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PREFAZIONE
ALLA SECONDA EDIZIONE

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In talune marcite dell'«alta filologia», Minerva e lo Scimmione è piombato con lo schianto d'un bolide. I filologi, lí per lí, sono rimasti sgomenti, e si sono sprofondati nel motriglio, come le rane d'Esopo. Poi, sempre come le rane, rane scusate, d'Esopo, hanno ripreso animo, hanno risollevato i musi a fior d'acqua, e, con altissimi gracidii, si sono arrampicati sull'intruso, fiduciosi di affondarlo nella belletta. L'avevano preso per un travicello.

Ma travicello non era. Eccolo, di nuovo a galla, sibilar dalle pagine della seconda edizione.

* * *

Io ebbi a scrivere, e la penna mi esitò allora a lungo fra le dita, tanto alla mia ingenuità sembrava superflua la dichiarazione, che assai differente è la disposizione del mio spirito verso la cultura tedesca e verso la cultura italiana (pag. 130). Poniamo che esse siano, come io sostengo, due malate. Ebbene, vada la prima in isfacelo; e date, date pietre a sotterrarla, rovine di Ypres e di Lovanio, di San Quintino e di Reims, di Asiago e d'Aquileia. Ma la cultura italiana si vuol curare con affetto di figli. E con una malata occorre aver pazienza, molta pazienza, e tollerarne in pace i malumori irragionevoli, gli scatti inconsulti, i violenti rabbuffi.

Sí. Ma non già fingere di non vedere i suoi mali. Sarebbe rea compassione. Ora, accanto ai sintomi che io già ebbi a svelare, ecco, e appunto sotto lo stimolo del mio libro, sono apparse altre stimmate. E stimmate vergognose.

* * *

Minerva e lo Scimmione è un libro di battaglia: e, se volete, d'attacco. Io combatto metodi e idee. E poiché dietro i metodi e le idee ci sono gli uomini, ché mai non mi sedusse il diporto d'affrontare mulini a vento, giustificabile, anzi desiderabile sarebbe stato che i paladini delle idee da me combattute insorgessero a difenderle.

Ma perché io mi limitavo appunto a combattere le idee, e il dissenso, anche grave, in problemi intellettuali, non implica offesa, anche ai miei contradittori incombeva il dovere di attenersi alle armi legittime d'ogni polemica: le argomentazioni, la eloquenza, l'ironia. E se queste armi avessero rivolte contro me, ragione contro ragione, passione contro passione, davvero non avrei avuto diritto di recriminare.

Invece si è seguita un'altra via: si è tentato di sopraffare il mio libro e me stesso con metodi che ricordano tempi e disposizione d'animi che da un pezzo dovrebbero essere sepolti. Mi spiace tediare il lettore con tali miserie; ma è necessario per le mie conclusioni. E, d'altra parte, in tutti questi maneggi è una punta d'involontaria comicità che ne tempera la squallida sciocchezza.

Si è dunque organizzato un vero e proprio attacco, suddiviso in varie fasi, che, se nell'ordine reale di svolgimento presentarono qualche interferenza, nel prestabilito ordine teorico si possono allineare nel seguente modo.

A — Avvisaglia d'una banda di anonimi (cinque), che, in giornaletti clandestini o in libelli volanti, spediti, senza riguardo a spesa, a tutti i «centri di cultura», proponevano e svolgevano i tèmi seguenti:

1) Il mio libro non era frutto di convinzione sincera, né rivolto a combattere metodi e idee. Attraverso queste, volevo colpire uomini odiati.

2) Era ispirato ad opportunità politica.

3) Tanto vero che prima della guerra ero appassionato ammiratore della Germania. — A questa ultima ridicola asserzione risponde il mio volume Vigilie italiche, Breviarî intellettuali, N. 99.

B — Uno degli anonimi, emulo dei costumi del cúculo, aveva deposte le sue note nell'opuscolo non anonimo d'un minuscolo filologo scientifico. In questo opuscolo si discutevano, in due capitoli differenti, il mio Scimmione, e i libri di testo d'un professore di storia che ha da solo piú ingegno di tutti i filologi scientifici messi in fascio, e che in un suo articolo aveva denunciata la infecondità e la miseria d'un insegnamento impartitogli dalla cattedra universitaria col piú severo «metodo filologico scientifico». Questo accoppiamento di bersagli, anodino in apparenza, spianò man mano la via ai piú subdoli equivoci.

C — Un giornalista fece in una grande effemeride una lunga recensione dell'opuscolo. E cosí, accortamente sanato il difetto dell'anonimia, ebbero modo di venire alla luce non solo gli argomenti, chiamiamoli cosí, del piccolo filologo firmato, ma anche, e di preferenza, le insinuazioni e le calunnie dell'occulto cúculo postillatore.

D — Il medesimo giornalista si diede a intervistare persone autorevoli, e a sollecitare la loro opinione intorno al mio libro. All'affettuoso grido risposero quattro professori, tutti e quattro dell'Istituto superiore di Firenze. Il giornalista dichiarò perentoriamente che essi erano «gli unici letterati e filologi in questo dibattito». Quelli, sicuri per tanto avallo, si impancarono, fieri e solenni, a giudicar la contesa. E i cuori ben fatti intenderanno di leggieri se mi diedero torto su tutta la linea.

* * *

Ora intendiamoci. Io non confondo il quartetto dei professori di Firenze col quintetto anonimo. Troppo ribaldo gesto sarebbe stato, in verità, avventarsi prima nel buio, con una maschera sul viso, e in pugno un randello da zanni; e poi, giunta l'alba, indossare, grugno di corno, l'ermellino del giudice. Non può essere avvenuto. Ma sussiste il fatto che anche questi Colleghi, e massime i due a cui l'età e il prescelto magistero di vita avrebbero dovuto consigliare maggior riserbo, non disdegnarono stringere le armi ignobili e frodolente offerte ad essi dalla combriccola anonima. Onde insinuazioni, personalità, ed equivoci si susseguirono monotonamente e malignamente nelle suddette interviste.

