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I FRANCESI IN ITALIA (1796-1815)

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CONFERENZA DI Vittorio Fiorini

Signore, signori.

Saranno cento anni compiuti fra pochi giorni.

Il 27 di questo medesimo mese di marzo, il cittadino generale Bonaparte, prendendo il comando di quell'esercito d'Italia che per tre anni continui aveva tentato indarno di rompere la cerchia delle Alpi occidentali, a' suoi soldati “mal nutriti e quasi ignudi„ additava, novello Annibale – e ne aveva l'età ed il precoce genio guerresco – “le fertili pianure, le ricche provincie, le grandi città della penisola„ e prometteva che laggiù li avrebbe tratti a trovarvi “onore, gloria, ricchezze„.

Da quel giorno si apre uno strano e tumultuoso periodo della vita italiana, e si chiude soltanto quando, dopo un'epica lotta, a due riprese rinnovata, il Bonaparte – non più semplice generale ma Cesare – fu ridotto all'impotenza: e ci vollero, per trascinarlo nella rovina dell'immane edificio eretto dall'imperiosa volontà di lui, “l'inestinguibil odio„ che per ogni dove la sua fortuna ed il prepotere avevano acceso, e le forze dell'Europa intiera coalizzate contro lui solo: e parve che soltanto l'onda sterminata del grande Oceano avesse potenza di costringere tanta energia nell'inerzia.

Dal 1796 al 1815 son diciannove anni soltanto – neppure la quinta parte di un secolo – ma sono anni che valgono da soli quanto un secolo di storia: tanto è il moltiplicarsi degli avvenimenti, il succedersi incessante di uomini, di istituzioni, di Stati, l'irrompere affollato e precipitoso ed il cozzare vigoroso di idee nuove e vecchie, del paradosso temerario coi suggerimenti del prudente buon senso, dell'audacia con la paura: e tanto feconda di conseguenze sembra questa età ed irti di difficoltà i problemi che presenta allo storico, il quale voglia darne sicuro giudizio e determinarne gli effetti. È un dramma che si interpone bruscamente, quasi ciclone turbinoso, fra la calma di due età di lunga pace: quella che tien dietro alle guerre di successione ed alla Pace di Aquisgrana, e che quietamente operosa lavora ad una graduale trasformazione della società a beneficio e per opera del principato assoluto: e quella che dopo il tumulto violento delle guerre napoleoniche ed il non meno violento equilibrio imposto dalle paci di Vienna e di Parigi, sembra adagiarsi paurosa e fiacca per stanchezza ed esaurimento sotto l'occhio vigile e sospettoso della polizia austriaca e dell'assolutismo. Dramma che è compiuto in sè e che per atti e peripezie diverse si svolge parallelo allo svolgersi della vita e della gloria del grande Capitano, il quale lo ha iniziato e ne rimane sino all'ultimo il protagonista. Anche il dramma italiano prende le mosse dal proclamare in nome della libertà e dell'eguaglianza la distruzione di tutte le forme monarchiche ed aristocratiche della vita politica e sociale, poi passo passo ritorna sulle vie del passato e riconduce la società, per una gerarchia d'uomini nuovi e di nomi vecchi, entro la cerchia senza uscita di una monarchia assoluta che si drappeggia nei ricordi di Augusto e di Carlo Magno. Allora la catastrofe precipita: e come nei drammi del buon tempo antico precipita con soddisfazione generale. Tolto di mezzo il personaggio perturbatore che aveva annodato l'intreccio e ne teneva le fila, ogni equivoco si dissipa, cessano i contrasti, uomini e cose tornano al loro posto e la vita, momentaneamente deviata dal suo corso, sembra ritrovare il suo letto.

Ma è proprio l'antico letto? e la vita va ancora dello stesso passo? Si tratta davvero di un episodio improvviso, passeggiero e che resta isolato o ha esso radici nel passato e rami fruttiferi nell'avvenire? E quali son questi e dove erano quelle? Quanta parte di quella coscienza nazionale che ha dato le forze all'Italia nuova e la volontà di costituirsi una ed indipendente, dobbiamo rintracciare e riconoscere in questa età breve ma piena di passione e di vita e nella quale per la prima volta il popolo italiano sembra scuotere il sonno di lunghi secoli d'inerzia per acquistare coscienza di sè? E sopratutto quanta parte di questi avvenimenti non sono che riflesso della volontà di Napoleone e per quanto invece si riflettono nella vita e nella gloria di lui? Poichè se vi è nella storia personaggio del quale riesca difficile determinare la linea di reciproca influenza che l'individuo ed i tempi esercitano l'uno sull'altro, questi è Napoleone.

