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RIFLESSIONI
LETTERA II

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Vi ho fatto osservare nella mia prima lettera, che il Sig. Gibbon si protesta di non poter ammettere la delicatezza del Baronio, del Valesio, e del Tillemont, che quasi rigettano il racconto di Palladio intorno al rifugio di S. Atanasio in casa della Vergine Alessandrina, che egli con ogni scaltrezza vorrebbe pure far credere una lunga corrispondenza amorosa. E che? Sarebbe forse un troppo gran torto fatto a Palladio, il preferire alla sua l'autorità di S. Gregorio Nazianzeno, e di Atanasio medesimo, il quale attesta, che subito dopo l'invasione della Chiesa di Alessandria fatta da Siriano fuggissi nell'Eremo? Che ivi poi si trattenesse per lungo tempo il dimostrano le lettere, che ei di colà scrisse, come ne fa fede la data161, e il conferma la minuta descrizion del saccheggio dato a quei Monasteri dai furibondi soldati, che l'obbligarono a ricovrarsi in un orrido nascondiglio. Ma quando fosse stato sì scrupoloso il Sig. Gibbon da negar tutto a Palladio, perchè invece di far una vana pompa di delicatezza di stile non ha piuttosto avvertito, che non apparteneva alle vergini il lavare i piedi dei Santi, che l'intrepido Campion della fede Nicena non era sì molle da esigere da una vergine un tale uffizio in mancanza di vedove162, che quella vergine inerendo al racconto dello stesso Palladio doveva essere allora non di venti anni, ma quasi quadragenaria, e che finalmente brevissima e transitoria dovette essere la dimora del S. Arcivescovo presso di lei, essendo fuor di ogni dubbio, che egli visse nel deserto presso a sei anni, e che intruso appena Giorgio di Cappadocia nella sua sede, sotto pretesto di andare in traccia di lui, furono saccheggiate le case, ed aperte perfino le sepolture; e le vergini, altre svelte dalle braccia dei genitori, altre insultate per le pubbliche vie di Alessandria (Athan. ad solit. p. 849. a 53.)? Or come persuadersi, che fosse dalla sfrenata licenza di mal credenti soldati rispettata la casa di colei, che descrivesi come un prodigio di bellezza notissimo? Il Sig. Gibbon però, tacendo tutto questo, chiude la sua narrazione con asserire senz'altra testimonianza, fuor di quella del suo capriccio, che nel tempo della sua persecuzione ed esilio, Atanasio replicò sovente le sue visite alla bella e fedele amica163.

