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ALFONSO DAUDET
ОглавлениеIl Daudet è lo scrittore francese più popolare in Italia dopo lo Zola. Molti, anzi, li mettono alla pari, e le nature miti antepongono all'autore dell'Assommoir l'autore del Nabab, naturalista meno spietato. La differenza che passa fra loro è più nell'indole che nell'arte. Nell'arte impiegano tutti e due quella stessa «formola scientifica» che va predicando lo Zola; procedono quasi egualmente nell'analisi degli avvenimenti e dei personaggi; tengono lo stesso andamento, e quasi la stessa maniera di ripartizione nella descrizione, che è grandissima parte, e si potrebbe dire il fondo, dei romanzi di tutti e due; ed hanno somigliantissima la condotta del dialogo, benchè in quello del Daudet ci sia di più «l'accento e il gusto» della commedia. Alle volte, anzi, leggendo il Daudet, si ha per parecchie pagine un'illusione: si scorda lui e par di leggere l'altro, tanto il colore delle immagini, l'efficacia dei particolari più minuti, e il giro dei periodi, monchi dei verbi, e ingegnosamente cadenzati, son simili a quelli dello Zola. Ma in capo a poche pagine, vien fuori una pennellata, una nota musicale, un sorriso, che fa dire: no, è il Daudet. Lo stile dello Zola, come dice egli stesso, è più geometrico; quello del Daudet più snello e più di vena, ed anche più impennacchiato, che è pure il difetto che lo Zola trova nel proprio. Ci sono pagine del Nabab e dei Rois en exil che danno l'immagine di mazzi di fiori, o di fasci di zampilli percossi dal sole, o di quelle stoffe orientali rabescate d'oro così fittamente, che quasi non vi appare più il colore del tessuto; grandi periodi ondulati e sonori, qualche volta precipitosi, che travolgono il lettore, e sembrano sgorgati dalla bocca d'un oratore nel momento più ardente dell'improvvisazione; quantunque il Daudet non fatichi e non si tormenti meno dello Zola per dar forma al proprio pensiero. La descrizione dello Zola va più addentro alle cose; quella del Daudet è più vivace e meno diffusa, e senza dubbio meno grave al comune dei lettori. Lo Zola si compiace di provocare e di ferire in chi legge quella delicatezza di senso che a lui sembra prodotta da un concetto della convenienza artistica, falso e dannoso all'arte; il Daudet è meno brutale, usa dei riguardi, non credo per proposito, ma per effetto della natura propria ripugnante dagli eccessi. A ciò forse allude lo Zola quando dice, non senza malizia, a mio credere, che il Daudet ha più di lui quello che ci vuole per piacere alla maggioranza dei lettori. Lo Zola è più padrone di sè; il Daudet, di natura più meridionale, riesce meno a domarsi; fa capolino dietro ai suoi personaggi, interviene a giudicare, si lascia sfuggire delle approvazioni gioiose e degli sfoghi d'indignazione; non è sempre così impassibile e velato come quell'altro. In questo si ammira di più lo sforzo d'una mente poderosa e paziente; nel Daudet la spontaneità d'una natura ricca e geniale. Il Daudet è più amabile, lo Zola più potente; e lo prova il fatto che quello ritrae in qualche cosa da questo, e in specie negli ultimi lavori, ne porta qua e là, benchè vaga, l'impronta; mentre lo Zola, se pensa spesso, scrivendo, al suo rivale (com'io credo), non ne dà segno. Il naturalismo del Daudet è meno nero di quello dello Zola, perchè ha il colore della natura simpatica dell'artista: perciò il Daudet è più caro agli ottimisti e ai benevoli. Per quanto siano corrotti e scellerati la maggior parte dei personaggi, e tristi gli avvenimenti, pure il sentimento generale e durevole che ci lasciano i suoi romanzi, non è mai proprio sconsolante: a traverso al loro ordito di color fosco, si vede sempre un po' di barlume d'azzurro. È perchè nei romanzi del Daudet tengono una più grande parte quei «personaggi simpatici» che lo Zola appunto rimprovera agli autori drammatici, e che rimprovererebbe al Daudet medesimo, se la sua condizione di romanziere rivale, e perciò sospetto di gelosia, non gl'imponesse dei riguardi; è perchè il Daudet fa nei suoi romanzi una contrapposizione di buoni e di cattivi genii più soddisfacente, e per le proporzioni e per la forza, all'istinto generoso che ci porta a credere al bene; perchè, infine, egli fa un più largo campo, nei suoi libri, a quanto c'è di buono e di nobile nell'anima umana. Il Daudet vede il mondo meno scuro; dev'essere stato più felice che lo Zola nella sua vita, o avere una di quelle nature, sulle quali il dolore ha meno presa. Non vela il male; ma un poco, sia pure leggerissimamente, abbellisce il bene. È più affettuoso dello Zola: ha novelle e commedie riboccanti di affetto tenerissimo da un capo all'altro; e credo appunto che sia l'esempio potente dello Zola quello che gli fece mettere un po' più di nero sul roseo nei suoi ultimi scritti. Ed ha anche un'arte, se si può dire, più giovanile che lo Zola: gioca più di sorpresa, è più teatrale, più capriccioso nel rompere e nel riannodare le fila del romanzo, procede più a sbalzi, si abbandona più liberamente ai grilli della fantasia, e volteggia, e canta, e celia anche più sovente, e di miglior umore che lo Zola; fino a convertire, come fa qualche volta, i ritratti e le scene comiche in caricature. Lo Zola ha più di lui un qualche cosa di grave, di largamente basato e di macchinoso, che è nel Balzac. Bacone, applicando la sua sentenza sulle differenze dei libri, direbbe che i romanzi dello Zola si masticano e quelli del Daudet si inghiottiscono. Lo Zola è un formidabile artista, senza dubbio; ma bisogna riconoscere che ha un meraviglioso tocco di pennello anche questo fiammeggiante provenzale del Daudet. Lo Zola ha sviscerato più profondamente la natura e i costumi del popolo. Ma quel turbinìo vertiginoso e sonoro della vita elegante di Parigi, quella corsa sfrenata di donnette, di giovani scapigliati, di vecchi libertini, di scrocconi, di principi banditi e di ciarlatani, dall'alcova alla cena, al teatro, all'ippodromo, alla borsa, alla rovina, tra le bricconate e le buffonate e il lusso impudente e la stupida spensieratezza e le baraonde matte, nessuno l'ha descritto con un linguaggio più rapido, più variopinto, più trillante, più indiavolato, più proprio alla terribile leggerezza dell'argomento, che il Daudet. Egli non saprebbe forse descrivere il train train della vita di tutti i giorni con la potenza dello Zola, che è più rigorosamente metodico, e sente più fortemente il particolare minuto; ma per contro ha certe cose sue proprie, in cui è maestro: narrazioni rapide d'avvenimenti drammatici, che schizzano fuoco, descrizioni abbarbaglianti e tumultuose, e scene comiche che strappano le risa dalle viscere, e certi abbandoni e divagamenti poetici che paion sogni, d'una