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Emilio Salgari
Le novelle marinaresche di mastro Catrame
Il passaggio della linea

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Per tutto il giorno seguente papà Catrame non comparve sul ponte della nave. Rintanato nella cala, aveva dormito come un ghiro, russando come una trottola d’Allemagna. Svegliatosi, sorseggiò ciò che era rimasto nella bottiglia e divorò con un appetito da pescecane la razione recatagli dai mozzi.

Del resto, la sua presenza in coperta non era necessaria, poiché il tempo si manteneva tranquillo, l’oceano era liscio come uno specchio, e il vento debole.

Quando però il sole scomparve all’orizzonte e la luna si alzò in cielo, riflettendosi vagamente nell’azzurra e limpida superficie del mare, si udì la scala del boccaporto maestro scricchiolare, e poco dopo si vide apparire il vecchio marinaio.

Aspirò avidamente una boccata d’aria marina, percorse il legno da prua a poppa, con quel suo dondolamento che lo faceva rassomigliare a un orso bianco, diede una sbirciata alle vele senza guardare in viso nessuno, caricò flemmaticamente la sua corta pipa, nera come la camicia di uno spazzacamino, poi andò a sedersi con tutta gravità sul barile e parve immerso in profondi pensieri.

Tosto i marinai, a due, a tre alla volta, i più coraggiosi prima, i paurosi poi, ed i superstiziosi ultimi, s’avvicinarono silenziosamente al vecchio marinaio, circondandolo. Il capitano fu l’ultimo a giungere, tenendo in mano un’altra bottiglia.

Tutti rispettavano il raccoglimento del vecchio, e certo nessuno avrebbe osato strapparlo alle sue meditazioni; ma la pazienza non era la virtù del capitano.

– Olà, papà Catrame, sei morto? – gli chiese.

II vecchio alzò il capo e, fissando il comandante, gli domandò a bruciapelo: – Credete al re del mare, voi?

Il capitano scoppiò in una risata fragorosa, ma nessun marinaio lo imitò. Bensì tutti lo guardarono con stupore, come se fossero meravigliati che egli non prestasse fede a ciò che narrava papà Catrame.

Il lupo di mare non mostrò tuttavia di offendersi, però la sua fronte si corrugò, e, battendo con quelle mani callose e irte di nodi i bordi del barile, esclamò: – Me lo direte poi!

Ricadde nelle sue meditazioni, ma per pochi istanti, poiché ad un tratto si scosse, come se avesse trovato quello che cercava nei suoi lontani ricordi, e disse: – Oggi non si costuma più; i lodevoli usi degli antichi marinai sono messi da un lato come ferravecchi inservibili, e non si crede che valga la pena di rendere omaggio a Nettuno, il re degli abissi marini. Che importa se le navi affondano più spesso che una volta? Sono casi, dicono gli scettici; sono accidenti, affermano gli spregiudicati. Al diavolo le superstizioni dei vecchi marinai! Lasciamo da parte le leggende, distruggiamo tutto, ché il mondo deve rifarsi. Non è cosi?

Papà Catrame fece udire un riso stridulo, beffardo, che aveva un non so che di strano, e che parve si ripetesse fino in fondo alla stiva.

– La linea! – riprese poi. – Chi oggi, passando la linea, rende omaggio al re del mare? Peuh! Hanno altro pel capo i marinai moderni, che di pensare a Nettuno! Ma quale vendetta si prende talora questo re del mare! Oh che! credete forse che gli antichi marinai abbiano inventato la cerimonia per far ridere voi, spregiudicati? O credete che un tempo pensassero a divertirsi frammezzo alle onde incalzanti e ai sibili diabolici del vento? No, no; e papà Catrame, se così vi parla, ne ha il motivo.

– Voi siete giovani, e nulla sapete sul passaggio della linea, che oggi si celebra al più con una innaffiata del ponte; ma un tempo era una cerimonia importante, e nessun marinaio, per quanto audace, avrebbe osato passarvi sopra, poiché la vendetta di Nettuno presto o tardi lo avrebbe infallantemente colpito.

Ora ve lo proverò.

Papà Catrame rattizzò la pipa col suo pollice incombustibile, sorseggiò un buon bicchiere che gli offriva il capitano, reclamò con un gesto maestoso il più assoluto silenzio, e dopo di essersi accomodato sul barile, principiò la sua seconda e non meno interessante narrazione.