Almeno il Sig. Gibbon contentandosi di calunniare così audacemente nella condotta morale il grande ed immortale Atanasio, lo risparmiasse nella credenza! Ma no: Atanasio, secondo lui, difese più di vent'anni il Sabellianismo di Marcello di Ancira, ed il Petavio dopo un lungo ed accurato esame ha pronunziato con ripugnanza la condanna di Marcello. Io confesso, che il Petavio164 enumera vari Scrittori gravissimi del secolo di Marcello, dai quali esso fu tenuto per vero eretico Sabelliano. Egli però in tuono molto diverso da quello del Sig. Gibbon parla di lui; poichè trova di malagevole discussione la causa di quel Vescovo: Minus explicatu facilis est Causa Marcelli Ancyrani (§. 1. ivi), e così conchiude il §. V: «Quare digna est ea res, de qua amplius cogitent eruditi, ed antiquitatis Ecclesiasticae periti.» Questo appunto io vedo eseguito dal Ch. Natale Alessandro165 nella dissertazione de Fide Marcelli Ancyrani, in cui dimostra l'integrità della dottrina di quel Prelato, bersaglio delle calunnie Eusebiane, sì con la confessione di fede da lui presentata al Pontefice Giulio riferita da S. Epifanio (haeres. 72.), come dalla esposizione di fede, che da lui ricevuta, i suoi discepoli presentarono ai Vescovi Ortodossi, ed ai Confessori, in cui si anatematizza, tra le altre distintamente, l'eresia di Sabellio, per tacere le testimonianze di S. Atanasio ed il giudizio del Concilio Sardicese: e fa eziandio svanire le difficoltà dedotte dagli Scrittori enumerati dal Petavio166. A me però basta, che gli argomenti di quel dotto Domenicano e del Montfaucon vaglian soltanto a lasciare il fatto di Marcello nell'antica dubbiezza167 per verificare, che il Sig. Gibbon per iscreditare il partito Cattolico pone per indubitati dei fatti, che non lo sono. Ma quand'ancora si potesse provar chiaramente, che l'Ancirano sostenne il Sabellianismo, resterebbe pure da mostrare a Gibbon, che S. Atanasio difese il medesimo errore, ed il difese per più di vent'anni, ed io lo sfido a citarmi un sol testimone in suo favore. Ma gli spiriti filosofici dei nostri giorni si arrogano l'altissimo privilegio di asserir senza prove, ed in bocca loro un'espressione enfatica, od un motto pungente ha da passare per una perfetta dimostrazione. Uditelo infatti: Il celebre sogno di Costantino può spiegarsi o colla politica, o coll'entusiasmo dell'Imperatore, e la famosa apparizion della Croce è una favola Cristiana, che potè trarre la sua origine dal sogno, e si mantenne un onorevole posto nelle leggende di superstizione, finattanto che l'ardito e sagace spirito di critica osò di non apprezzare il trionfo, e di attaccar la veracità del primo Imperatore Cristiano.

