Читать книгу Una morte e un cane - Fiona Grace, Фиона Грейс - Страница 7

CAPITOLO DUE

Оглавление

Lacey era nel mezzo del suo lavoro di valutazione quando vide dalla finestra che finalmente Taryn si era decisa a spostare il suo enorme furgone, liberandole la veduta sul negozio di Tom dall’altra parte della strada. Le bandierine decorative del periodo pasquale erano state sostituite da festoni in tema estivo, e Tom aveva cambiato la sua vetrina di macaron, che ora mostrava la scena di un’isola tropicale. Macaron al limone costituivano la sabbia, circondati da un mare di diverse tonalità di blu: turchese (gusto zucchero filato), celestino (gusto gomma da masticare), blu scuro (gusto mirtillo) e blu navy (gusto lampone blu). Alte pile di macaron al cioccolato, al caffè e alle arachidi formavano la corteccia delle palme e le foglie erano state realizzate con del marzapane, altro materiale dolciario con cui Tom era bravo a lavorare. La vetrina era magnifica, per non parlare dell’acquolina che faceva venire in bocca, e attirava sempre una bella folla di entusiasti turisti a fare da spettatori.

Guardando attraverso la vetrina, Lacey vide Tom impegnato dietro al bancone, occupato a deliziare i suoi clienti con le sue dimostrazioni teatrali.

Lacey appoggiò il mento alla mano e si lasciò scappare un sospiro sognante. Fino ad ora le cose con Tom stavano andando alla grande. Stavano ufficialmente ‘uscendo insieme’, come Tom aveva scelto di descrivere la situazione. Durante la discussione che avevano avuto per dare una definizione alla loro relazione, Lacey gli aveva detto che secondo lei si trattava di un termine piuttosto infantile e inadeguato per due adulti, grandi e vaccinati, che si imbarcavano in una storia amorosa, ma Tom aveva sottolineato che, dato che non era un dipendente della Merriam-Webster – casa editrice per dizionari – la terminologia non era poi questo grosso dilemma. Lei aveva accettato quella puntualizzazione, ma aveva assolutamente rifiutato di farsi chiamare la sua ‘ragazza’, o di fare lo stesso con lui. Dovevano ancora decidere come rivolgersi l’uno all’altra, e di solito ricadevano su un neutro ‘caro’ e ‘cara’.

Improvvisamente si accorse che Tom la stava guardando e salutando con la mano. Lacey sobbalzò raddrizzandosi in piedi, sentendosi arrossire nella consapevolezza di essersi fatta beccare a guardarlo come una ragazzina con una cotta.

Il gesto di saluto di Tom si trasformò in un segnale d’invito, quindi Lacey si rese conto di che ora era. Le undici e dieci. L’ora del tè! E lei era in ritardo di dieci minuti per la loro consueta pausa delle undici!

“Andiamo, Chester,” disse velocemente, mentre il petto le si gonfiava per la trepidazione. “È ora di andare a trovare Tom!”

Praticamente corse fuori dal negozio, ricordandosi al volo di ruotare il cartellino ‘Aperto’, in modo che mostrasse l’avviso ‘Torno tra 10 minuti’, e chiudere la porta. Poi attraversò la strada di ciottoli saltellando verso la pasticceria, il cuore che le batteva a tempo con i passi, emozionata dalla presenza di Tom.

Non appena raggiunse la porta della pasticceria, il gruppo di turisti cinesi che Tom stava intrattenendo pochi secondi prima si riversò fuori dal negozio. Ciascuno teneva in mano una grossa borsa di carta marrone piena zeppa di deliziosi dolcetti, e tutti chiacchieravano e ridacchiavano tra loro. Lacey tenne pazientemente la porta aperta, aspettando che fossero usciti tutti quanti, e ognuno le rivolse un segno di ringraziamento chinando la testa.

Quando la via fu finalmente sgombera, Lacey poté entrare.

“Ciao, mia cara,” le disse Tom con un largo sorriso che illuminava il suo volto bello abbronzato, facendo comparire delle affascinanti rughe di espressione accanto ai suoi luccicanti occhi verdi.

“Vedo che i tuoi fan se ne sono appena andati,” disse Lacey scherzando e avvicinandosi al bancone. “E pare abbiano comprato un sacco di roba.”