– Un destino strano, incomprensibile, mi spinse sempre a prendere imbarco sulle peggiori navi della nostra marina; e io non le cercavo, veh! Quasi tutti i capitani che ho servito nella mia lunga, lunghissima carriera marinaresca, erano bestemmiatori o scredenti. Non badavano alle nostre tradizioni, non badavano ai nostri vecchi usi, non credevano né alle sirene, né alle figlie della spuma, né ai mostri marini, a nulla insomma.

– Mi ero imbarcato in qualità di gabbiere su di una vecchia corvetta, di cui ora non ricordo il nome, poiché sono passati da quell’epoca lunghi anni. Era una gran nave però, buona veliera, un po’ vecchia, sì, ma colle costole ancora robuste, destinata ai lunghi viaggi dell’Oceano Atlantico e dell’Indiano, e perciò costretta a passare sovente la linea equatoriale.

– Il capitano aveva sempre, fino allora, conservato l’usanza di rendere il dovuto omaggio al re del mare, quando dall’emisfero settentrionale passava nell’emisfero australe, e mai aveva avuto a pentirsene. Anzi soleva dire che, appunto per quello, la sua corvetta godeva una buona protezione; ed infatti mai una tempesta fatale l’aveva sorpresa, e quelle ordinarie le aveva facilmente vinte.

– Ma gli uomini purtroppo cambiano, e anche il nostro capitano, seguendo l’andazzo dei tempi, a poco a poco si era mutato, diventando uno spregiudicato.

– Avvenne or dunque che la nostra corvetta si trovò un giorno nei pressi della linea equatoriale. Voi già sapete che questa linea è puramente geografica, e perciò invisibile: è un semplice parallelo, egualmente distante dai due poli.

– L’equipaggio, fedele alle tradizioni marinaresche, cominciò a fare i preparativi onde procedere al battesimo, e rendere quindi il dovuto omaggio a Nettuno, il quale si dice abiti in prossimità della linea.

– Oh, allora erano bei tempi! Voi siete giovani, e non potete avere che una pallida idea di quella cerimonia che faceva battere il cuore del marinaio, perché sapeva di compiere un dovere che lo metteva al coperto dal furore degli oceani.

– Quando echeggiava sul ponte di comando: «Ecco la linea!» una viva emozione s’impadroniva di tutti: ufficiali, marinai e mozzi, eccoli tutti in movimento per prepararsi alla festa.

– La gran gala, formata dalle bandiere di tutti gli Stati del mondo e dalle bandiere dei segnali, saliva maestosamente in aria, distendendosi fra l’albero di mezzana e la punta del bompresso, e il vessillo nazionale s’innalzava maestosamente sul picco della randa, salutato da un colpo di cannone.

– Si frugavano e rifrugavano le casse di tutti, si spogliavano le cabine dell’ufficialità e dei passeggeri per ornare l’opera morta, e dappertutto si stendevano tappeti, arazzi e scialli variopinti, tramutando la nave in un’immensa sala, sfolgorante pei lucenti metalli dell’attrezzatura e per le tinte vivaci di tutto quel pandemonio di bandiere svolazzanti e di stoffe spiegate al vento.

– Il mastro d’equipaggio e una dozzina dei più robusti marinai scomparivano, mentre gli altri preparavano le pompe e i mastelli pel battesimo, tanto più gradito al re del mare quanto più era abbondante

– Nel momento preciso che il vascello passava la linea, ecco giungere sotto l’anca di tribordo o di babordo un’imbarcazione adorna di arazzi e di bandiere, montata da una dozzina di tritoni e da un vecchio che raffigurava Nettuno. Una voce grossa grossa si alzava dal mare, chiedendo:

«È battezzato il vascello?»

– «No!» – rispondeva l’equipaggio.

– «Ammainate la scala, dunque!» – comandava la voce grossa.

– La scala d’onore veniva tosto calata: i marinai si schieravano a prua coi mastelli pieni d’acqua, dinanzi e attorno alle pompe; gli ufficiali e i passeggeri a poppa.

– Il re del mare saliva gravemente sul ponte. Era un vecchio dalla lunga barba, adorno di conchiglie, recante in capo una corona di metallo e nella sinistra un tridente. Lo seguivano dodici marinai camuffati da tritoni, carichi di conchiglie e di alghe marine.