Chi non crederebbe a sentir parlare in un tuono sì decisivo, che questo avvenimento si dimostrasse falso al dì d'oggi come si è dimostrata falsa la storiella della Papessa Giovanna? Non sono già leggende di superstizione a giudizio del Sig. Gibbon medesimo le opere del Tillemont, del Fleury, del Noris168: eppure ed il celebre sogno, e la famosa apparizion della Croce vi trovan luogo tuttora. Non è una leggenda di superstizione la bella dissertazione del Benedettino Matteo Jaccuzzi169, nè troppo superstiziosi, cred'io, si diranno gli Autori della Storia Universale; eppur questi ed altri moltissimi ricevon tutto il racconto di Eusebio (L. I. C. XXVIII. in V. Constantini). Ed a ragione: poichè se la politica e l'entusiasmo avesser potuto indurre il primo Imperatore Cristiano ad uno spergiuro sacrilego, avrebbe almeno egli avuta tanta politica da non allegare per testimone della visione tutto l'esercito, che lo seguiva. Che se Costantino non solo narrò al suo confidente Eusebio il prodigio, ma soggiunse: eo viso et seipsum, et milites omnes qui ipsum sequebantur, et qui spectatores miraculi fuerant, vehementer obstupefactos: ecco migliaia di persone atte a scoprir l'impostura del primo già morto, mentre Eusebio scriveva, ed a rilevare e decidere la credulità del secondo. Il fatto si e però che id quod subsecutum est tempus sermonis hujus veritatem testimonio suo confirmavit. Lo confermarono le vittorie e la conversione di Costantino, lo confermarono il Labaro, e l'iscrizione conservataci da Eusebio, e lo confermarono con ogni apparenza di verità molti di quegli spettatori, che, quando scrisse Eusebio170 tai cose, sopravvivevano. Nè starò ad allegare gli atti del Martire Artemio, rigettati senza però sospirare, come afferma falsamente il Sig. Gibbon, dal Tillemont: il Cronico Alessandrino, Lattanzio, Filostorgio, Socrate, Niceforo, Gelasio Ciziceno, e molti altri Scrittori di ogni nazione ed età, e di religione diversa: le pitture dell'Effemeridi Greco-Moscovite, una antica lucerna, nella quale sotto il monogramma di Cristo si legge: ἐν τουτω νικα: son testimoni e monumenti, i quali dal più ardito e sagace spirito di Critica non si abbatteranno giammai con puri argomenti negativi, quali sono gli addotti dal Sig. Gibbon: ciò non ostante ha da essere un tale avvenimento una favola Cristiana, ed una leggenda di superstizione, solo perchè il Sig. Gibbon decide così: come pure per la ragione medesima noi dobbiam credere, che la fermezza di Liberio fosse superata dai travagli dell'esilio, e che quel Romano Pontefice comprasse il suo ritorno a prezzo di alcune ree condiscendenze. Qui però mi aspetto, che voi prendendo le parti del vostro compatriota vi maravigliate, come io ardisca rimproverarlo intorno ad un fatto, di cui tra i Protestanti del pari che tra i Cattolici comunemente si è convenuto, e parmi di vedervi stendere la mano alla penna per tessere il numeroso Catalogo degli Scrittori che sostengono la caduta di quel Pontefice. Vi prego però a voler sospendere questa inutil fatica, ed a riassumer piuttosto l'esame di questo fatto con quella maturità di riflessione, la quale è sì propria di voi. Quali adunque mai furono queste ree condiscendenze di Liberio? Soscrisse egli forse qualche formula di Fede eretica? Questa opinione, che fu già dei Centuriatori Magdeburgesi, di Giunio, di Chamber ec. è stata omai confutata pienamente dal Gretsero171 e da Natale Alessandro172 per tacere degli altri, nè ardirei mai di attribuirla al Sig. Gibbon. Forse Liberio, sorpreso dagli artifizi dei Semiarriani, gli ammise alla sua comunione, soscrivendo la personal condanna di S. Atanasio? Questo appunto sembra essere il sentimento del nostro Storico, e questa è stata sempre, io nol niego, la comune opinione. Non la pensano però così il Ch. Corgnio Canonico di Soissons173, non l'eloquentissimo Card. Orsi174, non l'eruditissimo Zaccaria nell'appendice alla Teologia del Petavio in una Dissertazione: De Commentitio Liberii lapsu. Ed eccone le principali ragioni. Teodoreto175 versatissimo nelle storie, che chiama Liberio nell'atto di andare in esilio gloriosum veritatis Athletam, lo chiama poi di ritorno, egregium omni laude dignissimum, admirandum: Son eglino titoli questi, che convenissero a Liberio, il quale avesse comprato il suo ritorno a prezzo di alcune ree condiscendenze? Cassiodoro176 detto da Incmaro Remense177 virum acerrimi ingenii, et insignis eruditionis pensa, e scrive nei termini di Teodoreto. Altrimenti vogliamo noi credere, che il popolo Romano avesse accolto Liberio siccome avvenne per testimonianza di S. Girolamo, e di Marcellino178 in aria di trionfante? Quel popolo, io dico, a cui esso era carissimo appunto per la sua fermezza in resistere all'Imperatore Costanzo179, che era amantissimo di S. Atanasio, e che non odiava l'intruso Felice, se non perchè comunicava con gli Arriani, quantunque formulam fidei a Nicenis Patribus expositae integram quidem, et inviolatam servabat180. Che se Liberio vinto dai travagli dell'esilio avesse condisceso a Costanzo a danno della causa del grande Atanasio, e della verità religiosa, ed a prezzo sì indegno avesse comprato il suo ritorno, avrebbe pur anche espiata con opportuna penitenza la propria colpa; e la prima e necessaria testimonianza di pentimento sarebbe stata una ritrattazione o dichiarazione del suo operato: ed il Sig. Gibbon istesso par che ne abbia veduta la necessità, come ancora la vide quell'impostore, che ci ha lasciato un frammento di una lettera comunicatoria sotto il nome di quel Pontefice diretta a S. Atanasio181. Ora il pentimento dei Vescovi ingannati a Rimini vien contestato da molti Autori contemporanei182; ma