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II.

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Tre giorni dopo, l'«Atlantide» entrò nella baia del Guanabara dove sorge Rio de Janeiro. Il console d'Italia, i maggiorenti della colonia e le rappresentanze de' sodalizi, una commissione della città e del governo brasiliano si portarono a bordo a dare il benvenuto al professor Jacopo Axerio. Questi gongolava vedendo che il console stesso si occupava di far trasportare i suoi bagagli a terra per mezzo d'un giovane del consolato. Era sceso sul ponte basso ed era andato incontro alle commissioni sino alla scaletta d'imbarco e lì tra il pigiapigia degli emigranti e de' passeggieri delle classi che anelavano di mettere il piede a terra dopo tanti giorni di navigazione, faceva riverenze agl'italiani ed ai brasiliani e mandava scintille dalla barba a sentire che i brasiliani gli portavano il saluto del presidente della repubblica, del ministero, del ministro degli affari esteri, della camera, del senato, della prefettura della città, d'istituti scientifici e d'accademie, e a vedere che gl'italiani se ne commovevano patriotticamente insieme con lui. Si vedeva la sua barba china come quella d'un capro spostarsi qua e là saltando, via via che i saluti gli venivano da più parti, e la sua mano stringere ora questa ora quella mano, e i suoi occhi cercare in giro gli occhi de' connazionali intenerendosi sempre più della loro tenerezza sempre maggiore, mentre dalla bocca tremolante gli usciva un continuo balbettio di ringraziamenti a mo' di bava. I brasiliani guardavano il grand'uomo d'Europa con occhi curiosi. C'erano fra loro deputati, senatori, capi de' varii uffici, professori, giornalisti, studenti e medici in abbondanza; gente quasi tutta magra e secca, che diceva soltanto parole rade e piano, con una certa timidezza che pareva provenire da un'eccessiva sensibilità non scevra di diffidenza; e alcuni di loro avevano ancora sulla faccia l'impronta dell'origine: il teschio forte con gli zigomi in fuori e un che d'ultima ombra del sangue negro tra pelle e pelle. Tutti si dicevano onorati d'ospitare nel loro paese il professor Jacopo Axerio e si ripromettevano immensi vantaggi per la chirurgia brasiliana dalle sue lezioni e dalle sue operazioni, e il professor Jacopo Axerio si trangugiava a una a una tutte le lodi. A un certo punto gli studenti mandarono un evviva rinforzato dagl'italiani sì che ne rintronò la baia, e uno di loro parlò inneggiando, come se fosse stato in Europa, al progresso della scienza, all'amicizia dell'Italia e del Brasile, all'unione latino-americana e in fine alla solidarietà de' popoli. Il professore rispose ringraziando e dichiarandosi commosso dell'onore fatto non alla sua povera persona ma alla scienza e così dicendo si credeva di essere più modesto che se si fosse dichiarato commosso dell'onore fatto non alla scienza ma alla sua povera persona. Infine inneggiò anche lui al progresso della scienza, alla amicizia del Brasile e dell'Italia, all'unione latino-americana, alla civiltà e alla solidarietà de' popoli. E altri gli risposero, professori, deputati, giornalisti, mentre poco discosto gli emigranti del vecchio mondo sgranavano gli occhi sulla cerimonia che veniva loro offerta al limitare del nuovo mondo.

La signora Giovanna Axerio stava vicino al marito e aveva accanto il Buondelmonti e il Porrèna. Il quale faceva musetto con le labbra come se zufolasse e guardava intorno la baia, le alture dai disegni bizzarri e la città. Si chinò verso la signora e le disse:

— Lei dev'essere superba delle accoglienze trionfali che riceve il professore.

— Infatti — rispose la signora seccamente. Le sue labbra si sporsero contro il velo, la sua mano inguantata corse in quel punto e lo rialzò. Dopo poco il Porrèna ripetè la frase al Buondelmonti:

— Lei dev'essere superbo delle accoglienze trionfali che riceve il suo connazionale.

Il Buondelmonti che sorrideva tra sè e sè a capo basso, rispose:

— Certamente.

Subito aggiunse:

— Ma per fortuna la scienza non ha patria.

E sorrise al Porrèna affabilmente, rallegrandosi dentro di sè che il viaggio fosse terminato e che quegli s'allontanasse per sempre dalla compagnia sua e di Giovanna.