Ora che cosa dovrei fare io? Opporre insinuazione ad insinuazione, impertinenza ad impertinenza, equivoco ad equivoco? No no, cari i miei classicisti: codeste sono armi da non invidiare al buffone Sarmenta, da lasciare ai Messi Cicirri, e non da impugnarle i galantuomini. Vero è che il troppo stroppia, e che alla lunga anche un galantuomo potrebbe seccarsi. E allora vorrebbe essere un'altra musica. Ma, anche una volta, tollera, tollera, mio cuore! Io non nutro il menomo rancore verso queste brave persone che tanto mostrano di nutrirne verso di me: io non ho interessi da difendere né vendette da esercitare: né, d'altra parte, ignoro che, quando si combattono idee troppo diffuse e rispettate, conviene usare molta pazienza; e poi le aspre polemiche inducono anche i piú misurati a varcare i confini delle proprie convinzioni e della verità. E perciò mi limito a denunciare, e, ripeto, per la salute nostra intellettuale, questi metodi polemici, che riescono qualificati con l'esporli, e a richiamare quei due piú accaniti Colleghi a certe norme di correttezza che mai non dovrebbero essere violate fra persone di garbo. Che maniera è codesta, quando altri esprima idee contrarie alle vostre, non affrontare direttamente né combattere quelle idee, bensí fare il processo alle intenzioni che egli ebbe, e figurarvele e dichiararle all'Italia basse e volgari! Io credo erronei e nefasti per i nostri studî molti principî nei quali voi ciecamente giurate; e li combatto con tutte le armi lecite della polemica, dalle quali niuno pretese mai di escludere né l'ardore né l'ironia né il sarcasmo. Ma io non ho insinuato mai che a sostener quei principî vi abbia indotto interesse materiale o altra passione meno che nobile: io non ho mai proclamato che voi non cerchiate e non amiate la verità.

Se non che, Signori miei, la verità non è oggetto da farne monopolio né voi né nessuno. L'amore che io nutro per essa è puro e profondo e senza macchia: e non tollero che altri ne dubiti. Se a voi giova costruirvi un sacello, collocarvi un idolo, adorarlo genuflessi, è affar vostro, e buon pro' vi faccia. Ma se altri rifiuta di prostrarsi al vostro fianco, nessuno vi concede il diritto di gridare al sacrilegio. La verità che io vedo chiara, che io credo utile, ho non solo il diritto, ma il dovere di dirla, e dirla forte. E questo diritto lo rivendico per me e per tutti. Non son piú tempi da conventicole, da chiesuole, da tirannidi letterarie. Cessino una buona volta le angherie, le imposizioni, la tracotanza. E cessi il vergognoso ricorrere alle arti subdole, alle vie traverse, alle opposizioni materiali. Le battaglie dell'intelletto vogliono esser vinte con l'intelletto. Chi è incapace di adoperare quest'arma, si ritiri dal campo.

* * *

Or lasciamo queste miserie. Insieme con le insinuazioni, potete rispondermi, abbiamo esposto argomenti. Confutateli, è la vostra volta.

Ecco. Prima di tutto debbo rammentarvi una verità elementare, della quale, mi sembra, avete smarrito il ricordo: ed è che le dispute non si risolvono a colpi di maggioranza. Per dimostrare che io fossi nel torto, si sono moltiplicate le interviste: mi si è sguinzagliata contro una clamorosa turba di untorelli filologi: si sono invocati referendum, rimasti in asso, credo, pel buon senso degli interpellati: l'Atene e Roma, palladio in Italia degli studî classici, s'è radunata, e ha deliberato di mobilitare contro lo Scimmione le fitte caterve dei suoi soci.

Ebbene, e che cosa significa il giudizio delle moltitudini in questioni di pensiero? Cinquanta argomenti cattivi non ne scalzano uno buono. E un argomento, buono o cattivo, ripetuto cinquanta volte, vale per uno, e non per cinquanta.

Ora, e negli opuscoletti, e nei giornaletti, e nelle intervistette, si sono sempre ripetuti, con fastidiosa insistenza, i medesimi argomenti o pseudo argomenti. E neppure su questi rispondo a voi direttamente, per parecchie ragioni, che enumero.

Prima e capitale, perché rispondo solo a chi mi interpella gentilmente, e non a chi vuol farmi il sopracciò; a chi cerca la discussione, e non a chi provoca la rissa.

Seconda, perché, o non vi siete data la briga di studiare attentamente il mio libro, e quindi non ne avete afferrate le idee; o avete fatto finta di non capirle. Sicché m'avete fatto tacere quello che ho detto espressamente, e dire quello che non ho detto, e avete combattute le mie idee dopo averle divelte dalle radici ond'esse derivavano ogni loro vigore. Or queste non sono le armi dei logici, bensí dei sofisti: non di chi cerca sinceramente la verità, bensí di chi vuole avere ragione ad ogni costo. Ma io cerco la verità, e non intendo impegolarmi in gare di sofismi.

Terza ragione: perché i vostri argomenti sono viziati da un peccato logico originario, che stempera, anzi distrugge ogni loro vigore. Tutti, infatti, i miei oppositori concordano in un punto: nell'ammettere come assioma la incrollabile solidità del metodo filologico scientifico. E l'un d'essi lo paragona ad una piazza forte, nella quale chi c'è, è in una botte di ferro, e chi è fuori, ogni acqua lo bagna. E un secondo lo assimiglia al siero Behring, che sarà tedesco, ma se i nostri bambini sono attaccati dalla difterite, siero Behring deve essere. E un terzo, piú fantasioso, con peregrina immagine squisita, sentenzia che chi vuole rinunciare a questo metodo «per far dispetto ai tedeschi, fa come quel marito che per far dispetto alla moglie si privò da sé stesso della possibilità d'essere piú mai un valido marito». Dove, fra parentesi, e con la debita deferenza, faccio osservare al Collega, che con questo paragone egli viene ad assimigliare gli uomini e i metodi che intende esaltare, ad organi del nostro corpo, i quali, pure essendo utilissimi e nobilissimi, da tempo immemorabile vengono assunti come termini di confronto a significare, oh ingratitudine umana!, la cocciutaggine e la mellonaggine. Occhio alle immagini, caro Collega! Bisogna saperle acchiappare, se no mordono la mano al serparo.

Dunque, filologi belli, voi partite dal postulato che codesto «metodo scientifico» sia piazzaforte, siero salutifero, succo vitale. Ma io penso di aver dimostrato nel mio libro che esso è invece pantano, tossico e marciume. Quindi, se volete confutarmi, dovete prima dimostrare falsa questa mia dimostrazione. Hic Rhodus, hic salta. Non l'avete fatto, e siete caduti fin da principio in una solenne petizione di principio.