grazia e d'un sentimento che innamora. E che belle opposizioni di caratteri iniqui, onesti, bizzarri e ameni; che stupenda screziatura di tinte fosche e di tinte rosate e di scintillamenti argentini nei suoi romanzi! Non si scordano più il Duca di Mora e Nabab, Séphora la bottegaia e Federica la regina, quel fanatico e generoso legittimista del Maubert e quell'abbominevole fantoccio di Cristiano II, e Sidonia, la perla falsa, e Clara, la perla vera, e l'illustre signor Dolabelle, tipo dei commedianti spiantati e presuntuosi, e Tom Lévis, tipo dei ruffiani principeschi, e quel nobilissimo e strano carattere dell'abate Germane, e quella povera e adorabile madre di Jansoulet. Certo il Daudet è un verista; ma quanti sdruci non fa nella teoria dello Zola! Anche lui, come dice il Goncourt, sente spesso il bisogno di sfuggire al reale, o piuttosto vi sfugge senz'avvedersene, forzato dalla sua natura poetica e affettuosa, e fa delle culbutes dans le bleu, e che culbutes! Fa quell'angelo purissimo di Désirèe, che sembra sbocciata dalla fantasia del Lamartine, e la famiglia di Joyeuse, che par tagliata netta da un romanzo di Carlo Dickens, e la virtù tutta di un pezzo della regina d'Illiria, e il fratello Jacques, d'una bontà più che umana; creature che non possono quasi comprendersi nemmeno in quella realtà poetica fino alla quale spinge le sue concessioni lo Zola. Ma che importa? Quel che ci perde in rigore il verismo, lo guadagna lui in simpatia. In tutti i suoi romanzi, ed anche nei più brevi suoi racconti, si sente ad ogni pagina il profumo d'un'anima nobile e gentile, che serba la sua bella serenità anche nella pittura dei più orrendi vizi, che sente la bellezza fin nelle più intime fibre, che vibra potentemente per ogni idea grande e per ogni grande affetto; aperta e limpida, piena di pietà per tutti i dolori, dominata da un sentimento netto e profondo del bene e del male, dotata d'un senso comico originale e simpatico che non si esprime nella risata plebea, ma in un sorriso fine e grazioso, e canzona amabilmente, senza schernire, in modo che ogni anima più delicata può sempre farvi eco, sicuro che non riderà mai di nulla di triste e di rispettabile. E il Daudet è giovane; forse salirà ancora per molti anni. C'è un pericolo non di meno: che per mantenersi il favore grande che s'è acquistato, egli sforzi il suo ingegno e lo pieghi alla curiosità e al gusto falso del pubblico, sia proseguendo la serie dei così detti romanzi â allusions, come i suoi ultimi due, che è la via più sicura per riuscire a grandi successi librarii a scapito dell'arte; sia spingendo anche più oltre quell'efflorescenza già soverchia di stile, che si nota principalmente nei Rois en exil, e che i critici di gusto lamentano, ricordando la bella semplicità efficace dei suoi scritti anteriori. È da sperarsi che sì arresti su questa china. Frattanto egli appartiene a quella famiglia di scrittori, a cui è difficile assegnare un grado nella gerarchia degli ingegni, perchè la simpatia che ispirano confonde gli argomenti del giudizio letterario. Ci sono ingegni grandi che preferiamo ai grandissimi, come edifizi gentili a enormi palazzi di granito. Perchè voler mettere ad ogni costo, anche su di loro, il numero d'ordine? Il meglio è lasciarli in disparte, dove si trovano; e questa necessità in cui ci mettono di ammirarli in una specie di solitudine, è forse il loro più bel titolo di gloria. Il Daudet è uno scrittore nato, di quelli, come dice il Foscolo, che hanno l'arte nei muscoli e nel midollo delle ossa, e la cui potenza risiede in qualche cosa di intimo che sfugge all'analisi. Fare i pedanti sull'arte sua, ripugnerebbe, come il criticare la forma di un fiore o le sfumature d'un'aurora. E in questa manìa universale di «uccider l'arte per vedere com'è fatta» è grato l'incontrare uno scrittore come il Daudet, che abbarbaglia e trascina, e fa piangere e ridere, e ci si pianta nel cuore, senza lasciarci tempo e modo di tormentar lui e noi coi ferri della critica, che tagliano anche dal manico. Noi pigliamo il Daudet com'è, con le sue deficienze e coi suoi difetti, ad occhi chiusi, facendogli festa amorosamente, come a un fratello glorioso. Un critico francese disse tempo fa che bisogna contentarsi del Daudet perchè non abbiamo dei genii. — E noi ce ne contentiamo — infinitamente.
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Il Daudet, come la più parte degli scrittori celebri di Parigi, vive molto a sè: non va tra la gente che per studiare, perchè è uno di quegli artisti che si reggono più sopra l'osservazione che sopra l'immaginazione; ed è difficile arrivare a lui, non perchè faccia l'inaccessibile, ma perchè tra il teatro e il Moniteur e i romanzi e gli amici e le mosche, ha quasi sempre la giornata presa. È come pigliare un biglietto per il Nouvel-Opéra, nelle grandi occasioni: bisogna pensarci una settimana prima. Sta al quarto piano, malgrado le ottanta edizioni del Nabab, in un quartierino che guarda sui giardini del Lussemburgo, famosi per convegni d'amanti; piccolo, ma pieno di luce e allegro, un vero nido di rondini, da cui si sentono appena i rumori della strada, che son rari. Non si può immaginare una casa di scrittore che corrisponda meglio alla natura dell'ingegno e dell'animo, ed anche alla persona del padrone. C'è tutta la varietà e la grazia d'ornamenti e di colori del suo stile, e la morbidezza della sua indole. Son due stanzine raccolte, quelle che io vidi, piene di fiori, di piccoli bronzi, d'oggettini giapponesi e d'acquerelli, che sul primo momento confondon la vista, come certe sue pagine fosforescenti: i divani e i seggioloni coperti di antiche stoffe a ricami argentati, i libri luccicanti di dorature: tutto nitido, piccolo e grazioso. L'amico che m'accompagnava mi disse nell'orecchio, accennando intorno: — Ci si vede la mano della donna. — E infatti non solamente l'aspetto della casa, ma qualcosa d'indefinibile che è nella persona e nei modi del Daudet fa indovinare la donna non solo, ma l'amore. Sono gradevolissimi quei pochi momenti che si passano nella casa d'uno scrittore ammirato e simpatico, aspettando la sua apparizione. Ogni più piccolo oggetto par che contenga la rivelazione d'un segreto del suo ingegno e del suo cuore, e si vorrebbe scoprire un legame tra il capriccio che gli fece scegliere i ninnoli del salotto e il gusto che lo guida nella scelta dell'immagine e della frase potente. Si vorrebbe frugare per tutto e fiutare ogni cosa. Il visitatore piglia l'aspetto d'un ladro domestico che cerchi intorno su che cosa ha da fare il suo colpo. Mentre appunto stavo facendo il ladro, si sentì nell'altra stanza una voce sonora e dolce, si spalancò una porta con impeto, e comparve Alfonso Daudet.