Allora, o avesse afferrato qualche parola intorno, o ci ripensasse da se stesso, il professor Axerio si rammentò che sua moglie l'aveva accompagnato attraverso l'oceano, la prese per mano e avanzandola un poco disse con quel tanto di solennità che gli parve conveniente:

— La mia signora.

Tutte le fronti s'inchinarono.

Tosto una voce maschia, una bella voce sonora e franca, si levò e disse:

— Ci deve essere a bordo un altro nostro valoroso compaesano.

— Chi? — si lasciò cadere giù per la barba il professore Axerio.

— Lo scrittore Piero Buondelmonti. L'ho letto in un giornale di Roma che ho ricevuto la settimana scorsa.

L'Axerio girò a malincuore gli occhi e accennò il Buondelmonti che stava nella calca. Allora l'italiano di Rio de Janeiro il quale si chiamava Lorenzo Berènga ed era il capo morale della colonia, si fece avanti e andato incontro allo scrittore gli strinse la mano gagliardamente come ad un vecchio amico e disse forte:

— Signor Buondelmonti, io voglio dare un pranzo per festeggiare il suo arrivo e quello del professore Axerio. Lei è invitato per doman l'altro sera.

Tutta la colonia, quantunque il nome di Piero Buondelmonti fosse noto a ben pochi degl'italiani di Rio de Janeiro, seguì com'un uomo solo il suo capo morale, tanto era il rispetto che questi incuteva, e fece atto d'omaggio. E la fama di lui si sparse subito anche fra' brasiliani i quali lo complimentarono. Uno fra gli altri appena ne sentì il nome, drizzò gli orecchi e accorse, perchè le sue opere gli erano note. Era un giovanissimo letterato e giornalista di Rio de Janeiro a cui la natura aveva dato due orecchi aguzzi e due occhi fatti apposta per esprimere l'avidità d'apprendere. Si chiamava Quirino Honorio do Amaral. Da sè medesimo si presentò al Buondelmonti e gli parlò dell'ultimo suo libro con un impeto come se da anni e anni avesse avuto la gola serrata dalla commozione per quell'incontro. Gli occhi gli ridevano come la bocca mentre parlava, e pareva che gli venissero fuori dal teschio, sì aveva il volto ridotto a pelle e ossa e gli occhi a fior di testa orlati di nero e rotondi fra gli orecchi aguzzi.

Fornite le pratiche del porto, i passeggieri dell'«Atlantide» furono liberi di scendere a terra. E quando il professor Axerio e Piero Buondelmonti ebbero posto il piede sulla scaletta di sbarco, qualcuno gridò:

— Evviva l'Italia!

Tutti fecero coro, la scaletta brandì fortemente, la baia rintronò e dall'alto qualche italiano scendendo lacrimò sul mare.

I brasiliani condussero gli Axerio alla villa che la repubblica aveva scelto per loro sul colle di Santa Teresa.

E sul medesimo colle due giorni dopo ci fu nella villa di Lorenzo Berènga il pranzo al quale erano invitati brasiliani e italiani di Rio de Janeiro e di San Paolo. Quando il Buondelmonti giunse alla villa del Berènga, questi lo condusse sulla terrazza dove già stavano il professor Axerio e molti altri. Alcuni si fecero incontro al Buondelmonti, e primo un letterato di Rio de Janeiro il quale gli mostrò il panorama che si godeva di lassù, la valle, la città e le isolette nella baia che già incominciavano a illuminarsi al cader della notte. Il direttore d'un grande giornale di Rio de Janeiro, un signore d'alta statura con una faccia ossuta, grigiobarbuta e un po' insaccata in due spalle strette e montanti, era accanto a loro, guardava con un sorriso di bontà un po' attristita e punteggiava di quando in quando con qualche monosillabo d'assentimento le descrizioni del letterato. Il quale si chiamava Francisco de Faria Lemos e parlava benissimo l'italiano con una voce nasale dolce, lenta e un po' strascicata, e congratulandosi con lui il Buondelmonti, gli raccontò che aveva viaggiato molto in Italia e che aveva avuto sempre tante amicizie fra gl'italiani per via del padre che era stato avvocato del consolato italiano. Accostatosi un signore di aspetto grave e delicato, il Berènga lo presentò al Buondelmonti.

— Il nostro pastore.

Un calabro, di nome Giorgio Tanno, piccoletto e forte, tutto negro d'occhi e di pelame e con una cicatrice che gli scendeva giù dallo zigomo per la gota destra rompendogli la barba, spiegò al Buondelmonti che il Berènga era protestante. Il quale poco dopo presentò un altro invitato.