nè Sulpizio Severo, nè Socrate, nè Sozomeno, nè Teodoreto fanno menzione di quel di Liberio. Aggiungete, che questo Papa scrivendo ai Vescovi dell'Italia183 dopo il Concilio Riminese, dice che sebbene vi fossero alcuni di parere non esse parcendum his qui apud Ariminum ignorantes egerunt, ei però pensa diversamente, così esprimendosi: sed mihi, cui convenit omnia MODERATE perpendere, maxime cum et Egyptii omnes et Achivi hanc adunati sententiam receperint (secondo la correzione degli Editori Benedettini) visum est parcendum quidem his, de quibus supra tractavimus. Qui pone in veduta Liberio, che il Sovrano Pontefice debba essere moderato: qui egli sembra determinarsi pel perdono a contemplazione ancora dei Greci e degli Egiziani. Ma come avrebbe potuto mostrar di esitare a concedere perdonanza a dei Vescovi pentiti di ciò che ignorantes egerant in una causa, in cui egli medesimo avesse lasciata vincere la sua fermezza e fosse stato colpevole condiscendente? E come ostentare moderazione senza esporsi alle risa, ed alle invettive degli emuli, e forse di quei medesimi, a cui accordava il perdono? Unite tali riflessioni alle testimonianze degli Storici sopraccitati184, e decidete se la caduta di Liberio non debba aversi per favolosa, giacchè quello, che si ha di essa in S. Atanasio, ed ha fatto illusione a tanti illustri Scrittori, si dimostra esser parto di una mano ignorante o maligna; e supposti eziandio interpolati, ed indegni di S. Ilario si provano quei testi, che per essere stati da molti tenuti per genuini, rendevano indubitata la caduta di Liberio185. Io però mi sarei contentato186, che il Sig. Gibbon avesse citato Ruffino là dove dice187; Liberius Romae Episcopus, Costantio vivente, regressus est. Sed hoc utrum quod acquieverit voluntati suae ad subscribendum, an ad populi R. gratiam, a quo proficiscens fuerat exoratus, indulgens pro certo compertum non habeo. Non è però da pretendersi questa sincerità e moderazione da chi mette in dubbio i fatti più certi, e che talora anche li nega od oscura. Incominciamo dalla riedificazione del tempio di Gerusalemme tentata in van da Giuliano. «La demolizione dell'antico tempio, dice il Sig. della Bleterie188, era terminata, e senza pensarvi si erano rigorosamente adempiute le parole di Cristo: non relinquetur lapis super lapidem, qui non destruatur189. Si vollero gettar le nuove fondamenta, ma usciron dal luogo medesimo vortici spaventosi di fiamme, che con formidabili slanci divorarono i lavoranti. Lo stesso accadde diverse volte, e l'ostinazione del fuoco rendendo inaccessibile quel luogo, costrinse ad abbandonare per sempre l'impresa». Son questi gli stessi termini di Ammiano Marcellino, autore contemporaneo190. Ruffino191, Teodoreto192, Socrate193, Sozomeno194, Filostorgio confermano il fatto attestato altresì da tre Padri coetanei ancor essi Gio. Grisostomo, Ambrogio e Gregorio Nazianzeno, dal primo vent'anni dopo davanti a tutta Antiochia195, dal secondo non molto dopo, come cosa notissima scrivendo all'Imperatore Teodosio; dal terzo in uno196 dei suoi discorsi contro Giuliano composto l'anno medesimo. Non vi è adunque, conchiude il Mosemio197, avvenimento certo sì come è questo. Tuttavolta a sentimento di Gibbon, un Filosofo potrà sempre domandare l'original testimonianza d'intelligenti ed imparziali Spettatori. Sì certamente potrà domandar un filosofo Spinosista, od uno che sembra insultare i Santi Ortodossi sfidandoli a scegliere intorno alla celebre morte d'Arrio o il veleno o un miracolo, quand'ei fu sempre attorniato da una folla di Eusebiani; sì uno che ha la franchezza di domandare col Sig. Jortin chi prova la verità dei miracoli dei Monaci antichi Egiziani, mentre quello, che asserisce Teodoreto198 del Monaco S. Giuliano, può con ragione asserirsi di quasi tutti: magnitudinis autem miracolorum factorum ab illo testes etiam sunt hostes veritatis. Qui non si tratta di un fenomeno passaggiero, come è un fuoco fatuo, od una stella cadente; i vortici di fuoco si videro diverse volte: metuendi globi flammarum prope fundamenta crebris assultibus erumpentes fecere locum exustis ALIQUOTIES operantibus inaccessum. Nè i testimoni del fatto son puri Cattolici, e però tali da non dispiacer loro un miracolo. Ve n'ha degli Eterodossi, ve n'è un Pagano giudizioso e candido storico per confessione del Sig. Gibbon, e spettatore IMPARZIALE della vita e della morte di Giuliano, per non contarsi Giuliano medesimo199. Considerate poi se la nazione Giudaica, di cui gli uomini si erano dimenticati della loro avarizia, e le donne della loro delicatezza per agevolare la sospirata intrapresa; se il Monarca, che si proponeva di stabilire in quel tempo un ordine di Sacerdoti, l'interessato zelo dei quali scuoprisse le arti, e resistesse all'ambizion dei Cristiani loro rivali, ed invitarvi gli Ebrei, il forte fanatismo dei quali sarebbe sempre stato pronto a secondare ed anche prevenire le ostili misure dal Paganesimo; se il virtuoso, dotto, fortissimo Alipio, che presiedeva coraggiosamente a quell'opera; se Libanio l'adulatore più sfacciato, che abbian conosciuto le Corti, sarebber sempre rimasti in un vergognoso silenzio, quando tante bocche Cristiane gridarono altamente al miracolo? Conchiuderò dunque col lodato Mosemio: «Chiunque esaminerà questo fatto con attenzione e senza parzialità, troverà le più forti ragioni di aderire all'opinion di coloro, che lo attribuiscono all'azione immediata della Divinità. Gli argomenti, che si propongono per provare che fu un fenomeno naturale, o come altri il pretendono, effetto dell'arte e dell'impostura, non hanno solidità, e si possono confutare con la maggiore facilità».