“Mi conosci,” le rispose Tom ammiccando con le sopracciglia. “Sono il primo pasticcere al mondo con un fan club.”

Sembrava essere particolarmente di buon umore oggi, pensò Lacey. Non che avesse mai un aspetto scontento. Tom era una di quelle persone che sembravano godersi la vita, senza lasciarsi turbare dai soliti stress che abbattevano la maggior parte della gente. Era uno degli aspetti che Lacey adorava di lui. Era così diverso da David, che si sarebbe lasciato stressare da un nonnulla.

Lacey raggiunse il bancone e Tom si sporse in avanti per darle un bacio. Lacey si permise di perdersi in quel momento, ridestandosi solo quando Chester abbaiò, esprimendo il proprio disappunto per essere ignorato.

“Scusa, amico,” disse Tom. Si avvicinò quindi al cane e gli offrì un dolcetto ai semi di carruba, senza cioccolata. “Ecco qua. Il tuo preferito”.

Chester fece un solo boccone del biscottino, poi sospirò soddisfatto e si sdraiò sul pavimento, pronto per una pennichella.

“Ebbene, che tè c’è sul menù oggi?” chiese Lacey, sedendosi sul suo solito sgabello al bancone.

“Cicoria,” disse Tom.

Entrò nella cucina sul retro.

“Non l’ho mai preso prima,” commentò lei ad alta voce per farsi sentire.

“È senza caffeina,” rispose Tom dalla cucina, tra il rumore dell’acqua che scorreva e lo sbattere delle ante di una credenza. “E ha un leggero effetto lassativo se ne bevi troppo.”

Lacey rise. “Grazie per le dritte,” gli rispose.

La risposta alle sue parole fu il rumore di ceramica e il ribollire dell’acqua nel bollitore.

Poi Tom riapparve con un vassoio. Sopra erano disposti piattini, tazzine, zuccheriera e una teiera di ceramica.

Posò il vassoio sul bancone tra di loro. Come tutte le cose di Tom, nessun pezzo era abbinato: l’unico tema che li accomunava era la Gran Bretagna, come se ne avesse comprato ciascuno da una diversa anziana signora patriottica. La tazza di Lacey aveva sopra la foto della principessa Diana. Sul piattino c’era una frase di Beatrix Potter scritta in un delicato corsivo accanto all’immagine in acquerello dell’iconica anatra di Aylesbury – Jemima, Anatra de’ stagni – con il suo fiocco e lo scialle. La teiera aveva la forma di un elefante indiano pomposamente decorato, con le parole Piccadilly Circus stampate sulla sella di color oro e rosso acceso. La proboscide fungeva ovviamente da beccuccio.

Mentre il tè stava in infusione nella teiera, Tom usò delle pinze d’argento per selezionare dei croissant dalla vetrinetta del banco, posandoli poi su dei bei piatti dal motivo floreale. Fece scivolare quello di Lacey verso di lei, insieme a un vasetto della sua marmellata all’albicocca preferita. Poi versò per entrambi una tazza del loro tè fumante, si accomodò sul suo sgabello, sollevò la propria tazza e disse: “Cin cin.”

Con un sorriso Lacey acconsentì al brindisi. “Cin cin.”

Mentre sorseggiavano il tè insieme, Lacey ebbe un improvviso dejà vu. Non uno vero, come quando hai la convinzione di aver già vissuto quell’esatto momento prima, ma il dejà vu che deriva dalla ripetizione, dalla routine, dal rifare la stessa cosa di giorno in giorno. Le sembrava che avessero già fatto quella cosa, perché così era stato. Ieri, e il giorno prima, e quello prima ancora. In quanto entrambi impegnati nella gestione del proprio negozio, Lacey e Tom facevano spesso gli straordinari e lavoravano sette giorni su sette. Era tutto così naturale, un’abitudine, un ritmo. Ma c’era di più. Tom le aveva dato in automatico il suo croissant preferito – alle mandorle tostate – insieme alla marmellata di albicocca. Non c’era neanche più bisogno che le chiedesse cosa voleva.

La cosa avrebbe dovuto farle piacere, e invece la turbava. Perché era proprio come erano andate le cose all’inizio con David. Imparare i gusti l’uno dell’altro. Farsi a vicenda dei piccoli piaceri. Piccoli momenti di routine e ritmo che la facevano sentire come se fossero pezzi di un puzzle che stavano perfettamente insieme. Era stata giovane e sciocca e aveva pensato che le cose sarebbero sempre state così. Ma era successo solo per il periodo della luna di miele. La cosa si era consumata nel corso di uno o due anni, e a quel punto lei era già incastrata nel matrimonio.

