla voce, colle mani, cogli occhi, con tutte le forze dell’anima e del corpo. E chi non aveva autorità, coglieva ogni menomo pretesto per dare un ordine a un eguale, per illudersi d’essere qualchecosa più degli altri. Il più cencioso dei servi pareva beato di poter assumere per un momento un atteggiamento imperioso. La più semplice operazione, come d’annodare una corda o di sollevare una cassa, provocava uno scambio di grida tonanti, di sguardi fulminei, di gesti da sultano sdegnato. Persino Civo, il modesto Civo, sultaneggiava contro due arabi della campagna che si permettevano di guardar da lontano i bauli del suo padrone.

Alle dieci della mattina, sotto un sole ardente, la lunga carovana cominciò a discendere lentamente nella pianura.

Il console di Spagna e i suoi due compagni ci avevano lasciati all’alba; non rimanevano più con noi altre persone estranee all’ambasciata che il console d’America e i suoi figliuoli.

Dal luogo dove avevamo passato la notte, chiamato in arabo Ain-Dalia, che significa fontana di vino, per le vigne che v’erano nei tempi andati, dovevamo andare quel giorno a Had-el-Garbia, di là dalle montagne che chiudevano la pianura.

Per più d’un’ora si camminò sopra un terreno leggermente ondulato, in mezzo a campi d’orzo e di miglio, per sentieri tortuosi, che formavano coi loro incrociamenti un gran numero d’isolette coperte d’erbe rigogliose e di fiori altissimi. Non si vedea nessuno per la campagna, nessuno per la strada. Solamente dopo una mezz’ora di cammino, incontrammo una lunga fila di cammelli condotta da due beduini, i quali passandoci accanto mormorarono il solito saluto:—La pace sia sulla vostra strada.

Marocco

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