Un altro fatto oscuro pel Sig. Gibbon è lo scisma dei Donatisti. Forse, egli dice, la loro causa fu decisa giustamente, e forse non era priva di fondamento la lor querela, che si fosse ingannata la credulità dell'Imperatore: Due cose però egli tiene per ferme, la prima che il vantaggio, che Ceciliano poteva trarre dall'anteriorità della sua Ordinazione veniva tolto di mezzo dall'illegittima od almeno indecente fretta, con cui si era fatta senza aspettare l'arrivo dei Vescovi della Numidia; la seconda è che i due partiti non ostante il loro irreconciliabile odio avevan gli stessi costumi, lo stesso zelo e dottrina, la istessa fede e lo stesso culto. Ma per quanta oscurità possa trovarsi in tal fatto sappiamo da S. Ottato Milevitano200 e da S. Agostino201, cioè da scrittori i meglio informati di tutta la controversia, che l'ambizion di Bostro e Celesio, i quali con Lucilla formarono il rabbiosissimo scisma, impedì l'intervento dei Vescovi della Numidia all'elezione di Ceciliano: che questi fu eletto con i suffragi di tutto il popolo, e quindi ordinato dal Vescovo di Aptonga, città vicina a Cartagine, e conseguentemente a norma del costume vegliante, in quel modo appunto che il Vescovo Romano si consacrava da quello d'Ostia. E ciò è tanto vero, che cent'anni dopo pretendendo i Donatisti, che Ceciliano fosse stato condannato per non aver ricevuta l'ordinazione dal Primate Numida, S. Agostino fu in grado di sostenere, che questa ommissione neppur gli era stata obiettata. Infatti Ceciliano all'arrivo dei Vescovi della Numidia era già unito con tutta Cartagine, trattine pochi Scismatici, e per mezzo delle usate lettere comunicatorie con la Chiesa di Roma, con tutte quelle dell'Affrica e dell'Universo. Non credeva adunque la Chiesa Cattolica, che l'anteriorità dell'ordinazione di Ceciliano venisse tolta di mezzo dall'assenza dei Numidi, nè poteva crederlo per le ragioni addotte, e nol credevano gli stessi faziosi: perocchè, non trovando delitto da rimproverare a Ceciliano, si ridussero ad asserire contro la verità che il Vescovo Aptungitano Consecrante era uno dei traditori.