— Giacomo Rummo, testa calda!

Il presentato, un uomo asciutto e solido, con una faccia ferma e una barbetta a punta rossiccia, chinò appena la fronte e s'allontanò. E il Tanno al Buondelmonti che non ne aveva afferrato bene il nome, spiegò che era un socialista rifugiatosi d'Italia nel Brasile al tempo di moti politici. Il Buondelmonti disse sorridendo:

— Ora capisco perchè s'è allontanato così da me!

Sopraggiunse Quirino Honorio do Amaral e col suo bell'impeto cordiale raccontò al Buondelmonti che aveva fatto annunziar il suo arrivo da tutti i giornali e dar notizie di lui e delle sue opere. Sopraggiunsero gl'invitati di San Paolo. Erano otto o dieci italiani d'ogni regione d'Italia dalla Lombardia alla Sicilia, uomini d'affari arricchitisi con strenua operosità. C'erano tre grandi importatori di prodotti europei, un banchiere, grandi negozianti e padroni di fabbriche tra le primissime di laggiù nel loro genere. Questi col Berènga costruttore e col Tanno padrone di officine e con pochi altri di Rio de Janeiro erano il fiore della colonia e dell'emigrazione italiana, nel Brasile. E il Buondelmonti, mentre stavano pranzando, li guardava, tutti quelli uomini della sua stessa patria raccolti con lui in cima a quel colle lontano dalla patria tante migliaia di miglia; li guardava a uno a uno attraverso la tavola sfarzosa, i fiori e il cristallame sfavillante sotto uno sfolgorio di troppa luce. Aveva accanto a sè Giorgio Tanno e davanti un giovane della Basilicata, di nome Pasquale Mùrola, il quale per amore della patria lasciata nell'infanzia si nutriva la mente di letture italiane, e perciò insieme col fratello aveva fatto al Buondelmonti gran festa sin dal primo incontro sull'«Atlantide», perchè sapeva chi era e quanto valeva. Ora il Mùrola parlava con un importatore di San Paolo che gli sedeva a destra, un siciliano con due occhi vivissimi in una faccia arguta e mobilissima, e il Buondelmonti capiva d'essere l'oggetto del loro discorso, perchè ogni tanto l'uno e l'altro davano un'occhiata di sfuggita verso di lui e sorridevano cordialmente. Fra gl'italiani di San Paolo e quelli di Rio de Janeiro c'era un fervore di conversazioni più forte che non fra conoscenti ed amici i quali si ritrovino dopo lungo tempo e abbiano molte cose da raccontarsi; pareva al Buondelmonti che ritrovandosi gli uni con gli altri, quelli italiani, provassero la gioia di rimpatriare. Gli occhi dell'importatore siciliano, altri occhi italiani, intelligenti e penetranti, scintillavano; squillavano le voci di tutte le stirpi italiane, de' liguri, de' siciliani, de' veneti, de' calabri, de' toscani.

Giorgio Tanno parlava all'orecchio del Buondelmonti d'un comitato della nobile società nazionale che prende nome da Dante Alighieri, fondato da lui e da' suoi amici a Rio de Janeiro pochi mesi prima. Parlava de' disegni che aveva formati per l'avvenire, sullo sviluppo da dare a quel comitato, e di alcune scuole da aggregarvi. Quando ad un tratto discostò dal Buondelmonti la faccia, e la cicatrice gli guizzò dallo zigomo fin sotto il negror della barba infocandosi. Gli occhi s'intorbidarono di ferocia e dalle labbra gli usciron queste parole:

— Perchè io sono italiano!

Poi con la palma aperta si percosse la cicatrice sulla gota e aggiunse:

— Veda! Questo qui lo chiamano il segno di Menelik! Io ero a San Paolo quando l'Italia fece la guerra in Affrica. Ero venuto da poco nel Brasile. C'eran de' moti contro gl'italiani e si gridava viva Menelik! Una volta per una strada m'imbattei in gente che gridava così. Mi scagliai addosso a loro buscandomi una pugnalata qui. Ma uno fu ammazzato da me.

Improvvisamente una voce squillò poco discosto dal Buondelmonti:

— L'Italia è costretta a fare una politica estera vile e la colpa principale è vostra!

E un giovane magro e lungo con un volto magro e lungo si levò scagliandosi contro il socialista Giacomo Rummo. Il quale ribattè:

— La colpa è della borghesia.