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Non credo che la più appassionata delle lettrici del Nabab si sia mai rappresentata, pensando al Daudet, una figura più bella e più simpatica della sua figura reale. Di statura media, di proporzioni giuste, sottile per i suoi trentott'anni, ha una testa che potrebbe servire di modello per un Cristo a un pittore idealista: una grande capigliatura nera ondulata che gli fa ombra alla fronte; gli occhi neri, d'una lucentezza e d'una fissità strana, che guardano con una espressione dolcissima; il viso, perfettamente ovale, d'un color bruno pallido; la bocca piccola e benevola, la barba alla nazarena, e un naso aquilino della più bella arcatura che possa immaginare un pittore. Non posso assicurare che sia il più bel naso della Francia, come m'ha detto uno dei suoi ammiratori entusiastici; ma veramente, non mi ricordo d'aver mai visto un profilo di volto più puro e più nobile di quello del Daudet. Ha delle mani di donna, un sorriso giovanile che gli rischiara tutto il viso, e una voce armoniosa, pastosa, agile, abbellita da un tremito leggerissimo, che par che venga dal profondo del cuore, e dà un'efficacia indicibile alle sue parole, quando egli s'esalta nell'espressione d'un bel sentimento. Oltre a questo, un modo di muoversi e di discorrere, pieno di vivacità e di naturalezza, da buon giovanotto; un fare da pittore allegro e cordiale, sorpreso in giacchetta in mezzo al disordine dello studio; e una certa trascuratezza artistica nel suo vestimento nero, che s'addice benissimo alla graziosa mobilità della sua figura signorile. A chi non la conoscesse, parrebbe piuttosto un italiano o un castigliano, che un francese. La sua stessa pronunzia non è così serrata e arrotata come quella dei parigini, quantunque tradisca appena il provenzale; e la sua voce ha un metallo particolare, un colore musicale, come dicono là, rarissimo a trovarsi a Parigi. Ora chi ha davanti agli occhi la figura nobilissima del Daudet, immagini la strana impressione che mi fece, appena fummo seduti intorno al caminetto del suo studio, vedergli tirar fuori dal taschino della sottoveste e mettersi in bocca, con un atto voluttuoso di vecchio fumatore, una miserabile pipetta di terra, uno scandaloso brûle-gueule da muratore, lungo un dito; e dar segno di viva soddisfazione quando gli si disse che era admirablement culottée.
Era una pipa che gli aveva lasciata per memoria il povero Flaubert, gran fumatore, il quale si faceva fare delle pipe apposta a Rouen. Il Daudet (me ne dispiace) fuma come un ottomano, e quello che è peggio, è profondamente persuaso che il fumare non gli faccia danno; dice anzi che più fuma e più lavora, tanto che la sera misura il lavoro fatto dalla diminuzione del tabacco nella scatola. Secondo lui, ci sono dei temperamenti sui quali il tabacco è affatto innocuo. I suoi confratelli credono il contrario: Vittor Hugo, il Dumas, lo Zola non fumano; l'Augier ha smesso dopo un avvertimento terribile; il Girardin, anni sono, bandì la guerra al tabacco, come Urbano VIII; e credono i più che derivasse dall'abuso della pipa la penosa lentezza con cui lavorava il Flaubert negli ultimi anni.
Il Daudet, però, è grande lavoratore, a dispetto della nicotina. Parlò a lungo della sua maniera di lavorare. Raccontò come fece a scrivere il Nabab. Pazzie! Otto mesi di lavoro furioso, diciotto ore al giorno a tavolino, tolti pochi minuti per mangiare; intere settimane senza metter piede fuor dell'uscio; una sola enorme fiatata dalla prima all'ultima pagina. Capiva bene che ci si finiva; ma non era più padrone di sè; il diavolo lo portava via; avrebbe tirato avanti egualmente, anche con la certezza di rimetterci la vita. Fu come un sogno febbrile di otto mesi. Nelle poche ore di sonno, sentiva urlare nella stanza i suoi personaggi, e un rumore continuo e precipitoso, come se gli sfogliassero furiosamente negli orecchi un vocabolario colossale, con le pagine di metallo. Alle quattro della mattina balzava in piedi come spinto su da una molla, balbettando delle frasi sconnesse del suo romanzo, come un delirante. La stanza era già ordinata fin dalla sera, e i panni preparati in modo da potersi vestire in un attimo, e saltar quasi dal letto al tavolino, senza passare per tutti quei petits détails de toilette, che sono un tormento per chi ha nel capo la furia d'un'idea, e danno tempo alla pigrizia di pigliar signorìa sulla volontà. La mattina però aveva la mente velata, non faceva che un lavoro d'ordine: copiare, correggere, preparare. Il grande lavoro veniva dopo, e la vera ispirazione, le pagine facili e ardenti, le ondate luminose della fantasia, la sera, verso le nove, dopo il desinare; e così andava innanzi per buona parte della notte. Ma non distingueva più il dì dalla notte; a un tratto si accorgeva di lavorare da molte ore al lume della candela; improvvisamente, dopo molte ore di assorbimento, yedeva il sole. E così di settimana in settimana, e di mese in mese; dopo giornate intere di tortura, venivan giornate piene di gioie e di trionfi, e poi daccapo umiliazioni e rabbie mortali, e poi nuovi impeti felici d'ispirazioni e di lavoro. E quando scrisse la parola fine rimase sbalordito e quasi spaventato dello sforzo insensato che aveva fatto. E come ne pagò il fio, in seguito! Immediatamente, per rifarsi, si mise a tirar di scherma in casa sua, dalla mattina alla sera, per ore e ore filate, come un matto, fino a cader senza fiato sul pavimento. Ma era tardi; aveva esaurite le forze. — Non di meno — disse — avevo i Rois en exil nella testa; n'ero appassionato; mi rimisi a scrivere. Ah le terribili giornate! Ardevo d'impazienza e d'entusiasmo, e il corpo si rifiutava al lavoro. La mia povera testa cadeva, gli occhi si chiudevano, mi addormentavo sui fogli, mi svegliavo smemorato e spaventato, non raccapezzando dove fossi e quanto avessi dormito; non reggevo più alla menoma fatica; e il mio nuovo romanzo, come sempre accade dell'ultimo, mi pareva così bello! L'idea di non poterlo finire mi uccideva; mi ci rimettevo con sforzi disperati.... inutilmente, e piangevo di dolore e di rabbia! — Poi venne l'inazione forzata, vennero le lunghe ore d'immobilità assoluta e di silenzio; ore desolate e interminabili, in cui il suo bel mondo di fantasmi gli appariva di lontano, come la visione di un paradiso perduto, e la sua cara vita d'artista gli pareva finita per sempre. — «Una notte finalmente....»