Sarebbe andata così anche nella sua relazione con Tom? Un periodo di luna di miele che alla fine si sarebbe esaurito?

“Cosa pensi?” le chiese Tom, la voce che si intrometteva nel suo ansioso rimuginare.

Lacey quasi sputò il suo tè. “Niente.”

Tom inarcò il sopracciglio. “Niente? La cicoria ha avuto un impatto così limitato su di te che tutti i pensieri hanno abbandonato la tua testa?”

“Oh, intendevi la cicoria!” esclamò lei arrossendo.

Tom sembrava ancora più divertito. “Sì, di cos’altro dovrei parlare?”

Lacey posò maldestramente la tazza di Diana sul piattino, sbattendola con un po’ troppa forza. “Buono. Ha un retrogusto di liquerizia. Gli do otto.”

Tom fischiò. “Wow. Voto alto. Ma non basta per rubare il podio all’Assam.”

“Ci vuole un tè eccezionale per battere l’Assam.”

Il suo momentaneo terrore che Tom potesse leggere nel pensiero svanì, e Lacey riportò la propria attenzione alla colazione, assaporando i sapori della marmellata di albicocche fatta in casa, combinata con le mandorle tostate e il delizioso impasto al burro. Ma anche quel cibo gustoso non poteva impedire che la sua mente si arrovellasse con pensieri della conversazione che aveva avuto con David. Era la prima volta che sentiva la sua voce da quando se n’era frettolosamente andato dal loro appartamento nella Upper East Side con la sua dichiarazione di separazione che diceva: “Ti contatterà il mio avvocato!”, e qualcosa nel suono della sua voce le aveva ricordato che meno di un mese fa era stata una donna sposata relativamente felice, con un lavoro stabile, un salario e una famiglia vicina nella città doveva aveva sempre vissuto. Senza neanche sapere che lo stava facendo, aveva isolato la sua vita passata a New York erigendo una solida parete nella propria mente. Era una strategia che aveva elaborato da bambina quando aveva dovuto gestire il dolore per l’improvvisa scomparsa di suo padre. Evidentemente, sentire la voce di David aveva scosso le fondamenta della parete.

“Dovremmo andare in vacanza,” le disse Tom improvvisamente.

Ancora una volta, Lacey sputò il cibo che aveva in bocca, ma Tom evidentemente non lo notò, perché continuò a parlare.

“Appena torno dal mio corso sulla focaccia, dovremmo concederci entrambi una pausa. Abbiamo lavorato tantissimo, ce lo meritiamo. Possiamo andare alla mia città natale, nel Devon, così ti posso mostrare tutti i posti che adoravo da bambino.”

Se Tom l’avesse suggerito ieri, prima della sua chiamata con David, Lacey avrebbe potuto probabilmente farci un pensierino. Ma improvvisamente l’idea di fare progetti a lungo termine con il suo nuovo compagno – anche se si trattava solo di una settimana – le sembrava un grosso rischio. Ovviamente Tom non aveva nessun motivo per non essere così sicuro della sua vita. Ma Lacey stessa aveva davvero divorziato da poco. Era entrata nel mondo relativamente stabile di Tom in un momento in cui ogni singolo pezzo della sua esistenza era stato invece devastato: il suo lavoro, la sua casa, il suo paese e addirittura il suo stato sentimentale! Era passata da fare da babysitter a suo nipote Frankie, mentre sua sorella Noemi passava da un appuntamento disastroso all’altro, all’occuparsi delle pecore che venivano a brucare nel suo giardino. Dall’essere comandata a bacchetta dalla sua capa Saskia nella ditta di interior design dove lavorava, ai viaggi nei negozi di antiquariato di Mayfair a Londra con la sua particolare vicina di casa, sempre avvolta nel suo cardigan, e con due cani da pastore al seguito. Erano stati un sacco di cambiamenti da metabolizzare in così poco tempo, e lei non era del tutto certa di dove fosse ora la sua mente.

“Dovrò vedere quanto sono impegnata con il negozio,” rispose con fare noncurante. “L’asta mi sta richiedendo più lavoro di quanto pensassi.”