Con qual fronte poi osa il Sig. Gibbon di decantare nei due partiti tanta uniformità di costumi, di zelo, di dottrina e di fede? I Donatisti rovesciavano gli altari, o li purgavano come contaminati da quei che si dicevan Cattolici: frangevano i sacri vasi e li fondevano, infierivano contro i vivi e contro i defunti, gettavano il Crisma per le finestre, ed ai cani la Sacratissima Eucaristia, come attestano i Padri sopra lodati, ed espone il medesimo Sig. Gibbon202. Ora dove si legge che fossero somiglianti costumi nel partito Cattolico? Qui si chiedono al Sig. Gibbon testimonianze da stare a confronto con quelle di Ottato e di Agostino. Ma non allegandone, e non potendone allegare veruna: qual concetto formerete del vostro Gibbon? E per riguardo alla dottrina e alla fede non erano i Donatisti quei soli, che ribattezzando negavano l'efficacia del battesimo amministrato fuor della vera Chiesa contro i decreti dei Concili di Arles203 e di Nicea204? E non riputavano una meretrice la Chiesa Cattolica, pretendendo che la vera ed immacolata fosse riconcentrata nella fazion di Donato, e pronunziando nel tempo medesimo la condanna della loro eresia con quelle solenni parole liturgiche, con cui dicevano di offerire il Sacrificio per l'unica Chiesa, la quale è sparsa per tutta la terra? Ommetto, che Donato il Cartaginese era Arriano di sentimento, perchè la moltitudine dei Donatisti non vi aderiva205: essendo assai manifesto e per le cose già dette e per essere stati refrattari i Donatisti ad ambedue le legittime Potestà, il Sacerdozio e l'Impero, aver eglino avuto una Fede ed una Dottrina molto diversa da quella dei loro avversari.