Ma l'altro senza dargli ascolto seguitò:

— Bisogna pensare che la lotta di classe si fa in casa, ma fuori c'è la lotta delle nazioni; e a questo voi socialisti non avete mai voluto pensare e avete ridotto tutto alla lotta di classe! Per egoismo di classe avete distrutto la nazione! Ora poi vorreste rovesciare il ministero perchè non parte in guerra contro l'Austria! Voi! Voi che avete sempre gridato contro gli armamenti! Fatemi il piacere!

La voce del giovane magro e lungo, un giornalista italiano di San Paolo, squillava con un che di bleso. Il socialista senza batter ciglio ripetè:

— La colpa è della borghesia. Noi socialisti abbiamo un solo dovere: fare la lotta di classe. Non altro! Toccava alla borghesia che ha il dominio della nazione, a fare una politica nazionale resistendoci e magari schiacciandoci. Noi gridavamo contro gli armamenti? Ma che s'armasse! Non ne ha avuto il coraggio. Ha avuto quel mezzo coraggio che è figliuolo della necessità e della paura: spendere quella quantità di milioni che bastava per far gridare i socialisti, non per mettere la nazione in buono stato di difesa. Cioè, far sì che le cosiddette spese improduttive fossero veramente spese e improduttive insieme. La colpa non è nostra. Stia pur certo che noi saremmo capaci di dare all'Italia una classe dominante più coraggiosa, più gagliarda, più intelligente.

Il Buondelmonti ammirò il socialista e lo approvò dicendo:

— Nel riprovare la borghesia sto con Lei.

Il socialista fissò un momento il Buondelmonti e disse seccamente:

— Tanto meglio.

E si voltò dall'altra parte verso il giornalista che dava le ultime notizie sopra l'agitarsi delle potenze d'Europa, tra le altre l'Italia e l'Austria, che in quei giorni s'era fatto minaccioso per la vecchia pace.

Ma dopo il pranzo il Buondelmonti s'accostò di nuovo al nemico che aveva trovato anche nel Brasile, perchè gl'ispirava simpatia e voleva addomesticarlo. Lo scorse in disparte, in piedi, che fumava tutto solo, gli s'accostò e gli disse riattaccando il discorso:

— Non dubito davvero che loro socialisti sarebbero capaci di dare all'Italia una classe dominante più intelligente e più coraggiosa.

Il Rummo, fronte a fronte, appuntava verso la faccia del Buondelmonti la barbetta rossigna e taceva. Teneva il braccio un po' discosto dal fianco e aveva il sigaro tra le dita che mandava su un fil di fumo. Il socialista fissò a lungo l'imperialista finchè senza levargli gli occhi di dosso gli disse:

— Allora Lei ne morrebbe per la sua borghesia, vero?

— No davvero! — ribattè l'altro. — No davvero! Io non ho spezzato mai una lancia per la borghesia e per gli interessi borghesi; ho spezzato tutte le mie lance per la nazione e per gli interessi nazionali; e se è apparso diversamente, è stato perchè un certo tempo, in buona fede, ho creduto che nella borghesia prima che altrove si potesse risvegliare una coscienza nazionale.

Il Buondelmonti si tacque, si accostò ancora al Rummo e piano e con un sorriso di delicata seduzione gli domandò:

— Non crede alla mia buona fede?

A un tratto il solido e fermo uomo fu scomposto, perchè quella domanda voleva dire che il Buondelmonti teneva in gran conto la sua stima, e in lui la naturale vanità che è nel cuore d'ognuno, fu lusingata. Gli occhi che il Rummo non aveva mai levato dalla faccia del Buondelmonti, sbatterono un po', la barbetta a punta cadde giù e dalle labbra uscì:

— Non ho mai dubitato della sua buona fede!

Poi il Rummo rimase a viso basso come se si guardasse i piedi e dalla sua mano rimasta nello stesso atteggiamento continuava a venir su il fil di fumo. Da ultimo il Rummo rialzando il capo domandò:

— Ha fatto buon viaggio?

Il Buondelmonti rispose di sì e un sorriso fino gli errava ne' precordii.