“Certo,” disse Tom, apparentemente ignaro dei suoi reali pensieri. Cogliere sottigliezze e sottotesti non sembrava essere il suo forte, e questa era un’altra cosa che Lacey apprezzava di lui. Lui prendeva tutto quello che lei diceva come sacrosanta verità. Diversamente da sua madre e sua sorella, che andavano a vivisezionare ogni singola parola che lei diceva, per Tom non c’era nessun tentativo di indovinare o interpretare secondi significati. Quello che vedeva era quello che coglieva.

Proprio allora il campanello sopra alla porta tintinnò e lo sguardo di Tom scattò oltre la spalla di Lacey. Lei guardò la sua espressione trasformarsi in una smorfia, prima di riportare gli occhi su di lei.

“Fantastico,” mormorò sottovoce. “Mi stavo chiedendo quando sarebbe stato il mio turno di ricevere una visita da Pincopanco e Pancopinco. Devi scusarmi.”

Si alzò e fece il giro del bancone.

Curiosa di vedere chi potesse suscitare una reazione così viscerale da parte di Tom – un uomo che era noto per la sua tranquillità e gradevolezza – Lacey ruotò sul suo sgabello.

I clienti che erano entrati nella pasticceria erano un uomo e una donna, e sembravano essere appena usciti da set di Dallas. L’uomo indossava un abito celeste e un cappello da cowboy. La donna – molto più giovane di lui, da quanto notò Lacey, come sembrava piacere a un buon numero di uomini di mezza età – aveva un due pezzi rosa fucsia, tanto sgargiante da far salire il mal di testa, e in terribile contrasto con i suoi capelli biondi alla Dolly Parton.

“Ci piacerebbe fare degli assaggi,” disse l’uomo con tono forte e deciso. Era americano e i suoi modi spicci sembravano fuori posto nella piccola e pittoresca pasticceria di Tom.

Cavolo, spero di non dare quest’impressione a Tom quando parlo, pensò Lacey con leggero nervosismo.

“Certo,” rispose Tom con cortesia, la risposta intensificata dal tono britannico della sua voce. “Cosa vi piacerebbe provare? Abbiamo pasticcini e…”

“Oh, Buck, no,” disse la donna a suo marito, tirandogli il braccio al quale stava aggrappata. “Sai che mi gonfiano. Chiedigli qualcos’altro.”

Lacey non poté fare a meno di inarcare un sopracciglio guardando quella strana coppia. La donna era forse incapace di fare la domanda da sola?

“Avete della cioccolata?” chiese l’uomo che era stato chiamato Buck. O meglio, ordinò, dato che il suo tono era decisamente zotico.

“Certo,” disse Tom, mantenendo in qualche modo la tranquillità di fronte al signor Vocealta e a quella sua ostrica di moglie.

Mostrò loro la vetrinetta delle cioccolate con un gesto della mano. Buck ne afferrò un pezzo e se lo infilò dritto in bocca.

Quasi immediatamente sputò. Il pezzetto appiccicoso e mezzo masticato finì sul pavimento.

Chester, che era rimasto del tutto in silenzio ai piedi di Lacey, saltò improvvisamente in piedi e vi si lanciò sopra.

“Chester, no,” gli ordinò lei con voce ferma e autoritaria a cui il cane sapeva di dover obbedire. “Veleno.”

Il pastore inglese la guardò, poi rivolse ancora un pietoso sguardo alla cioccolata e alla fine tornò al suo posto, ai piedi di Lacey, con l’espressione di un bambino deluso.

“Ehi, Buck, c’è un cane!” gemette la bionda. “È così poco igienico.”

“L’igiene è l’ultimo dei suoi problemi,” disse Buck con tono beffardo, voltandosi a guardare Tom che ora aveva in volto un’espressione leggermente mortificata. “La vostra cioccolata sa di spazzatura!”

“La cioccolata inglese e quella americana sono diverse,” disse Lacey, sentendo il bisogno di lanciarsi in difesa di Tom.

“Lasci perdere,” rispose Buck. “Ha un sapore orribile! E la regina mangia questa schifezza? Se devo proprio dirlo, le servirebbero dei buoni prodotti importati.”

In qualche modo Tom riuscì a mantenere la calma, anche se Lacey stava davvero fumando per l’atteggiamento di entrambi gli avventori.