Qui si voltò con molta grazia, e disse vivamente, con la sua voce piena di dolcezza: — «Vous me pardonnerez, monsieur. Ce sont des détails de notre métier, n'est-ce pas? Fra noi altri non sono cose indifferenti.»
Una notte, all'improvviso, si sentì soffocare, credette di morire, chiamò sua moglie, fece appena in tempo a dirle: — Finis mon bouquin! (finisci il mio libro), ed ebbe uno spaventevole sbocco di sangue, che lo lasciò come morto.
Poi, lentamente, si ripigliò: ma ora sta in riguardo, e non lavora più così furiosamente come nel primo caldo della gioventù.
— Finis mon bouquin! — Che c'è di più commovente di questo artista che sul punto di morire, pensa più al suo bel sogno di poeta, che alla propria vita, e dice a sua moglie: — finiscilo tu? — Ma femme — soggiunse poi — connaît l'art autant que moi; avrebbe finito il mio bouquin benissimo; non avrei potuto affidarlo meglio che alle sue mani. — La signora Daudet, infatti, è scrittrice arguta e finissima, e si dice che abbia molta parte nei lavori di suo marito. Si asserisce persino che il manoscritto d'uno dei più applauditi romanzi di Alfonso portasse la firma del marito e della moglie, e che sia stata lei quella che voltò il Daudet alla sua seconda maniera, che lo spinse, cioè, verso il naturalismo dei Goncourt, ingentilito. Tutta la famiglia Daudet è di sangue artistico. Il fratello è romanziere, e il cognato, che fa il giornalista, imita mirabilmente, si dice, lo stile dell'autore di Fromont jeune et Risler aîné.
Venne poi a parlare del teatro, e delle noie che gli danno le prove d'una commedia ricavata dal suo romanzo Jack; e si capì da quel che disse che è di natura dolce, sì, ma vigorosa e imperiosa quando si tratta di far prevalere le sue intenzioni d'artista ai capricci degli attori cocciuti. Dal suo Jack, poi, fece cadere il discorso sull'Arlésienne, un grazioso idillio drammatico che fu rappresentato al Vaudeville, anni sono, con poca fortuna. E qui mostrò adorabilmente la sua bella natura calda e appassionata d'artista. Egli ci tiene a quella disgraziata Arlésienne. Il dramma avrà dei difetti, ma il pubblico ha avuto dei torti. La sua prima sfortuna è stata quella di presentare quell'idillio al pubblico del Vaudeville. Il teatro era pieno delle cocottes e dei viveurs, che, appunto all'ora della rappresentazione, escono dai caffè e dalle trattorie vicine, coi fumi del vino alla testa, eccitati dai discorsi che tutti immaginano, in una disposizione di animo e di corpo, quale si può pensare, per comprendere la poesia d'un amore nobile e profondo, che finisce nella morte. Risero. Risero specialmente dell'episodio di Balthazar e di madame Nigaud. — È una cosa semplicissima — disse Daudet, e lo raccontò con quella sua voce profonda e tremola, in un modo da cavar le lacrime. È un contadino di vent'anni, Balthazar, buono, di animo onesto e nobile, che s'innamora della sua padrona, e l'ama segretamente e umilmente, tremando che il suo segreto sia scoperto; sottomesso e devoto come uno schiavo, risoluto a morire d'angoscia piuttosto che mancare al suo dovere. E non dice una parola, e neppur la signora a lui, benchè gli legga nell'anima. Solamente, qualche volta, quando egli è solo nei campi, essa gli va a sedere vicino, e lo guarda. Un giorno, bruscamente, gli va incontro e gli dice: — Balthazar, t'amo; vattene! — E lui se ne va. Se ne va lontano, con altri padroni; gli anni passano, non rivede più madame Nigaud, invecchia col suo amore sepolto nel più profondo dell'anima, sempre buono, e un po' triste; ma confortato dalla coscienza d'aver fatto il proprio dovere. Ebbene, dopo cinquant'anni, la signora Nigaud capita dalle sue parti, e si incontrano faccia a faccia, in presenza di molta gente. Rimangono senza parola.... e poi si parlano. — Ne abbiamo avuto del coraggio, non è vero? — si dicono. — Ma Dio non ha voluto che morissimo senza esserci riveduti. Egli ci doveva ben questo per ricompensarci del nostro sacrificio. — Quante volte — dice il vecchio colla voce tremante, sorridendo — io vedevo dai campi il fumo della vostra casa, e mi pareva che mi dicesse: — Vieni, Balthazar, la signora è qui! — Ed io — risponde lei — quando sentivo abbaiare i tuoi cani e ti vedevo di lontano con la tua lunga cappa, ora te lo posso dire, facevo uno sforzo, sai, per non correrti incontro! Ma il nostro dolore è finito ora, non è vero? e possiamo guardarci in viso senza arrossire. Ebbene, Balthazar.... non avresti vergogna di abbracciarmi adesso, vecchia e disfatta dagli anni come sono? No? Qua dunque, stringimi una volta sul tuo cuore, mio povero vecchio, mio bravo e buon Balthazar! Sono cinquant'anni ch'io te lo devo, questo bacio d'amica! — E si gettano singhiozzando l'uno nelle braccia dell'altro. — E quei signori risero — soggiunse il Daudet, tutto vermiglio d'indignazione, — risero sguaiatamente, oltraggiosamente, indecentemente! E il Figaro mi canzonò per venti giorni di seguito, secondo che mi aveva promesso il Villemessant, che tenne scrupolosamente la sua parola. Ma come non hanno capito, in nome di Dio, che quello era vero e sacrosanto e preso dentro alle viscere umane! Ah! io mi sento altiero, vedete, di quelle risate!