Capisco benissimo. Voi potete credere e lasciar credere che l'equazione filologia = scienza, se non è assiomatica per me, è assiomatica per voi e per tutte le persone di mitidio, e assumerla come principio, e, senza curarvi della mia dimostrazione, dedurne giú giú, e farne luccicare, agli occhi dei creduli, le meravigliose conseguenze. Benissimo. Ma quello storico struzzo, nascondendo la testa sotto l'ala, non eliminò la presenza del cacciatore.

Questa volta poi i cacciatori sono due. Già. Mentre io, investito da voi e dalla stridula turba dei vostri accoliti, giravo intorno lo sguardo, sgomento, costernato, esterrefatto della mia solitudine, vidi puntar lo schioppo contro di voi tale che non avrei mai supposto di potermi trovare compagno a simil caccia: vo' dire Benedetto Croce.

Benedetto Croce, per l'appunto: che, dopo un periodo non breve di germanofilia intellettuale, da qualche tempo va prodigando graditissimi esempî di resipiscenza patriotica. E che, in un libro uscito di questi giorni, si esprime cosí, parola per parola, intorno al «metodo filologico scientifico». E porga orecchio anche qualche suo cagnotto, che, scambiando le idee con gli uomini, scese a spezzare anch'egli una lancia in difesa della bestialità filologica.

«L'ardimento di respingere addirittura l'intromissione del pensiero dalla storia, che era mancato agli storici diplomatici (perché mancava loro la necessaria innocenza a tale ardimento), l'ebbero invece i filologi, innocentissimi. E l'ebbero tanto piú facilmente in quanto l'opinione di sé medesimi, anteriormente modesta, si era assai accresciuta e aveva gonfiato i loro petti, per il grado di perfezione a cui era pervenuta l'indagine delle cronache e dei documenti, e per l'accaduta fondazione (che non fu, a dir vero, creazione ex nihilo) del metodo critico o storico, che si esplicava nella sottile e accurata genealogia e riduzione delle fonti, e nella critica interna dei testi. E tanto piú facilmente codesto orgoglio di filologi prevalse, in quanto il perfezionamento del metodo accadeva in un paese come la Germania, dove la mutria pedantesca fiorisce meglio che altrove, e dove, per effetto dello stesso abito ammirevolissimo della serietà scientifica, la «scientificità» è assai idoleggiata, e questa parola viene ambiziosamente adoperata per ogni cosa che concerne i contorni e gli strumenti della scienza vera e propria, come è il caso della raccolta e critica delle narrazioni e documenti. I vecchi eruditi italiani e francesi che al loro tempo fecero compiere al «metodo» avanzamenti non minori di quelli che si ebbero poi nel secolo decimonono in Germania, non sognavano di produrre cosí «scienza», e molto meno di gareggiare con la filosofia e la teologia, e di poterle scacciare e surrogare col loro metodo documentario. Ma, in Germania, ogni meschino copiatore di testi e collettore di varianti e scrutatore di dipendenze tra i testi e congetturista del testo genuino, si eresse a uomo di scienza e di critica, e osò non solo guardare a faccia a faccia, ma con superiorità e dispregio, come uomini «antimetodici», uno Schelling o un Hegel, un Herder o uno Schlegel. Dalla Germania si diffuse questa mutria pseudoscientifica negli altri paesi di Europa, e ora anche in America: sebbene in altri paesi incontrasse con piú frequenza spiriti irreverenti, che ne risero. E allora per la prima volta si manifestò in grado insigne quel modo di storiografia che ho denominato «storia filologica» o «erudita»; cioè si presentarono camuffate come storie, e come sole degne e scientifiche storie, le piú o meno giudiziose compilazioni di fonti, che pel passato si dicevano Antiquitates, Annales, Penus, Thesauri, e simili. La fede di quegli storici era riposta in un racconto, del quale ogni parola potesse appoggiarsi a un testo, e niente altro ci fosse che quanto era nei testi, sceverati e ripetuti, ma non pensati dal filologo narratore: la loro speranza, nel poter assurgere a poco a poco, movendo da compilazioni circa singoli tempi, regioni ed avvenimenti, a compilazioni comprensive, riassumenti di grado in grado le meno comprensive, sino a ordinare l'intero sapere storico in grandi enciclopedie, delle quali forniscono saggi quelle, ora sistematiche ora lessicali, che sono state messe insieme da gruppi di specialisti, guidati da un direttore specialista, per la filologia classica, romanza, germanica, indoeuropea e semitica. A togliere aridità ai loro lavori, i filologi s'inducevano talvolta a mettervi qualche ornamento di commozioni affettive o di sguardi ideali; e attingevano le une e gli altri ai loro ricordi ginnasiali, alle frasi della filosofia di moda e alle comuni disposizioni sentimentali verso la politica, l'arte o la morale. Ma tutto ciò facevano con molta moderatezza, per non perdere la reputazione di gravità scientifica e per non fallire al rispetto dovuto alla scientifica storia filologica, che disdegna i vani ornamenti onde si compiacciono filosofi, dilettanti e ciarlatani».

Che cosa ne dicono gli illustri zelatori della filologia scientifica? Sembra o non sembra un succoso riassunto di Minerva e lo Scimmione?

So bene che, un passo piú in là da questa concordia iniziale, fra Croce e me dovrà incominciare il dissenso. Il Croce piú d'una volta si dimostrò e si dichiarò disposto a tollerare che questo gramo filologismo séguiti a soppiantare e storia e letteratura e filosofia nelle Università, che egli sembra concepire come una specie di asilo della mediocrità abbandonata; mentre io credo che nell'Università abbia diritto di cittadinanza soltanto la vera scienza; e la scienza comincia dove comincia il pensiero. Ed anche intorno ai modi onde il pensiero deve dar vita alla mole inerte dei dati filologici, non andrò certo d'accordo col pensatore d'Abruzzo. Egli vagheggia moduli e metodi spremuti dal metafisico mosto alemanno: io credo, ed esporrò altrove le ragioni di questa mia fede, che la salvezza dei nostri studî dipenderebbe da un vigoroso colpo di barra che riconducesse nettamente il pensiero italiano nel gran solco che da Leonardo e Galileo giunge a Romagnosi, a Cattaneo, a Giuseppe Ferrari (calma, oh nuovi hegeliani!), per poi confondersi in un grande estuario di non infeconde ma torbide acque germaniche. Ma questo non vuol dire. La mira al «metodo scientifico» è aggiustata bene, la schioppettata colpisce in pieno. Struzzo, béccatela.