Quell’uomo bruto e quella miserabile smorfiosa di sua moglie uscirono dal negozio e Tom prese una salvietta per pulire la cioccolata sputata che si erano lasciati dietro.

“Che maleducati,” disse Lacey incredula mentre Tom puliva.

“Stanno al B&B di Carol,” spiegò guardandola dalla sua posizione accucciata a terra, mentre strofinava in cerchio la salvietta sulle piastrelle. “Ha detto anche lei che sono orribili. L’uomo, Buck, rimanda in cucina ogni singola cosa che ordina da mangiare, dopo averne mangiata mezza, sia ben chiaro. La moglie continua a lamentarsi che shampoo e saponi le fanno venire delle irritazioni, ma ogni volta che Carol le dà qualcosa di nuovo, i precedenti sono misteriosamente spariti.” Si alzò scuotendo la testa. “Stanno facendo impazzire tutti.”

“Huh,” disse Lacey, ficcandosi in bocca l’ultimo pezzetto di croissant. “Allora mi dovrei considerare fortunata. Dubito che si interessino di antiquariato.”

“Tocca ferro, Lacey. Non vorrai richiamarti addosso il malocchio.”

Lacey stava per dire che non credeva a superstizioni del genere, ma poi pensò all’anziano di prima e alla ballerina, e decise che era meglio non sfidare il fato.

“Okay, sto zitta. Malocchio, restatene a casa tua. Ora farò meglio ad andarmene. Ho ancora un sacco di oggetti da valutare prima dell’asta di domani.”

La campanella suonò ancora e Lacey vide un bel gruppo di bambine che entrava di corsa. Erano vestite da festa e avevano dei cappellini in testa. In mezzo a loro c’era una bimba bionda e paffuta con un vestito da principessa e un palloncino all’elio in mano che gridava al vento: “È il mio compleanno!”

Lacey si voltò verso Tom con un sorrisino beffardo in volto. “A quanto pare sei abbastanza impegnato qui.”

Lui sembrava stupito e piuttosto apprensivo.

Lacey saltò giù dallo sgabello, gli diede un fuggevole bacio sulle labbra e lo lasciò alla mercé di quella mischia di ragazzine di otto anni.

*

Tornata al negozio, Lacey si rimise a valutare gli ultimi articoli navali per l’asta di domani.

Era particolarmente emozionata di un sestante che aveva recuperato da un posto completamente improbabile: una vendita di beneficienza. Ci era entrata solo per comprare la console retrò per videogiochi che avevano messo in vetrina – un oggetto che sapeva sarebbe piaciuto un sacco a suo nipote Frankie, ossessionato dai computer – e lì l’aveva visto. Un sestante a doppia cornice del diciannovesimo secolo, rivestito di mogano e con il manico in ebano! Era appoggiato su uno scaffale tra tazze di scarso valore e alcuni vomitevoli modelli di orsacchiotti.

Lacey non aveva creduto ai propri occhi. Era una novellina dell’antiquariato, dopotutto. Una scoperta del genere poteva appartenere solo alle sue più recondite speranze. Ma quando si era avvicinata per guardare meglio, aveva visto che sotto alla base erano state inscritte le parole ‘Bate, Poultry, Londra’, che le confermarono che stava tenendo in mano un raro originale Robert Brettell Bate!

Lacey aveva subito chiamato Percy, sapendo che sarebbe stata l’unica persona al mondo a provare la stessa emozione che aveva lei in corpo in quel momento. Aveva avuto ragione. La reazione dell’uomo era stata quella di un bambino che si sveglia la mattina di Natale.

“Cosa intendi farne?” le aveva chiesto. “Dovrai fare un’asta. Un oggetto raro come quello non si può semplicemente mettere in eBay. Merita maggiore riguardo.”

Sebbene Lacey fosse sorpresa di scoprire che uno dell’età di Percy sapesse cosa fosse eBay, la sua mente era rimasta aggrappata alla parola asta. Poteva farlo? Organizzarne un’altra così presto dopo la prima? Nella precedente aveva avuto un’intera magione piena di mobili in stile vittoriano da vendere. Non poteva tenere un’asta solo per questo oggetto. E poi le sembrava immorale comprare un oggetto antico da una vendita di beneficienza, sapendo quale fosse il suo reale valore.