Tutt'a un tratto si mise a ridere anche lui del miglior cuore del mondo, e prese a parlare degli incidenti comici di quella serata. — Erano in vena di ridere, che cosa volete? Un personaggio, facendo una descrizione della campagna, diceva che si sentiva il canto degli ortolani. Fu uno scoppio di risa omeriche. Il canto degli ortolani! L'ortolano, per i parigini, è una ghiottoneria squisita, un piatto, non un uccello. Una platea non può ammettere in nessuna maniera che ci siano degli ortolani vivi e pennuti, che volano e che cantano; non riconosce che degli ortolani in casseruola, con una fetta di lardo sulla schiena. Andatele a parlare del canto degli ortolani! Voi conoscete il canto degli ortolani, non è vero? — E qui, infervorandosi nel suo discorso, da vero artista, per provare che quei disgraziati uccelli cantano anch'essi, prima d'essere serviti coi tartufi, si mise a imitare il loro trillo, come un ragazzo, e a spiegarci che cantano in certe condizioni di tempo e a certe ore; come in altr'ore, nel Bosco di Boulogne, si sente da tutte le parti la nota monotona del cuculo, e imitò la voce del cuculo; il quale gli ricordò altri uccelli, di cui rifece il verso, ridendo sonoramente, già le mille miglia lontano dall'Arlésienne e dal Vaudeville, tutto brillante nel viso, rapito nei ricordi delle sue passeggiate primaverili e delle sue corse di giovanetto a traverso alle campagne della Provenza; e parlando così rapido e caldo, si gettava di tratto in tratto in ginocchio davanti al caminetto, con la sveltezza d'un giovane di vent'anni, per accendere la pipetta del Flaubert, e ricacciava indietro con una scossa del capo la grande capigliatura nera che gli cascava sulle guancie rosate: disinvolto, allegro, impetuoso, amabile da farsi baciare.
Poi si fece serio improvvisamente e disse: — Risero dell'Arlésienne e applaudirono Fromont jeune.... Tal sia di loro. — E scrollò le spalle.
— Ma non potete immaginare — ripigliò subito dopo — che cos'è una prima rappresentazione per me! Non lo nascondo, miei buoni amici, non so far l'uomo forte; mi sento da meno d'un fanciullo. Già da più giorni prima mi trema l'anima. In quei momenti, poi, è uno sconvolgimento di tutto il mio essere, da averne terrore. Ogni volta dico a me stesso: — Questa sarà l'ultima! — E poi ci ricasco. Ma le più violente emozioni del lavoro notturno, dopo mesi di eccitamento e di diavolo in corpo, quando si caccian fuori ad un tempo parole, grida, gemiti e lacrime, e par che il cranio scoppi e le ondate del sangue rompano le vene, non son nulla in confronto dell'inferno che mi rugge nell'anima quando sento nella fronte il soffio maledetto d'una platea.
Poco dopo venne a parlare del nuovo romanzo che ha sul telaio, e diede la via a un vero torrente d'eloquenza comica e pittoresca, a una di quelle splendide sfuriate da parlatore magistrale e da grande artista, che rimangono impresse quanto le più belle pagine dei più bei libri. Venne a parlare del romanzo a proposito dell'attore La Fontaine dell'Odéon, che deve recitare nel suo Jack, e ch'è un meridionale espansivo, tutto fuoco e fiamme, esuberante di vita a segno, che non riesce a far bene se non le parti contrarie affatto alla sua natura, nelle quali è costretto a frenarsi. Il nuovo romanzo, che si potrebbe intitolare l'Imagination, riguarda appunto i meridionali, les gens du midi, quella gente immaginosa, focosa, tempestosa, tutta a scatti e a folate, temeraria e invadente, che va dalla provincia a Parigi, e conquista la grande città con la sua audacia, con le sue passioni, con la sua eloquenza, con la varietà e la vivacità infaticabile e simpatica delle sue attitudini. Il tipo di costoro è un avvocato, uno di quegli uomini che non son nulla a sangue freddo, ma che possono tutto quando s'accendono, e che non pensano se non quando parlano; specie di cantanti della vita pubblica, che fanno fortuna con la voce e con la passione. Costui, sconosciuto affatto, deve far la sua prima difesa alla Corte d'assise, in una causa che disprezza. Ci va di malavoglia, dà un'occhiata sbadata alle carte, e comincia a parlare svogliatamente. A poco a poco, però, il suono della propria voce lo eccita, la sua natura meridionale si sveglia, mille cognizioni e mille idee nascoste gli vengon su a ondate come per incanto, le sue facoltà intellettuali ingigantiscono rapidissimamente, s'entusiasma di sè, si commuove, i suoi occhi si inumidiscono, la sua voce s'innalza in grida e in accenti irresistibili, la sua eloquenza sfolgora e soggioga l'uditorio, ed egli termina tra un uragano d'applausi, ed esce stupefatto, sbalordito di sè medesimo, in mezzo a una folla entusiasmata che lo acclama e lo eleva al cielo, promosso grand'uomo, in tre ore. Così egli comincia la sua carriera. Intorno a costui s'aggruppano altri personaggi dello stesso paese e della stessa tempra. Ognuno può immaginare dentro a che aria ardente ed elettrica il romanzo si debba svolgere, che diavolerie d'avventure ci si debba trovare, che ira di Dio di passioni, che tempeste di dialoghi, che lava infocata di lingua.