Ultima ragione per cui non rispondo al quartetto dell'Istituto. Perché le loro argomentazioni e le loro ragioni vennero ripetute, ma con la schiettezza che distingue chi cerca soltanto la verità, col garbo che si addice a persona civile, da un altro Collega, dal professore Ernesto Buonaiuti dell'Università di Roma. Al quale, poiché egli dichiara che le sue pagine rispondono all'invito da me rivolto agli studiosi nella prefazione al mio libro, mi parrebbe scortesia non rispondere[1].

E in tale risposta sarà implicita la confutazione ai meno garbati Colleghi.

* * *

Chiarirò prima, brevemente, un paio di malintesi. Il Buonaiuti mi fa dire che «il ciclo transitorio destinato allo svolgimento della pura ricerca filologica è oramai concluso per sempre». Ma io non ho detto questo. Ho detto che il sano lavoro filologico che si poteva fare intorno ai grandi classici è quasi interamente esaurito. Ma siccome riconosco che il primo studio d'ogni disciplina storica, cioè la raccolta e l'epurazione del materiale, deve essere severamente filologico; è chiaro che, finché ci saranno codici nuovi da esplorare, finché verranno alla luce nuove iscrizioni od epigrafi, sinché l'Egitto seguiterà ad offrirci i nuovi doni, che, per dire la verità, a me non sembrano tanto magnifici quanto sembrano al Buonaiuti; in tutti questi casi, anche secondo me, il metodo strettamente filologico troverà la sua ragion d'essere nobile e legittima.

Però, senta il Buonaiuti. Queste ragioni le vada a riferire a qualcuno dei filologi autentici, degli zelatori del puro metodo filologico scientifico, e sentirà. Si sentirà dare del dilettante. Che papiri d'Egitto! La filologia ripete la sua ragion d'essere da sé medesima, come il Creatore dell'universo. È fine e non già mezzo. Manipolare i testi, mantrugiarli, emendarli, supplirli, potarli, infiocchettarli, allontanarsi dai codici, riavvicinarsi ai codici, riallontanarsene, ririavvicinarcisi, stampare i membri ritmici l'uno dietro l'altro, in versi lunghi, ridurre un'altra volta i versi lunghi in membretti e sottomembretti ritmici, questo ibis redibis è il vero e proprio lavoro della filologia. La filologia fatta per i testi? I testi, dilettanti che non siete altro, son fatti per la filologia! I testi offrono il materiale bruto, col quale e sul quale i filologi tedeschi o intedescati edificheranno poi le loro moli informi e massicce, o i loro castelli trascendentali, arieggianti, con nobile emulazione, le babeliche torri di concetti onde i sommi metafisici alemanni attinsero e svelarono l'autentico mistero dell'essere. E diffidare delle contraffazioni.

Tale, mi creda il Buonaiuti, è la fede dei puri filologi scientifici. Quando mettete il loro credo in soldoni, strepitano che non è cosí. Ma il Buonaiuti ascolti il Vangelo, e giudichi dagli atti e non dalle parole. Contro questa maniaca ed orgogliosa concezione della filologia ho scagliato il mio delenda. Contro l'arrogante serva padrona, e non contro la seduta ancella, i cui servigi potranno tornare utili ancora per lungo ordine d'anni, e magari per sempre.

* * *

Anche piú mi sorprende l'altra accusa del Buonaiuti. Io «rimprovero ai critici tedeschi, quasi avessero commesso una profanazione, di avere richiamato l'attenzione sul cosí detto periodo ellenistico».

Io? Qui mi par di sognare. E parrà anche al lettore che vorrà controllare le mie precise parole (pag. 107). Io ho rimproverata ai critici tedeschi e ai loro imitatori italiani la valutazione esagerata di quel periodo: supervalutazione che, per contraccolpo, ha prodotto la svalutazione dei veri grandi, a cominciar da Omero (vedi pag. 105). Ora, questi spropositi, pronunciati da persone credute competenti, in materia dove è difficile il controllo, per la difficoltà della lingua, sono deleterî: assai piú deleterî che non gli errori di fatto. Credere che la battaglia di Maratona sia avvenuta il 470, sarà meno dannoso che non reputare Callimaco poeta sovrano, e Omero vate da colascione, Corinna ape nutrita dalle Muse, e Pindaro sgrammaticato guastamestieri, Timoteo (non alessandrino, ma degno d'essere alessandrino) artefice sommo, ed Eschilo tragediografo da fantocci. Queste sciocchezze screditano l'arte classica agli occhi delle persone piú facili: agli occhi degli artisti screditano gli studiosi di quell'arte, e, per conseguenza, i medesimi studî classici. Chi li propala, tradisce la sua missione di dotto: anzi, non è piú dotto: bensí, o sofista o cerretano.

E da questo mio presunto bando al periodo alessandrino il Buonaiuti trae una illazione anche piú ampia: io «mi pongo da un angolo visuale circoscritto ed unilaterale»; io «non vedo nulla al di là della produzione classica». La illazione è arbitraria: tuttavia la ricordo, perché mi offre il destro di chiarire un altro punto. Di distinguere, cioè, tra ricerca erudita e scuola. La erudizione si occupi fin che vuole dei minimi fatti, dei minimi autori: è suo diritto. Ma nelle scuole, anche universitarie, si devono studiare i grandi, e solo i grandi. Il contatto con la grande arte e con le grandi anime eleva i giovani e li accende ad opere egregie: razzolare nelle minuzie isterilisce il cuore e l'ingegno.

* * *

E fin qui, dunque, chiariti gli equivoci, fra il Buonaiuti e me esiste sostanziale concordia. Ora, poi, comincia il dissidio.