– Il re, che era rappresentato dal mastro, si avanzava verso il capitano, seguito da tutto il suo stato maggiore, e dopo di aver ricevuto un lungo inchino da parte dell’intera ufficialità, chiedeva al comandante: «Hai pagato il tuo tributo al re del mare?»

– «No», – rispondeva il capitano.

– «Allora ti battezzo».

– Così dicendo, prendeva una tinozza piena d’acqua e la rovesciava sul capo di lui inondandolo completamente.

– Quello era il segnale del battesimo generale. Le pompe, energicamente manovrate, inondavano passeggeri e ufficiali, e le tinozze si vuotavano sul capo di tutti. Torrenti d’acqua correvano da prua a poppa, recando il dovuto tributo al re del mare, e la battaglia si prolungava fino al completo esaurimento delle forze di ambe le parti.

– La nave, così battezzata, poteva allora sfidare impunemente i furori degli oceani, poiché Nettuno la proteggeva; ma guai a non farlo! Il tributo d’acqua si cambiava in una ecatombe umana, e papà Catrame, che è ancora qui, vivo per miracolo, lo sa!

Il vecchio marinaio per la terza volta s’interruppe, girando sull’attento equipaggio un lungo sguardo, come per accertarsi che tutti lo ascoltavano religiosamente; ricaricò la pipa, l’accese, indi continuò: – Come vi dissi, la nostra corvetta era giunta nei pressi della linea: fra qualche ora doveva lasciare l’emisfero settentrionale per entrare in quello meridionale.

– Il nostro mastro, rigido osservatore delle tradizioni marinaresche, si recò sul ponte di comando seguito da tutto l’equipaggio, e disse al capitano: «La linea è vicina, signore; Nettuno esige il suo tributo».

– «Vada al diavolo Nettuno e tutti i suoi tritoni» rispose lo scettico.

– Il mastro impallidì.

– «Volete chiamare la sfortuna a bordo, signore», – disse.

– «Me ne rido della collera di Nettuno, io».

– «Ma l’equipaggio…»

– «Basta così», – rispose ruvidamente il capitano. – «Sono padrone io a bordo: andatevene!»

– Salì sul ponte di comando, ordinò di sciogliere tutte le vele, perfino gli scopamari e i coltellacci, e, per colmo di spavalderia insensata, fece ammainare la bandiera, onde togliere al re del mare ogni idea che lo si volesse salutare.

– La corvetta, spinta da un buon vento, s’inoltrò verso la linea; ma, cosa strana davvero, camminava più lenta del solito, e pareva che ad ogni istante fosse lì lì per arrestarsi. I marinai sussurravano che erano i tritoni del re del mare che si aggrappavano alla carena per non lasciarla passare; ma il capitano crollava il capo e faceva aggiungere sempre nuove vele a quelle già sciolte.

– A mezzogiorno preciso la corvetta passava la linea. Quasi nel medesimo istante un fremito agitò la tranquilla distesa dell’oceano, e dalla profondità degli abissi uscì un cupo rimbombo. Poco dopo un’onda immensa sorse agli estremi confini dell’orizzonte, si distese e venne a rompersi con cupi muggiti sulla prua della nave.

– Ci guardammo l’un l’altro, stupiti e spaventati, e, parola di papà Catrame, vi era di che spaventarsi. Interrogammo ansiosamente gli ufficiali: ci dissero che, per un caso strano, un fenomeno, non so se maremoto o cos’altro, era avvenuto nel momento preciso in cui passavamo la linea. Ci credete voi? Io no, e scommetterei che non ci credevano neanche gli ufficiali, perché erano pallidi come tutti noi.

– Anche il capitano era diventato serio serio, e la sua fronte si era aggrottata; ma egli era testardo come un guascone, e non voleva credere a Nettuno, né alla potenza di questo re.

– Ed ecco ad un tratto sorgere all’orizzonte una nube, nera come il bitume. Voi non lo crederete forse; ma io, con questi occhi ho veduto che quella nube aveva tre punte acute, rassomiglianti a un gigantesco tridente. Eravamo tutti muti per lo spavento: ufficiali, marinai e mozzi erano diventati pallidissimi allo scorgere quella sinistra nube, nel cui seno guizzavano lampi sanguigni.