Condotto a parlare della natura meridionale, eccitato come uno dei suoi personaggi, il Daudet ci fece passare dinanzi una lanterna magica di originali amenissimi: gente che vive in uno stato di congestione cerebrale perpetua, briachi senza bere, a cui si vedono salire al viso, di tratto in tratto, onde di sangue infiammato, che gl'imporporano fino alla radice dei capelli; — che parlano da soli per la strada, a gesti concitati, cogli occhi fissi dinanzi a sè, vedendo passare realmente, come cose salde, gli spettri della propria fantasia; — gente per cui ogni pensiero si fa immagine viva, e ogni immagine ne suscita cento, e ogni più piccolo accidente diventa dramma; — fuochi d'artifizio che bruciano per tutta la vita; mutabili come «quadri dissolventi;» che nello spazio di cinque minuti singhiozzano parlando della madre malata, scroccano cinque lire a un amico, criticano furiosamente l'ultima commedia dell'Odèon, danno in una gran risata per una barzelletta, e balzano in piedi cogli occhi sanguigni e col collo gonfio, tendendo il pugno in atto d'imprecazione contro i nemici della repubblica: — un misto stranissimo di natura femminea e di virilità selvaggia, di spontaneità impetuosa e d'arte sopraffina, matti e furbacchioni ad un tempo, pieni di sentimenti generosi e di superstizioni da femminette, terribili negli amori e negli odii, spensierati e ostinati, piagnoloni e burloni e sballoni, commedianti eterni, creature proteiformi e indecifrabili, adorabili e odiosi secondo il colore del tempo. Quanti ne fece passare, e con che maestria, dal letterato bohémien che parla per cinque ore di seguito, con un affetto sviscerato, della famiglia lontana a cui non ha mai dato che dei crepacuori, e s'esalta a poco a poco fino al punto, che i suoi amici, temendo un colpo d'apoplessia, gli schiacciano improvvisamente sulla nuca un'enorme spugna piena d'acqua, che egli riceve ringraziando con voce di moribondo; fino al basso sfiatato, il quale, all'annunzio della morte di un amico, grida con sincero dolore: — Mort! —; ma sorpreso dalla voce piena e inaspettatamente sonora che gli è uscita dal petto, scorda l'amico, ripete la nota, cangia di tuono, prova una fioritura, e si frega le mani, esclamando gioiosamente: — Ça y est! — Poi rifece mirabilmente il dialogo di due di costoro; i quali incontrandosi per la prima volta, si fanno a vicenda le più sviscerate proteste d'amicizia, e le più calorose profferte di servigi, con le lagrime agli occhi, ciascuno dei due non credendo una maledetta alle parole dell'altro; e si lasciano dicendo l'un dell'altro: — È un briccone ipocrita; — il che non toglie affatto che, incontrandosi daccapo cinque minuti dopo, gettino un grido di gioia e si corrano incontro con le braccia aperte, ringraziando il cielo della buona ventura; e tutto ciò sinceramente, col viso raggiante e con la voce commossa davvero. Ma bisognava vedere come imitava le voci, i gesti, gli sguardi, i fremiti delle labbra mobilissime e delle narici dilatate, e il roteamento degli occhi bovini, piegando a tutti i tuoni la sua voce morbidissima di tenore. Si sarebbe inteso con un grande piacere anche non comprendendo il senso delle sue parole, tanto la sua voce accarezza l'orecchio, come un canto, e il suo gesto spiega il pensiero. Come si vedeva l'artista! Mentre parlava, faceva continuamente con la mano destra l'atto di dare un colpo di cesello, o un tratto di matita, o di premere col pollice il colore sulla tela; e quando in quella foga ardente era costretto a soffermarsi un mezzo secondo per cercare la parola propria, s'impazientava e fremeva che pareva sotto i ferri d'un chirurgo. Allo studio della natura meridionale fu certamente aiutato dalla natura propria; ma meraviglioso nondimeno il tesoro di osservazioni che ha raccolto prima di mettersi a scrivere il suo romanzo. — Hanno un modo di vedere il mondo, e di starci, tutto loro proprio, — disse concludendo: — ma ci sono grandi differenze tra loro. Ci sono i meridionali della parte di Spagna e quelli della parte d'Italia. Questi hanno la stessa potenza d'immaginazione, la stessa effervescenza e le stesse attitudini di quegli altri; ma con più fondo latino. Sanno meglio dominarsi. Hanno il savoir faire italiano. C'è più combinazione nella loro natura. Messi alle prese coi loro fratelli dell'altra parte, gl'insaccano. Leone Gambetta è un di loro. — E anche Alfonso Daudet. Egli stesso lo disse colla sua grazia arguta, riferendo la risposta data da lui a un direttore di teatro, Avignonese, il quale voleva dargli ad intendere non so che cosa. — Caro mio, è inutile che vi sgoliate. Io son dei vostri. Nous sommes compliqués, vous savez. Ci comprendiamo benissimo. Mettiamo le carte in tavola senz'altro. — Egli trova molta analogia tra i meridionali di Francia e i normanni. I normanni sono i meridionali del nord: vedono tutto grosso. — Guardate il Flaubert — disse — il Vacquerie, il D'Aurevilly, — e ne citò venti, dando a ogni nome una pennellata da ritrattista. Io lo guardavo attentamente mentre parlava, e mi faceva meraviglia e paura il vederlo già così nervoso e vibrante alle dieci della mattina, prima ancora d'aver ricevuto la scossa del lavoro artistico; e più mi meravigliavo pensando che non era certo la presenza d'un suo amico intimo e del primo straniero capitato, che lo metteva così in ribollimento; che quello doveva essere il suo stato abituale, il suo modo di vivere, sempre concitato, febbrile, tormentato dal suo pensiero e dal suo sentimento, con le mani irrequiete e la voce commossa. — Che sarà quando lavora — pensavo — o quando parla davanti a venti persone, in quei giorni in cui cinquantamila esemplari d'un suo romanzo spiccano il volo per le quattro plaghe dei venti?