Tralasciando infatti i particolari, e venendo al nodo della questione, il Buonaiuti non accoglie questo mio concetto della filologia ancella; anzi mi richiama a quella nozione ampia e complessa della filologia che «se fu grossolanamente e pesantemente formulata dal Wolf, fu invece magnificamente definita dal sommo filosofo italico, da Giambattista Vico, come «la scienza della esperienza umana, attraverso il discorso parlato o scritto». E questa scienza «consente di abbracciare sotto un'unica categoria le molteplici discipline che vanno sotto il nome ben piú vago di storico-letterarie, e stringerle in un fascio, come appaiono strette insieme sotto la denominazione di giuridiche, filosofiche e scientifiche, le discipline che studiano rispettivamente e interpretano la lettera (e lo spirito? Soppresso?) del diritto, i problemi metafisici o quelli empirici».

Avvenuto il collegamento in un fascio di tutte le discipline storico-letterarie, s'intende che si deve applicare ad esse un metodo speciale di lavoro, che il Buonaiuti definisce «paziente industria del metodo induttivo».

La definizione è senza dubbio sonora e decorativa. Stringere in fascio i diversi rami d'una dottrina è operazione che semplifica ed agevola l'economia del sapere. Metodo induttivo, ciò è Galileo, scienza moderna, scoperte, chiniamo, dico meglio, chino la fronte reverente. Ma vediamo un po' che cosa realmente significhino, a stringerle da vicino, tutte queste belle parole.

Le discipline da raccogliere, secondo il Vico, sotto le grandi ali della filologia, sarebbero l'epigrafia, la numismatica, la cronologia, «i commentari» (non istorie, dunque) sulle repubbliche, i costumi, le leggi, le istituzioni. Aggiungiamo pure la etnografia, la geografia antica, la mitologia comparata, l'archeologia, la diplomatica, la paleografia, ecc.

La mèta che si prefiggono tali studî dev'essere, secondo il Vico, di confermare la tradizione [firmare constantiam auctoritatis].

E quale sarà il metodo da applicare per raggiungere questo scopo? La tradizione, con i suoi errori, le sue incertezze e le sue alterazioni, è un fatto della intelligenza umana. Perciò cade sotto certe leggi della psicologia, della ideologia e della logica[2]. A queste scienze, e, in pratica, piú che altro, alla logica formale, attinge il suo metodo questo lavoro di conferma della tradizione.

Ora, se ciascuna delle discipline sopra enumerate, e le possibili affini, volete chiamarle scienze, padroni, è questione di nomi. Se volete battezzare scienza filologica il loro complesso, accomodatevi. Se volete formulare le minute regole dei metodi applicati a studiarle, nessuno si oppone.

Il guaio incomincia quando volete accogliere sotto quella denominazione ed imporre quei metodi ad altre discipline che, pur movendo dai medesimi fatti, si prefiggono altro fine ed esigono altro metodo: cioè alla storia, alla storia della letteratura e dell'arte, alla storia della filosofia e alla filosofia (giacché anche questa, e massime la parte antica, si andava allegramente convertendo in filologia).

In queste discipline, che per brevità chiamerò morali, lo scopo supremo non è punto quello di allineare fatti, e siano pure emendati, emendatissimi. E perché questo non è il loro scopo, non ha diritto sovra esse il metodo che a quello scopo conduce: il metodo filologico, che solo per grave abuso, lo vedremo, il Buonaiuti identifica col metodo induttivo. Non già imporre orgogliosamente il proprio metodo, bensí offrire con deferenza il materiale da lei raccolto deve la filologia alle discipline morali.

Tutto questo dovrebbe essere elementare, chiaro, assiomatico. Se cosí oggi non sembra, è colpa del grave errore, da me piú volte denunciato (v. pag. 78), per cui si è creduto che si potessero identificare le discipline morali con le scienze esatte, e che i fatti offerti allo studio di queste e di quelle, rivestissero il medesimo carattere, e fossero quindi suscettibili del medesimo trattamento. Qui è il grave abbaglio, di qui gli abusi che pretesero e quasi riuscirono a sbalzar di soglio la storia, la letteratura, le arti, la filosofia, per sostituire ad esse la computisteria e l'inventario.

Pare che quanto dico in «Minerva e lo Scimmione» non sia bastato a chiarire la mia idea. Cercherò di spiegarmi meglio.

Io immergo una verghetta nel fondo melmoso d'una piccola gora: ed ecco sul velo dell'acqua un pullulare ed un crepitare di bollicine che scoppiano. Se indugio a considerare il fenomeno, una serie di domande affiorano al mio pensiero. Da che cosa sono prodotte quelle bollicine e quello scoppiettío? Da qualche cosa di aereo che si trovava imprigionato nel motriglio. Come poté trovarcisi? E perché se ne è sprigionata quando io v'ho immersa la verghetta? Perché è salita alla superficie? Di che materia s'ebbe a formare la pellicola delle bollicine? Perché queste si sono frante? E perché il crepitio? — Se avvicino ad esse un fiammifero, brilla una vampa, e s'ode uno scoppio. Perché questi nuovi prodigi? E piú insisto, piú si moltiplicano i problemi. E se li risolvo, io scopro altrettante leggi. E ciascuna di queste leggi, snidate dal minuscolo fenomeno, è universale, investe e regola ogni altro fenomeno affine, per quanto solenne e smisurato. Le medesime leggi osservate nella piccola gora reggono la meccanica dei mondi. Quando io le ho scoperte, io posseggo altrettante formule magiche. Applicandole in grande proporzione, io posso illuminare una città, o lanciare un immane ordigno negli abissi del mare o ai vertici dell'atmosfera. E ciò che avviene per questo fenomeno, si verifica per ciascun altro dei fenomeni naturali, anche minimi o impalpabili. Il fremito delle alucce d'una libellula, il guizzolare d'una tenue luce sul mobile specchio d'un'onda, il vario sibilo del vento fra gambi d'erbe ineguali, nascondono, sotto un velo specioso, infinite leggi universali meravigliose. Chi piú riesce a sollevare il velo mirabile, ad insistere, scrutando il fenomeno in ogni suo menomo anfratto, ad incalzarne il principio generatore per ogni piú riposto meandro, sino a coglierlo, a formularlo, a stabilire la legge, quegli è scienziato. E l'esperienza, oramai piú che due volte secolare, dimostra che questo insistente minutissimo esame dei fenomeni, applicato alle scienze fisiche, le costringe, diciamolo con gergo barbarico ma efficace, al loro massimo rendimento.