“Lo so,” aveva quindi risposto, colpita da un’idea. “Userò il sestante come esca, come maggiore attrazione di un’asta generale. Poi, qualsiasi guadagno io tragga dalla sua vendita, potrà andare a questo negozio.”

Questo avrebbe risolto due dilemmi: la spiacevole sensazione di comprare qualcosa a un costo di molto inferiore al reale valore, e cosa fare dell’oggetto non appena ne fosse entrata in possesso.

E così l’intero piano aveva preso forma. Lacey aveva comprato il sestante (e la console, che nell’eccitazione aveva quasi dimenticato di portarsi a casa), decidendo il tema navale per l’asta. Poi si era messa al lavoro, curando l’organizzazione e facendo pubblicità.

Il campanello sopra alla porta suonò, risvegliando Lacey dai suoi sogni a occhi aperti. Lei sollevò lo sguardo e vide la sua vicina di casa, Gina, con i suoi capelli grigi e il solito cardigan, che entrava in negozio con Boudicca, il suo Border Collie, al seguito.

“Cosa ci fai qui?” le chiese. “Pensavo ci dovessimo vedere per pranzo.”

“Giusto!” rispose Gina, indicando un grosso orologio in ottone e ferro battuto che stava appeso alla parete.

Lacey si voltò a guardare. Insieme a tutto ciò che si trovava nell’Angolo Nordico, l’orologio era tra i suoi elementi decorativi preferiti in negozio. Era un pezzo di antiquariato (ovviamente) e pareva che un tempo fosse stato appeso in una fabbrica vittoriana.

“Oh,” esclamò notando finalmente l’ora. “È l’una e mezza. Di già? La mattinata è volata.”

Era la prima volta che le due amiche avevano pianificato di chiudere il negozio per un’ora e avere un pranzo come si deve insieme. ‘Pianificato’ nel senso che Gina aveva versato a Lacey un po’ troppo vino una sera e aveva insistito alla grande, fino a convincerla ad accettare. Era vero che praticamente ogni persona del posto o visitatore a Wilfordshire passava comunque la pausa pranzo in una caffetteria o in un pub, piuttosto che venire a guardare le mensole di un negozio di antiquariato, e che era molto improbabile che l’ora di chiusura interferisse in maniera negativa sugli affari di Lacey, ma ora lei era venuta a sapere che oggi era festa nazionale e iniziava ad avere dei ripensamenti.

“Forse dopotutto non è una buona idea,” disse Lacey.

Gina si mise le mani sui fianchi. “Perché? Che scusa ti è venuta in mente adesso?”

“Beh, non mi ero accorta che fosse festa oggi. C’è in giro un sacco di gente in più rispetto al solito.”

“Un sacco di gente, un sacco di clienti,” disse Gina. “Perché ciascuno di essi tra dieci minuti sarà seduto dentro a una caffetteria o a un pub, proprio come noi! Andiamo, Lacey. Ne abbiamo parlato. Nessuno viene a comprare antiquariato in pausa pranzo!”

“E se ci fossero degli europei?” chiese Lacey. “Sai che nel vecchio continente fanno tutto più tardi. Se cenano alle nove o alle dieci di sera, allora a che ora pranzano? Probabilmente non all’una!”

Gina le posò le mani sulle spalle. “Hai ragione. Ma quelli passano la pausa pranzo facendo una pennichella. Se ci sono dei turisti europei, fra un’ora saranno bell’è addormentati. Per metterla in parole semplici, in modo che te lo ficchi bene in testa: niente shopping nei negozi di antiquariato!”

“Ok, va bene. Allora gli europei dormono. E se sono venuti da più lontano e i loro orologi biologici sono ancora sfasati, quindi non hanno fame per pranzo e hanno invece voglia di andare a comprare qualche oggetto antico?”

Gina incrociò le braccia. “Lacey,” disse con tono materno. “Hai bisogno di una pausa. Ti distruggerai se passi ogni singolo minuto di ogni giorno dentro a queste quattro mura, per quanto possano essere artisticamente decorate.”

Lacey corrucciò le labbra. Poi posò il sestante sul bancone e si diresse con Gina verso la porta. “Hai ragione. Che danno può davvero fare una sola ora?”

Erano parole di cui Lacey si sarebbe pentita molto presto.

Una morte e un cane

Подняться наверх