Parte degl'invitati eran rimasti nella sala da pranzo, parte s'erano sparsi sulla terrazza e per le altre stanze. Tutta la villa era piena di voci e chi passava per le vie del colle e giù nella valle, la vedeva ardere di lumi attraverso le finestre aperte nella caldissima notte. Il padrone di casa stava con altri sulla terrazza e tonava contro l'Argentina, perchè in quei giorni c'erano rumori di guerra tra quella potenza e il Brasile. A pochi alla volta gl'invitati venivano a salutarlo e ad accomiatarsi e tra gli altri venne il Buondelmonti, ma il padrone di casa lo trattenne per la mano ed esclamò:

— Quando sarà in Italia, lo gridi forte che il Brasile è un grande paese e che ha un immenso avvenire! L'Argentina no!

Tutti gl'italiani presenti i quali amavano il paese dove avevan mutato di condizione, approvarono e si scagliarono contro l'Argentina con alte voci, mentre tre o quattro brasiliani che s'erano avvicinati, tacevano contenti nel cuore. A un tratto si sentì la voce del Berènga chiamare:

— Bruna!

E il Buondelmonti scorse in un giardinetto che era sotto la terrazza, una forma femminile e sentì una voce che rispose ardita:

— Mi vuoi, zio?

— Vieni su.

La forma femminile balzò, volò, sparve, riapparve sulla terrazza. Era una giovinetta che aveva un volto asciutto e olivigno, le ardeva negli occhi il cuore, e un leggiero ansito le alzava il petto per la corsa fatta tutta d'un fiato dal giardino in su. Il Berènga l'attirò a sè e mettendole le grosse dita villose dentro i capelli e piegandole il viso verso il Buondelmonti le disse:

— Vedi là un bravo italiano.

Bruna fissò il giovane e gli occhi le ridevano sì forte che pareva lo deridesse. Ma ad un tratto le sue labbra dissero:

— È il signore che taglia?

— No! È il signore che scrive.

E il Berènga aggiunse a Piero:

— Le ho parlato di Lei e del professore.

Gli occhi di Bruna non lasciarono Piero, le sue labbra aggiunsero:

— Italiano!

E tacque con i capelli ancor nella branca dello zio, fremendo di riprender la corsa. Pure, teneva il capo fermo e aveva sotto le ciglia uno sguardo lungo che andava lontano. E di nuovo le uscì dall'ardor del riso:

— Italiano!

Lo zio disse al Buondelmonti:

— L'ho lasciata crescere in libertà questa polledra selvaggia, però!... dimenticar l'Italia no! Amare questo paese dov'è nata, sì, ma non dimenticare l'Italia! Ho voluto che studiasse bene l'italiano, la geografia, la storia d'Italia, e che conoscesse Dante; ho voluto che facesse quello che noi non potemmo fare alla sua età. Io non posso tornare in patria, ma ci torno così: cercando di tener vivo l'amore della nostra patria, in questa creatura del mio sangue.

Tacque, la fissò, le piegò il capo all'indietro con l'una mano, le attanagliò il mento tra il pollice e l'indice dell'altra, disse:

— Ma è proprio de' Berènga, vero?

La giovinetta strise e rise, la maschera de' Berènga guizzò sulla sua faccia. Lorenzo Berènga aveva, d'un rilievo straordinario, dalla fronte al mento, l'impronta de' veri uomini di lotta e di conquista: l'impronta della volontà risoluta, aggressiva e dura; egli aveva dal mento quadrato alla fronte quadrata una sagoma facciale diritta come il taglio d'una spada. Ei tenne ancora Bruna col capo riverso, la contemplò a lungo, poi impetuosamente la baciò e disse al Buondelmonti:

— È figlia d'un mio fratello ucciso nell'Uruguay durante l'ultima rivoluzione.

E prese a raccontare del fratello e di se stesso. Con questo fratello maggiore e con le braccia soltanto, a dodici anni era venuto nell'America del Sud e prima erano sbarcati a Montevideo dove il fratello era rimasto, e poi lui era venuto a Rio de Janeiro dove aveva lavorato anni e anni da muratore finchè era riuscito costruire per conto suo e più volte era stato buttato a terra da colpi di fortuna, ma s'era sempre rialzato e in vent'anni nella capitale del Brasile aveva fabbricato forse più di mille case e palazzi. Lorenzo Berènga concluse:

— Mio fratello Giovacchino a Montevideo ha fatto di tutto, ha provato tutto ed è morto nella strada d'un colpo di pugnale; ma in altri tempi sarebbe diventato un Napoleone. Io mi sentivo un cencio a petto suo.