Veniamo adesso agli studî storici. Esiste un dubbio se un gran poeta, diciamo Vincenzo Monti, fu battezzato il 15 sera o il 16 mattina. Tizio, sitibondo di verità, sale in ferrovia, accorre sui luoghi, importuna gente, compulsa archivî, scopre l'atto di battesimo, il padrino, la madrina, il prete che battezzò, il chierichetto che porse l'acqua santa, e quanto ebbe di mancia, e gli assistenti, e la progenie degli assistenti; e poi scrive un articolo, due monografie, tre polemiche e un volume di 650 pagine. Tizio è un imbecille.

Ho scelto il secondo esempio grosso e marchiano, sebbene non fuori dalla possibilità, anzi dalla realtà[3], per rendere l'antitesi piú evidente. Ma è certo che tutti i fatti d'ordine storico, o letterario, o artistico, si troveranno con quello d'ordine fisico in analoga antitesi. In due discipline, cioè la ritmica e la glottologia, torna utile e conduce alla scoperta di leggi una analisi altrettanto minuziosa. Ma egli è che la prima di queste discipline non è morale, bensí fisica, perché, quando è ciò che deve essere, studia fenomeni d'ordine puramente acustico. E la seconda, è in parte (gran parte) fisica, e in parte direttamente psicologica: sicché, piú rigorosamente per quel lato, e meno per questo, rientra nell'àmbito delle vere e proprie scienze esatte. Ma nelle schiette discipline morali, l'insistere indefinitamente sui fatti — una data storica, la originaria lezione d'un passo, perfino l'autenticità di un documento — non conduce di per sé a grandi risultati.

Tentiamo ora la controprova. Poniamo, che in una osservazione d'ordine fisico, si giunga ad una analisi incompleta o inesatta. Ed ecco, la legge vi sfugge, o, peggio, stabilite una falsa legge, che sarà a sua volta feconda d'errori infiniti. Esempio, il famoso principio dell'orrore pel vuoto. Al contrario, nelle discipline storiche la minore esattezza del fatto non conduce di per sé a conseguenze nefaste. Vico scoprí veri stupendi lavorando su materiale limitato e viziato non solo dalla minore emendazione obiettiva, ma anche dalla tendenza della sua mente ad alterare le accolte testimonianze filologiche. La piú bella, anzi l'unica storia della letteratura italiana fu scritta dal De Sanctis quando si conoscevano assai meno fatti e assai meno vagliati di quelli che conosca adesso ogni mediocre studioso.

Sicché, per concludere, e tornando al barbarico gergo efficace, la «paziente industria del metodo induttivo» applicata alle discipline morali, non le costringe al massimo rendimento. Essa non ci può dare altro se non la emendazione del materiale. E non è questa, badiamo bene, una tara che si sia cosí scoperta nel metodo induttivo. Perché questa sua applicazione è una scimmiottatura: perché il metodo che serve a scoprir leggi, applicato dove leggi da scoprire non ci sono, non conserva piú la sua vera sostanza, ma conserva solo una esterna parvenza: non è piú metodo induttivo, bensí metodo ordinativo. Ora, l'ordinamento è una bella cosa, è, ripetiamolo, il primo gradino d'ogni studio; ma nell'ordinamento non si esaurisce lo studio. E tutti sentono che ben altre sono le vette a cui debbono aspirare le discipline morali.

E bene osserva il Buonaiuti che ciascuna disciplina e ciascun gruppo di discipline deve formarsi il suo metodo. E ciascuna, infatti, delle discipline morali, storia, letteratura, filosofia, dovrà crearsi nel proprio seno i proprî metodi e le proprie leggi: come difatti è avvenuto in passato, senza chiedere il permesso alla filologia scientifica. Ma se vogliamo poi trovare una disciplina e un metodo che accolga in sé, come sottordini, tutte quelle leggi e quei metodi, questa disciplina non sarà, no, la filologia col suo metodo ordinativo. Sarà la disciplina che ha per proprio cómpito lo studio d'ogni fenomeno del pensiero mediante i piú raffinati strumenti del pensiero: sarà la filosofia. Onde giusta è l'antica denominazione che chiamava filosofica la facoltà di lettere, che oggi si vorrebbe ribattezzare in filologica.

* * *

E di tutto questo ragionerò ampiamente nel mio prossimo volume, dove il Buonaiuti vedrà collocata anche materialmente, nel suo giusto luogo, e con le sue debite attribuzioni, la sana ed onesta filologia.

Ma fin d'ora voglio rispondere ad un altro appunto suo, che, del resto, e prima e dopo di lui, mi è stato rivolto e ripetuto centinaia di volte. Ed è questo. Che, a parte qualsiasi discussione teorica, la mia ribellione contro la micrologia filologica può indurre altri a trascurare il minimo accertamento dei fatti, anche nei casi e nelle fasi di studio in cui lo proclamo anche io indispensabile ed unico. Sicché si affacci il pericolo di tornare al periodo di ignoranza e di confusione, alla fabbrica di castelli in aria, che screditavano l'Italia di fronte agli stranieri, prima che prevalesse anche fra noi questo benedetto metodo scientifico.

Qui rispondo intanto, in via preliminare, che mi sembra mal vezzo, e d'indiretta importazione germanica, questo battezzare castelli in aria tutte le opere fiorite in Italia prima del sullodato metodo scientifico. Castelli in aria le opere di Genovesi, di Romagnosi, di Galluppi, di Verri, di Beccaria, di Micali, di Amari, di Vannucci, di Gioberti, di Rosmini, di De Sanctis, di Giuseppe Ferrari, di Cattaneo, e lasciamone tanti altri, e lasciamo i puri e grandi artisti, che rifulgono come stelle, e tutti li ammirano? Se gli stranieri d'allora traevano dalle opere di quegli uomini insigni argomento di scredito per l'Italia, peggio per loro: vuol dire che erano ignari o prosuntuosi. Se gl'Italiani d'oggi non leggono piú le loro opere, peggio per loro: vuol dire che sono incitrulliti e imbastarditi. Lasciamo andare, filologi scientifici e sofi rihegeliani: prima di spifferare certe sentenze, leggete un po', invece di tante contemporanee scipitezze alemanne, le opere dei nostri grandi.