Avendo il Sig. Gibbon intrapresa in qualche modo la difesa dei Donatisti, con quanta ragione però già l'avete veduto: credete voi che ei volesse abbandonare la causa dei Novaziani? Pensate: essa è la migliore del Mondo, perciocchè ortodossa era la loro fede e sol dissentivano dalla Chiesa in alcuni articoli di disciplina, i quali forse non erano essenziali per la salute

161

V. Athan. Epist. ad Lucif. et Serapion.

162

Vedi Hermant Vie de S. Athanas.

163

Vedi Baron. ad an. 356. n. 85. Tillemont Tom. VIII. N. 74. Fleury l. 13. n. 32.

164

L. I. c. XIII. de Trin. §. 6.

165

Sec. IV. diss. 30.

166

V. Bern. Montf. Diatriba de Causa Marcelli Ancyr. T. 2. Coll. Nov. PP. et Script. Graecor.

167

Il Garner. Diss. ad Mart. Mercat. Opera T. III. p. 312 chiama la medesima causa difficile ed oscura.

168

Vedi Mamachi T. I. Orig. et Antiq. Christ. i PP. di Trevoux Febr. 1708. Arti 26. Claud. Molinet. 1681, nel Giornale dei dotti di Parigi ec. ec. Tra i Protestanti Gio. Reischko 1681. Gian Cristof. Wolf. 1706. De visione Crucis, etc.

169

Syntagma, quo apparientis M. Costantino Crucis historia complexa est universa. Romae 1595.

170

Euseb. loc. cit.

171

Controv. Rob. Bell. defens. T. II. Col. 1044.

172

Saec. IV. Diss. 32.

173

Dissertation Crit. etc. et hist. sur le P. Libere, dans laquelle on fait voir, qu'il n'est jamais tombé. A Paris 1736.

174

Pap. 185. Tom. II. Venet. 1757.

175

L. 2. C. 17. Hist. Eccles.

176

L. 5. C. 18. Hist. Tripart.

177

De div. et multipl. rat. Animae. c. 2.

178

Praef. T. 5. Bibl. PP. p. 652.

179

Sozom. L. 4. 15. Ed. Vales.

180

Theodoret Hist. l. 2. c. 17.

181

Labbé T. 2. Conc. p. 655.

182

Hieron. Dial. adv. Lucifer. Damas. presso Teodoret. L. 2. Hist. Eccl. c. 22. Lib. med. presso Socr. l. 4. Hist. XII.

183

Nei Framm. di S. Ilario pag. 1357. Ediz. dei Mon. Benedet.

184

Sulpic. Sever. Hist. Sacr. L. 2. c. 39. Socr. Hist. E. L. 2. c. 37.

185

Vedi il Cap. IV. e V. della cit. Dissert. De Comment. ec.

186

L. I. Hist. c. 27.

187

L'A. non ha troppo buon sangue coi Papi. Il carattere di Damaso è molto ambiguo, e tre parole di Girolamo Sanctae Memoriae Damasus, lavano tutte le sue macchie, ed abbagliano i devoti occhi del Tillemont. Si trovan però dileguate presso questo Scrittore le calunnie, dalle quali fu attaccato quel Santo Pontefice. Si cita inoltre Teodoreto L. V. c. 2., che parla così di Damaso: Is erat Episcopus Romae vita laudabili conspicuus, quique sibi dicenda, faciendaque omnia pro Apostolicis dogmatis statuerat., e nel L. IV. c. 30 lo pone nella classe medesima con i due SS. Gregorio, e con S. Ambrogio. Allega ancora l'autorità del Concilio Calcedonese che nell'allocuzione all'Imperatore Marciano si espresse in questi termini. Sic quoque Damasus Romanae urbis decus ad justitiam, ovvero Romanae urbis Episcopus, et justitia decus. Appella per fine a non pochi antichissimi Martirologi, nei quali con S. Girolamo si legge nominato S. Damaso. Non sono dunque tre parole quelle che hanno abbagliato gli occhi devoti del Tillemont. Vedi T. VIII. Memor.

188

Vie de l'Empereur Julien L. V. p. 396.

189

Marc. L. XIII. V. 1. 2.

190

Lib. 23. c. 1.

191

L. I. c. 38, 39.

192

L. 3. c. 17.

193

L. 3. c. 17.

194

L. V. c. ult.

195

Adv. Judeos Orat. 2, Hom. 4 in Matth.; Homil. 41 in Act. Apost.

196

Greg. Naz. Orat. 2. in Julian.

197

Sec. IV. 1. p. n. 14.

198

L. IV. c. 27.

199

M. della Bleterie pag. 399 in una Nota.

200

Adv. Parmentanum.

201

De Unit. Eccl., Cont. Petilian., Cont. Cresc. in Epist. et alibi passim.

202

Nat. Aless. Saec. IV. pag. 15. Tillem. Tom. VI. Vales. etc.

203

Can. 8.

204

Can. 19. cum not. Christ.

205

S. Ag. De haeres. ad Quod vult Deus. L. 69.

Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 5

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