Il Buondelmonti guardava il costruttore. Questi aveva una statura poco più alta della media e membra proporzionate, ma per effetto forse d'una mirabile giustezza di proporzioni, appariva più grande, un che di grandioso era in lui, appariva ancora fortissimo oltre i cinquant'anni, ed era in lui un che di formidabile. Il Buondelmonti guardava soprattutto i fasci di muscoli che avevan le sue ciglia di qua e di là dal naso largo, massiccio, diritto, senza scavo all'attaccatura frontale. Quando Lorenzo Berènga cessò di raccontare della sua vita e del fratello ucciso, aveva la faccia un po' in avanti e non guardava nessuno. Il Buondelmonti vide che quella faccia ora metteva paura. Qualcosa di terribilmente feroce stava nell'occhio torbido sotto i fasci de' muscoli cigliari contratti e fermi come se fossero stati di ferro. Il Buondelmonti guardò ancora e scorse in quell'occhio feroce qualcosa di doloroso. A un tratto queste parole uscirono dalle grosse labbra del Berènga:

— Si è in esilio qui, si lavora e si combatte in esilio.... altro clima, altra lingua, altra gente e famiglia nuova.... Dir l'inferno di chi è solo a combattere!

Furono pochi attimi. Riapparve l'uomo cordiale e festoso dell'«Atlantide», l'occhio rischiarato. Con la sua franchezza disse al Buondelmonti:

— Lei vuol andarsene, se ne vada; si ricordi che casa mia è casa sua.

E aprendo la mano aggiunse a Bruna:

— Vattene anche tu.

La fanciulla scosse la chioma liberata e fuggì. Ma lo zio la richiamò ancora, ed ella si voltò domandando:

— Mi vuoi?

Negli occhi le bruciava un fuoco di riso.

Lo zio le disse:

— Cogli de' fiori per il signore, quando passa. Ma intendiamoci! Non spogliare il giardino!

— Sì.

E fuggì. Il Berènga disse al Buondelmonti:

— Mio fratello quattro volte fece fortuna e quattro la distrusse. Una volta prestò tutti i suoi risparmi a un amico e non riebbe più nulla. Se io dico a Bruna di portarmi de' fiori, mi spoglia il giardino. Ha come mio fratello la mania di donare. Ultima fiamma del sangue nostro!

Il Buondelmonti quando lasciò la villa in compagnia di Quirino Honorio do Amaral, era ammutito. Rivedeva l'occhio del Berènga torbido di ferocia e di dolore, si ricordava dell'altro occhio del Tanno e della cicatrice del pugnale guizzante sotto il negror della barba. Gli ritornavano in mente le parole del Berènga:

— Altro clima, altra lingua, altra gente....

Era l'emigrante dell'«Atlantide». Lo rivide sopra un'altra nave, in mezzo all'oceano, a dodici anni, col fratello e le braccia soltanto.

Gli riapparvero gli emigranti con i quali aveva viaggiato, e, subito dopo, gl'italiani di San Paolo e di Rio de Janeiro con i quali aveva pranzato quella sera. E ancora risentì le parole del Berènga:

— Soli a combattere!

E a un tratto afferrò la condizione di quelli uomini: ognuno di loro era solo in mezzo alla vita collettiva del paese straniero; ognuno di loro valeva per la sua forza individuale, assente quella che centuplica tutti: la forza nazionale. Dispersi membra tronche.

Subito gli balenò e gli si fissò in mente la verità piena con queste parole:

— Sono così forti! Che avrebbero fatto, se ognuno avesse avuto con sè la forza nazionale? Invece, la patria li diminuisce.

Rivide la cicatrice sulla gota del Tanno, risentì l'insulto lanciatogli in faccia: — Evviva Menelik!

Il Buondelmonti gridò dentro di sè:

— Razza di cani! Quando vollero che l'Italia restasse sconfitta da un selvaggio, non pensarono a questo. Non pensarono che tagliavan le braccia a tanti milioni di disgraziati dispersi per il mondo! E ora l'Italia manda il medico sulla nave a pesar loro il cibo e l'aria e medicar le piaghe! Per quindici giorni, razza di cani!

A un tratto dal cancello della villa, nel buio, vide balzarsi dinanzi una forma femminile, Bruna con le mani piene di fiori. E dati questi, la giovinetta come presa da follia si mise a correre qua e là e a cogliere, a cogliere altri fiori. Il Buondelmonti diceva:

— Basta!

Ma Bruna continuava a coglier fiori senza parlare.

La Patria lontana

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