Ma andiamo avanti. Io domando ora questo solo al Buonaiuti. Dato e non concesso che la irriverenza mia verso la filologia scientifica, dovesse incoraggiare questo o quello studioso a buttarsi sull'imbraca, e a far d'ogni erba fascio, ne discenderebbe forse la ineliminabile conseguenza che avessero a divenire babbei tutti quelli che debbono leggere, esaminare, o giudicare a effetti pratici le loro opere? Vi risulta forse, oh puri Scienziati, che nei concorsi ove ebbi l'onore di seder giudice al Vostro fianco, io mi sia compiaciuto mai di esaltare lavori retorici, gonfi, da acchiappanuvole? Anche qui avete giuocato sull'equivoco, e non onestamente. Ripensateci su, egregi Colleghi. E vedrete che fra Voi e me la differenza consisteva in ciò solamente. Che io soffiavo tanto sui castelli di carte italiane quanto su quelli di carte tedesche. Mentre Voi, non dico tutti, ma parecchi di Voi, quando al posto d'un pacifico re di coppe vedevano un macellaro kaiser di spade, chinavano riverenti la fronte e il ciglio, e quel castello di carte lo pigliavano per una rocca ciclopica.

Rinfoderate, cari Colleghi, rinfoderate questo patriottico timore che i miei principî possano indurre i giovani alla fannullonaggine. Anzi, la vostra «filologia scientifica» che, almeno in pratica, non va oltre alla raccolta dei fatti sgranati, alla minuta osservazione enumerativa, che Bacone dichiarava fanciullesca, questa filologia, esaltatrice, non senza proprio interesse, della inoperosa dottrina, consente, sotto le pompose apparenze, la profonda inerzia intellettuale. Ma nessuna inerzia consentono i principî miei, che in ogni ordine di disciplina morale richiedono pensiero, pensiero e pensiero.

* * *

Il fatto che il Buonaiuti, ad onta della indiscutibile sua buona fede ha frainteso alcuni degli appunti miei principali, mi dimostra poi chiaramente una cosa. Che cioè, piú che non dalle mie idee, egli è rimasto impressionato dalla forma impressa alle idee. Il modo l'ha offeso, piú che non la cosa. E tanto, che ha finito per vedere solo il modo, e per esempio, ha combattuto come affermato in linea perentoria ed assoluta il mio delenda philologia, che era invece temperato da parecchie modalità.

Ma di questo fatto io non mi rammarico: anzi me ne allieto, come d'un sintomo della prevagheggiata e preveduta efficacia del mio libro. Mi spiego subito.

Dice Pindaro che infiniti errori sono appesi alle menti degli uomini. Vorrò io forse immaginare che soltanto la mente mia vada scevra di tali ingombri? Davvero, io non esercito la professione dell'uomo modesto, che troppo sovente va a braccetto con la ipocrisia e con la interessosa volponeria; ma neppure nutro una cosí stolta presunzione. Però, prima di giudicare entro me una cosa, ne esamino i fondamenti: prima di esprimere il giudizio, ci penso su due volte: sicché non m'avviene di asserire nulla di cui non possa poi rendere le mie ragioni. Queste potranno parere buone o cattive, e sarò sempre grato a chi mi dimostrerà che erro. Ma non permetto che chicchesia venga, con arbitrario atto d'autorità, a tonarmi il quos ego.

Ora, avendo dedicato la mia vita agli studî dell'antichità classica, e parendomi che tali studî siano avviati in Italia su una strada falsa, da parecchi anni vado esponendo le mie ragioni, e cerco di richiamare i filologi ad una ordinata discussione intorno al carattere, alla ragion d'essere, e ai metodi che si convengono a tali studî[4].

Ma i filologi, no. I filologi, o, per meglio dire, un certo gruppo di filologi, che per lunghi e lunghi anni ha tenuto il mestolo delle cose classiche, aveva concepito il lavoro filologico come una pesante facchinata da compiere senza mai chiedere il perché. O, meglio, come una specie di corsa nel sacco. C'erano certi assiomi, e certe regolette e formulette, una specie di dottrinella filologica, che ciascun adepto doveva imparare e ripetere e giurare su quella, e poi, gambe e capo nel sacco, e via, avanti, avanti, a balzelloni, a sdruccioloni, a rotoloni. E se qualcuno tentava di fermarli, muto la metafora, si appallottolavano come tanti porcospini, e gli dardeggiavano contro velenosissimi aculei. Discutere? Rivedere i nostri assiomi? Distruggere i nostri dogmi? Béccati, iconoclasta, questa allusione! Succhièllati questa insinuazione! Giulèbbati questa calunnia!

Alla fine, mi sono seccato. Ora, che cosa si fa, quando un organismo è divenuto torpido, e non risponde piú ai farmachi usuali? Si pon mano ai rimedi eroici, agli eccitanti. E se gli eccitanti non bastano, se l'organismo pare addirittura insensibile, ci vuole il marchio rovente. Poniamo che il Delenda philologia sia stato questo marchio rovente.

Ho raggiunto lo scopo. I filologi, a quella bestemmia, hanno visto rosso, e, senza neppure leggere il capitoletto, si sono avventati a corna basse. E piú che io non sperassi. Gli opuscoletti, gli articoletti, le letterine ai Direttori non furono che un piccol cenno. Il giorno 8 luglio, la Società Atene e Roma s'è radunata in Assemblea solenne, e ha bandita una crociata contro lo Scimmione, affidando ai vari soci, con equa distribuzione, la fabbrica di «una collezione di volumetti — secondo un piano da stabilire con matura riflessione — che potranno anche essere polemici, purché serenamente concepiti e scritti, nei quali quelle questioni siano chiaramente e compiutamente esposte e discusse».

Le mie speranze sono di gran lunga sorpassate: non questo o quel filologo si è infine mosso a discutere; ma si è addirittura bandita una leva in massa di filologi. Benone. Avranno infine occasione di far lavorare un po' il cervello; e non può derivarne che un bene a loro e agli studî.

Ed ora, mentre la «riflessione matura», io faccio qui una profezia: che quando la minacciata Collezione d'opuscoli sarà completa, se ne potrà stralciare una preziosa antologia d'impertinenze contro il mio povero me; ma l'accordo fra me ed i miei oppositori sarà pienamente raggiunto.