Nominato il Flaubert, mutò viso, e parlò dei suoi funerali a Rouen, dov'era stato pochi giorni prima, con accento affettuoso e triste, come d'un figliuolo; e guardava fisso la pipetta, come se serbasse in sè qualche cosa di vivo del suo grande e buon amico. All'improvviso, si rasserenò e saltò addosso con tutte le armi del suo arsenale satirico, a un disgraziato scrittore francese, che aveva incontrato ai funerali: un vecchio poeta bizzarro, non meno famoso per il suo ingegno che per i suoi vestimenti teatrali, ornati di nastri e di trine; settuagenario di ferro, gran mangiatore, gran bevitore, gran buon diavolo e grande poseur, che ingigantisce tutto, e parla con una specie di solennità imperatoria d'ogni più piccola cosa; e lo tratteggiò, lo colorì, lo sballottò per mezz'ora fra le sue piccole dita affusolate di romanziere parigino, rifacendo la sua voce stentorea e la sua mimica grandiosa, in una maniera da mandarsi male dal ridere. I frizzi, i paragoni comici, le osservazioni argute e inattese gli venivan via l'una sull'altra, affollate e annodate, che non c'era tempo di goderle tutte: pareva di sentir parlare a una voce cinque parigini dei più lepidi e dei più facondi. E raccontando certe avventure del suo personaggio, col quale è legato, lasciava indovinare a traverso alla vita del collega qualche tratto della vita propria, della sua bella vita varia e agitata di scrittore parigino: le cene tumultuose con gli amici celebri; il festino interrotto alle tre della mattina per andar a correggere le stampe al giornale; le lunghe dispute letterarie cento volte interrotte e riattaccate, a notte tarda, per le vie solitarie di Parigi; le grandi espansioni allegre dopo i grandi lavori gloriosi; qualche leggiero abuso di Champagne, una volta tanto, per concedere qualche cosa alla mattìa giovanile, non ancor tutta domata dalle fatiche austere dell'arte; e le baldorie improvvisate in casa del De Nittis, dove qualche volta l'autore del Nabab, a cavallo al pittore napoletano, con una stecca da bigliardo in resta, ha fatto il picador andaluso, tra gli applausi degli amici e le risa delle signore, in mezzo al disordine sfarzoso dello studio, pieno di capolavori in gestazione.
Udendo parlare della diffusione dei suoi romanzi in Italia, domandò vivamente: — Davvero? — e mostrò quasi d'esserne meravigliato.
Legge l'italiano, ma non lo parla. Quel poco che sa della nostra lingua lo imparò abitando per qualche tempo con certi italiani, nessuno immaginerebbe mai dove.... dentro a un faro. Non disse di più: mi immagino che sia stato un capriccio alla Byron. Ma già tutta la sua prima gioventù, da quanto ne accennò vagamente, dev'essere stata delle più avventurose. Una parte ne raccontò nella sua Histoire d'un enfant, in quella carissima autobiografia, che par scritta dall'autore del Copperfield, con più sveltezza, e con non minore sentimento. È nato anche lui, come il suo petit chose, in una di quelle città della Linguadoca «nelle quali, come in tutte le città del mezzogiorno, si trova molto sole, un gran polverìo, un convento di Carmelitane e qualche monumento romano.» Figliuolo d'un povero negoziante, rimase giovanissimo sul lastrico. Ancora adolescente, entrò istitutore in un piccolo collegio per guadagnare da vivere, e andò a cercar fortuna a Parigi, dove per un pezzo stentò il pane, e forse patì la fame, facendo i primi versi al freddo, e passando per la trafila dei primi amori. Quell'angelo di fratello, che fa da madre a petit chose, dev'essere uno dei suoi fratelli, perchè quei personaggi lì non s'inventano, o non si rendono, se son di fantasia, con quella freschezza incantevole di colori, anche avendo l'ingegno di due Daudet. Ma poi si riconosce a ogni passo, nel protagonista di quella storia gentile, la bella natura di artista e di buon figliuolo del futuro autore dei Contes du lundi; e non solo la sua natura, ma la sua persona. Già adulto, pareva ancora un ragazzo, tanto le sue forme erano delicate e quasi femminee. Era il ritratto di sua madre. La sua testa «piena di carattere,» come gli diceva Irma Borel la avventuriera, poteva servir di modello per un bel pifferaro italiano o un grazioso algerino mercante di violette. Irma se lo porta via e la signorina Pierrotte se ne incapriccia appena lo vede; e il suo buon fratello Giacomo, geloso della signorina, glielo dice qualche volta con tristezza: — Ah! tu sei fortunato. A tutti piaci, tutti ti vogliono bene: è ben naturale che finisca con amarti anche lei! — Povero petit chose, povero Daudet di diciassette anni, costretto a fare i conti centesimo per centesimo; a campar degli avanzi della tavola d'un marchese, che gli porta di soppiatto suo fratello; a strapparsi il pane dalla bocca per comprarsi la candela da poter lavorare la notte! Poveri romanzieri, fanciulli di genio, che ci rallegrano e ci consolano, che ci strappano dal cuore le buone lacrime e il riso salutare, che entrano nella nostra vita e ci fanno vivere con loro, e diventano nostri amici e nostri fratelli, — poveri romanzieri celebrati e festeggiati, — che lacrime di sangue hanno pianto prima che il loro nome arrivasse sino a noi, quanto pan duro hanno ingoiato prima di cenare dal Brébant, e quante soffitte hanno riempite delle loro angoscie prima di possedere quei tappeti, su cui noi passiamo adesso in punta di piedi, rispettosamente, venuti di duecento miglia lontano, per vederli nel viso!
Mentre continuava a discorrere riaccendendo di tanto in tanto quella benedetta pipuccola, che mi rubò almeno mille parole, altre persone venivano annunziate, fra le quali pensai che ci fosse qualche seccatore, vedendo passare sulla sua fronte, all'annunzio dei nomi, una leggiera comicissima espressione di terrore. Ma riceveva tutti con la stessa bonarietà franca e festosa, riempiendo la stanza del suo bel riso fresco di studente. E si vedeva che anche i suoi amici intimi lo stavano a sentire con grande piacere. Era in vena. — Non si direbbe che parla — mi disse uno — ma che suona. Questo mi ricordò un appunto che gli fanno certi critici: dicono che il suo stile è lo stile di uno che recita. Ma l'occhio dell'osservatore più acuto e più malevolo non scoprirebbe nel suo parlare e nei suoi atteggiamenti nè un accento nè l'ombra d'un gesto che potesse dar sospetto d'artifizio. Era bello a vedere, sopra tutto, nei passaggi improvvisi da un discorso faceto a uno grave. Quando la sua ilarità sonora era attraversata da un pensiero sull'arte o da un ricordo triste, pareva che con lo stesso atto nervoso della mano cacciasse indietro i capelli e cancellasse il sorriso dalla fronte; e allora appariva aperto, immobile e puro il suo volto pallido di Nazareno, così pieno di pensiero, che faceva cessar subito il riso intorno a sè, e s'indovinavano le sue parole prima di sentir la sua voce.