– Pareva che Nettuno avesse rizzato dinanzi a noi il suo immane tridente per impedirci il passo; e così doveva essere, poiché poco dopo il vento girava bruscamente al sud, soffiando di fronte a noi. Cresceva la sua violenza di minuto in minuto, poi era caldo come se uscisse dalle voragini dell’inferno, e sollevava con forza irresistibile l’oceano, alzando la gran nube, che si estendeva minacciosamente sopra il nostro capo, e conservando sempre la sua bizzarra forma.

– Dagli abissi del mare uscivano muggiti e boati profondi, il vento urlava su tutti i toni attraverso il sartiame dell’alberatura, nell’aria rombava incessantemente il tuono e lampeggiava. Talvolta tra le raffiche furiose, ci pareva di udire una voce possente che ci gridasse: «Non passa la linea chi non mi saluta!…»

– Invano il nostro capitano, che non voleva arrendersi al re del mare, comandava manovre, girava di bordo per prendere vento largo, e tentava di avanzare bordeggiando: la nave veniva respinta dalle onde e dal vento. Tre volte ripassammo la linea, e tre volte fummo ricacciati nell’emisfero settentrionale.

– Scoppiavano le vele, cedevano le manovre correnti, si piegavano come stuzzicadenti gli alberi e i pennoni, si sfondavano le murate, cresceva la paura in tutti; ma il testardo non voleva capitolare, e tornava sempre più irato alla carica, deciso di mandarci tutti a bere nella grande tazza salata, piuttosto che retrocedere.

– Parve che la fortuna sorridesse all’audace, poiché a mezzanotte, dopo dodici ore di lotta disperata, la corvetta ripassava la linea, entrando nell’emisfero australe. Ma Nettuno aveva decretato la fine del testardo comandante.

– Un’ora dopo, una montagna d’acqua rovesciava la corvetta sul tribordo. Cosa sia poi accaduto, non ho mai potuto saperlo con precisione. Mi ricordo confusamente d’aver veduto non so quante onde precipitarsi con orribile frastuono sul povero legno, di aver udito urla, invocazioni disperate, gemiti, scricchiolii, uno spezzarsi di legni, poi più nulla.

– Quando rinvenni, mi trovai nel fondo di una scialuppa, solo sul burrascoso oceano. Come ero là? Non lo seppi mai.

– La tempesta mi portò lontano lontano dal luogo del naufragio. Rimasi in mare dieci giorni, mangiando una delle mie scarpe e aprendomi due volte una vena per dissetarmi.

– Quando una nave mi raccolse, ero ridotto in uno stato da far compassione: giallo come un melone, asciutto come un’aringa, tutto pelle ed ossa. Dei miei compagni non ebbi più notizia; si sono salvati, o riposano in fondo agli abissi marini? Io lo ignoro ancora; ma se qualcuno fosse sopravvissuto a quell’orribile catastrofe, l’avrei incontrato in qualche angolo del mondo e invece nessuno mai mi apparve. Sono tutti morti: il cuore me lo dice.

Papà Catrame col dorso della mano spazzò via due lagrime che gli solcavano le incartapecorite gote, si mise la pipa in tasca e scosse malinconicamente il capo, brontolando: – Non si creda più ora al re del mare!…

– A quale re? – chiese il capitano. – A quello creato dalla vostra balzana fantasia? Non è così, mastro Catrame? Un tempo si poteva credere all’esistenza di Nettuno forse, come si è creduto all’esistenza delle sirene e a cento altre corbellerie; ma oggi no, vecchio mio. Simili storie si lasciano ai marinai vecchi e barbogi…

– Ma la corvetta…

– Una tempesta qualunque l’ha affondata, Catrame.

– Ma quell’onda immensa…

– Un maremoto, mastro mio.

– Ma quella nube…

– Una nube pur che sia. Forse che non ne hai mai vedute di quelle che hanno tre, cinque, dieci, venti punte?… Va’ a dormire, papà Catrame, e lascia là Nettuno che non è mai esistito e il battesimo della linea che non è un omaggio reso al re degli abissi, ma una carnevalata inventata da allegri marinai. Va’, va’ e bevi il resto della mia bottiglia.

Le novelle marinaresche di mastro Catrame

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