Ché già fin d'ora, molti di essi, pure con l'aria e la convinzione di ferocemente combattermi, hanno aderito a parecchie delle mie idee e delle mie proposte pratiche. Alcune di queste adesioni si possono vedere in questo volume, nel capitolo sull'«Affrancamento della libreria italiana». Anche piú notevole è la conclusione d'un articolo in cui Giovanni Calò parla un po' per conto proprio, e un po', anche, dell'Atene e Roma (Marzocco, 29 aprile).

«Intanto si preparino gli studiosi, con tenacia di voleri e concordia di spiriti, a contribuire al risorgimento italiano degli studî umanistici. Nei quali, pur ispirandosi alla severità dei metodi che sono l'essenza della filologia germanica come d'ogni filologia, ma riducendo quant'è possibile il formulario algebrico di cui è cosí spesso ispida e oscura la filologia tedesca, evitando le eccessive pretese sistematiche e gli arbitrî congetturali abbastanza frequenti nella scienza tedesca, introducendo nell'indagine critica piú misura, piú buon senso, piú semplicità, utilizzando pur sempre l'esempio e l'opera dei nostri antichi umanisti, l'Italia potrà ancora una volta stampare una sua impronta non cancellabile».

Ora, lasciamo le bizze polemiche, e veniamo al sodo. Queste parole di Calò sembrano un'eco di talune pagine di «Minerva e lo Scimmione». Qui, come negli altri punti ch'io registro, l'accordo è raggiunto.

* * *

E questo è l'essenziale, questo è quello che mi importa. Non sono né cosí semplice né cosí vanitoso da sperare o da pretendere che altri repudi e confessi di repudiare le sue convinzioni per la forza dei miei argomenti. In verità, le convinzioni aderiscono alla nostra coscienza con grovigli di radici sentimentali e pratiche troppo fitti ed intricati perché possa reciderli mai lama di dialettica, per quanto salda e affilata. Se contro esse vediamo avventarsi la impalpabile e corroditrice schiera delle armi logiche, tutto l'intimo essere nostro insorge a difesa; e quanto piú vorranno stringerci al muro, tanto piú ci schermiremo e irrigidiremo; e la sofistica, lodi le siano rese ora e sempre, fornisce a tutti armi cosí manevoli e sottili, che chi si risolve ad impugnarle, difficilmente si vedrà costretto a chieder mercede.

Ma per fortuna, in queste schermaglie dialettiche accade spesso che, parato il colpo, rintuzzato l'avversario, il nostro pensiero, eccitato dall'assalto, si ripieghi su sé stesso, e venga indotto, quasi involontariamente, a meditare su quelle convinzioni. E allora può anche avvenire che ci balenino argomenti nostri, creduti nostri, per forza dei quali, pure escludendo ogni possibile connessione fra essi e quelli dell'avversario, ci risolviamo ad accogliere qualche temperamento della primitiva nostra convinzione. E non è raro il caso che il temperamento implichi addirittura un capovolgimento. Questo caso appunto sembra essersi avverato nei riguardi degli urbani miei oppositori. Onde io sopporto in pace le loro impertinenze. Perché, come ho detto ora esplicitamente, e come già avevo implicitamente dichiarato nel proemio alla prima edizione, piú che il chimerico ufficio di suasore, intendevo assumere l'altro, piú modesto, ma piú efficace, di provocatore logico.

* * *

E un altro scopo mi prefiggevo, oltre a quello di stimolar la riflessione dei dissidenti: quello di porgere armi a quanti concordano meco.

Le verità non si imparano solamente dai maestri né di sui libri, tomo per tomo, pagina per pagina: si possono anche afferrare di colpo, da pochi indizi e apparentemente remoti, grazie ad una rapida intuizione. Salvo che, in questo secondo caso, piú difficile riesce addurre le ragioni.

Ora, in Italia, dove l'intuizione e il buon senso fioriscono accanto al mirto, perennemente, molti e molti, pur senza essere iniziati nei misteri eleusini della filologia scientifica, intendevano e intendono che lí sotto si annida qualche grossa mistificazione. Ma, come ho detto, altro è intuire, altro è provare. E finora, quando un profano si arrischiava a sollevar qualche dubbio, saltava subito fuori un filologo babau, e gl'intimava silenzio. «Zitto lí, profano. A me la parola, ch'io sono uno scienziato». Adesso, spero, il giochetto sarà finito. Adesso il povero profano di buon senso, che non ha altro torto se non quello di non essersi tempestivamente sprofondato nei Jahrbücher, nei Beiträge, nei Sitzungsberichte, potrà sempre rispondergli: «No, sei tu un pappagallo». Vedi Minerva e lo Scimmione, capitolo tale, pagina tale.

* * *

Longanime lettore, non ti sgomentare. Butto via un fascio di cartelle, e concludo. Concludo con un ultimo appello ai filologi. Qualcuno mostrò disdegno e terrore dei molti, dei troppi non filologi, che avevano accolto festosamente il mio libro, e ai quali porgo qui i miei ringraziamenti vivissimi. Dove si va a finire, piagnucolavano quegli altri, se tutti vorranno parlare di filologia?

Non vi spaventate, cari Colleghi, non fate le zitelle ritrose. Non temete le discussioni. Quando in qualsiasi provincia di studio impera senza contrasto una scuola, quella provincia è prossima allo sfacelo. Lo spirito vive del contrasto. L'intorpidirsi delle idee in moduli prestabiliti, gli riesce fatale, come la stagnazione dell'acqua alla salubrità dell'aria. Nelle caverne, chiuse da cinquanta anni, della filologia italiana, lasciate che entrino a gran fiotti l'aria, la luce, i raggi del sole.

Allora sembreranno evidenti e naturali tante cose che ora sembrano arcane ed inconcepibili. Questa fra l'altre: che questo mio libro tanto incriminato non è se non una pura e semplice e modesta difesa del buon senso italiano. Di quel buon senso che lo sterile e prosuntuoso «metodo scientifico» ha ucciso da un pezzo in tutte le nostre scuole. E questa volta, senza neppure la curiosità di vedere com'era fatto.

Ma il buon senso non è morto. Giace riverso, mezzo fra torpido ed ebbro. E pei giorni venturi e per i nostri figli, noi lo vogliamo ridesto, limpido e vigile. E questo mio libro non deve essere una lamentazione funebre, bensí una squilla di risveglio, una diana italiana. Amici e nemici, levate con me il calice dell'auspicio!

Settembre 1917.

Minerva e lo scimmione

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