Così fece quando qualcuno dei presenti nominò Giacomo Leopardi, ch'egli aveva letto per la prima volta in quei giorni. I francesi che intendono un po' d'italiano, leggendo il Leopardi, trovano quasi sempre un intoppo alle prime pagine, e non vanno più oltre, spaventati dalle difficoltà che presentano le allusioni mitologiche e la forma un po' tormentata e velata di certe canzoni. Rimangono quindi con l'immagine dimezzata d'un Leopardi politico, erudito ed astruso, ignorando affatto il poeta appassionato e limpido delle liriche seguenti, che è il vero e grande Leopardi. Il Daudet andò fino in fondo, e mi fece piacere e meraviglia il sentire come l'ha capito profondamente, anche a traverso alla traduzione. Ma è ridicolo il dir meraviglia, poichè dovrebbe meravigliare il contrario, in un artista come il Daudet. Uno dei suoi amici non aveva del Leopardi un concetto giusto. Egli lo definì da par suo. — No, sapete — disse; — sbaglia, a parer mio, chi rimpiccolisce la sua poesia attribuendola a «mal di stomaco.» Non è dispetto contro la natura, il suo; è una malinconia grande e profonda, una disperazione ragionata e tranquilla, che non deriva dal cuore malato, ma dallo spirito persuaso. Guardate come è alta e serena l'immagine della morte come egli la presenta! E come l'animo suo rimane gentile malgrado la disperazione! È un disperato che dice le più amare verità sulla vita e sulla natura; ma che è innamorato di tutto quello che è nobile e bello; uno spirito sovranamente generoso e benevolo, compreso d'una pietà immensa per i suoi simili; il quale, data la sua filosofia dolorosa, che crede meno funesta dell'errore, vuol consolare, non desolare il genere umano. Che peccato non poter gustare la sua forma, perchè chi sentiva e pensava in quella maniera, deve aver dato alla sua poesia un corpo degno dell'anima.
Da ultimo, accompagnandoci all'uscio, e soffermandosi accanto a ogni mobile per prolungare la conversazione, venne a parlare di quella gran passione d'ogni artista parigino, imprigionato nella città enorme, che lo condanna ai lavori forzati, di scappare un bel giorno come un uccello, e di volare a traverso al mondo, senza scopo e senza pensieri, libero come l'aria, a far buon sangue e a raccogliere vigore per tornare più poderoso alla gran battaglia di Parigi. Il suo primo volo sarebbe al di qua delle Alpi. — L'Italia è il nostro sogno — disse: — quando abbiamo la testa e il cuore affaticati, la nostra fantasia scappa laggiù, nel vostro azzurro e nel vostro verde. — Egli l'ha presa per tempo la passione dei viaggi. Lo raccontò ne' suoi Contes du lundi. Passò la sua infanzia in una città attraversata da un fiume, pieno di battelli e di traffico, sul quale aveva il suo piccolo scalo anche il père Cornet, che dava a nolo delle barche. Ah! quel père Cornet! È stato il satana della sua infanzia, la sua passione dolorosa, e il suo rimorso. Svignava di casa, bucava la scuola, vendeva i libri, per noleggiare una barca e scappare di città a colpi di remo. Non se ne può ricordare senza emozione di quelle deliziose fughe sul fiume, in mezzo al grande via vai delle zattere, del legname galleggiante, dei piccoli bastimenti a vapore, e dei barconi carichi di mele, che gli arrivavano addosso improvvisamente, e da cui una voce arrantolata gli gridava: — Fatti in là, moscherino! — Tutto questo gli dava l'illusione d'un grande viaggio, della grande vita di bordo, e tutto acceso e sudante, col cappello indietro, e i piedi sui quaderni di scuola, remando furiosamente con le sue piccole braccia di dodici anni, usciva di città, sotto il sole cocente, in mezzo al barbaglio argentino delle acque, e andava a riposare contro la sponda, in mezzo ai giunchi sonori, sull'acqua stelleggiata di fiori gialli, sfinito dalla fatica; e cogli occhi fissi alle isole verdi che apparivano all'orizzonte, fantasticava dei viaggi sterminati, dondolandosi coll'aria d'un vecchio lupo di mare, e facendo sangue dal naso. — Ma viaggerò un giorno — disse — e mi pare che ne ritornerò ringiovanito. — E il suo amico avendogli domandato se avrebbe raccontato i suoi viaggi come Téophile Gautier, parlò del Gautier. — Egli viene via via perdendo nel nostro concetto — disse — il nostro buon Gautier. È un gran pittore, un tecnico ammirabile, senza dubbio; ma null'altro. Ha dipinto mirabilmente la Russia, chi lo può negare? Ma non ha sentito la poesia profonda delle grandi pianure bianche, la tristezza dolce della canzone russa, e l'intimità calda delle case coperte di neve, che si specchiano nei ghiacci del Volga. Si direbbe che per lui l'anima umana non esiste. Non aveva che occhi. Che peccato! — Ma la gravità di queste sue censure era temperata da una certa dolcezza rispettosa della voce, e da una espressione così sincera di rammarico, che non parevan quasi più censure. Era una critica come quelle ch'egli fa nel Journal officiel, in cui non c'è giudizio, per quanto severo, che non abbia colore di gentilezza.
Finalmente, si dovette lasciarlo, e il suo «addio» fu gentile come il suo benvenuto. Gli diedi una stretta di mano. Maledette convenienze! Gli avrei dato volentieri due baci da amico, dicendogli: questo è per Daudet e questo è per petit chose! Ma mi mancò la disinvoltura, e me ne uscii col mio abbraccio rientrato, tendendo ancora l'orecchio, per un buon tratto di scala, alla sua voce simpatica, che dominava il cicalìo degli amici.
* * *
Tale è Alfonso Daudet, nato povero, pervenuto alla fortuna e alla celebrità a traverso a una gioventù ardimentosa e infaticabile, giovine ancora, artista nell'anima, virile al lavoro, delicato di modi come una donna, sereno come tutti i caratteri benevoli, con una piccola vena di tristezza come tutti i grandi amanti dell'arte; stimato e benvoluto da tutti, amabile nei suoi libri e più amabile nel suo salotto, semplice, affettuoso e indulgente; la cui vita e la parola e l'aspetto ispirano la bontà e confortano al lavoro e alle nobili ambizioni. Non ci rimane ad augurargli che una cosa sola: la salute, ossia la moderazione nell'esercizio dell'arte gloriosa per cui è nato. Si sforzi di preservarla per sè e per la Francia, e per noi, e per tutti. Non abbia mai più da chiamare la sua buona amica per dirle: Finis mon bouquin. Li finisca tutti lui, e ne finisca molti, e possa cominciarne ancora una nuova serie quando la sua bella chioma scapigliata di vecchio lottatore gli farà una corona d'argento intorno alla corona d'alloro.