Affrontare siffatti ed altri non meno complessi problemi, che mi si affacciano alla mente, costringere in un solo quadro tutte le figure e tutte le scene di questa età non sarebbe possibile nel breve spazio di tempo che la pazienza degli uditori suole concedere ad una conferenza e sarebbe, d'altra parte, impresa superiore alle mie forze. Poichè alle egregie persone che compongono il Comitato di queste pubbliche letture, è piaciuto mescolare il mio nome oscuro con quelli d'uomini che meritamente già illumina la fama, conviene che lor signori ne portino le conseguenze: a me – lo confesso – è mancato il coraggio di respingere l'onore di parlar dinanzi a così eletta riunione e nella città che una troppo breve dimora nei miei anni di studio ha reso carissima al mio cuore. Nè hanno valso a trattenermi – ed ora me ne vergogno e me ne pento – la certezza di trovar qui, chiamati dalla squisita cortesia dell'animo loro, alcuni de' miei più venerati maestri ed il timore di dovere affrontare il giudizio di chi ha per sempre legato il proprio nome alla storia di questi tempi: voi intendete che io parlo di Augusto Franchetti, il quale, primo fra noi, di questa difficile età ha rivelato l'anima e ne ha narrati gli avvenimenti con larghezza nuova di vedute e di ricerche e con toscana eleganza di forma.

Perchè più lieve sia il danno vostro e minore il pericolo mio, io voglio che il mio ufficio si restringa a disegnare la cornice di questa età o, se più vi piace, a presentarvi il rude canovaccio su cui potrete collocare le figure e le scene che collo svolgersi di questa serie di letture vi passeranno sotto gli occhi.

*

Quel che dall'Alpi ora discende

D'armi e d'armati inondator torrente

Ceppi a noi reca o libertà ci rende?


Così, “chiaroveggente testimone de' tempi„ domandava in un sonetto Lazzaro Papi, che più tardi della Rivoluzione francese narrò con rara temperanza di giudizio i Commentari. – Reca libertà – già da un pezzo e anticipatamente (appena conquistata la Savoia) aveva risposto per bocca del cittadino Grégoire la nazione francese. – Libertà per tutti i popoli come a fratelli, guerra e morte a tutti i governi come a nemici! E la Convenzione Nazionale, consacrando queste parole del vescovo costituzionale nelle solenni forme di un decreto, aveva promesso “aiuto e fratellanza a tutte le genti che la libertà volessero ricuperare„. Nè da quel dì la promessa era stata ripetuta poche volte; e la repubblica batava era sorta a mostrare come la repubblica francese cominciasse a mantenerla.

Ma questa Libertà che il Presidente della Convenzione già rappresentava “assisa sul Monte Bianco in atto di stendere, sovrana del mondo, le mani trionfali alle nazioni di tutto l'universo risorte a nuova vita al suono della sua voce„, gli Italiani la guardavano con diffidenza, perchè la vedevano venire armata di baionette e di cannoni, perchè temevano che dietro di lei irrompesse anche fra noi, intonando il Ça ira, la turba degli scamiciati energumeni che avevano fatte le loro prove nelle vie di Parigi e nelle sale della Convenzione e dell'Hôtel de la Ville.

Poichè nella maggioranza del popolo italiano la rivoluzione aveva sopratutto destato un senso di orrore e di terrore: gli italiani erano stati colpiti dal suo carattere di irreligiosità, dalla frenesia di ribellione contro tutto e contro tutti che pareva avesse invaso la popolazione francese e dal sempre insaziato bisogno di distruzione che traeva i cittadini furibondi alla strage ed alla rovina di tutte le istituzioni divine ed umane. A chi è avvezzo a scivolare senza scosse lungo la china della vita, adagiandosi pigro e felice nel beato benessere che procura la tranquillità uniforme di uno spirito rassegnato alla nullità della propria sorte e la persuasione che non avrà bisogno neppure di alzare un dito per giungere pari pari fino in fondo, anche la più piccola novità dà ombra e fa paura. Tale era la condizione degli animi nelle moltitudini italiane. L'abitudine ininterrotta di piegare il capo remissivo dinanzi al principio d'autorità, da chiunque o comunque fosse rappresentato, e di lasciarsi guidare, sempre rassegnati, dalla volontà altrui, avevano fiaccato nei più ogni forza di iniziativa, distrutto ogni istinto di azione diretta a mutare in meglio le condizioni della società.

Dio – e per lui migliaia di preti, di frati e di monache forti di dogmi immutabili e di non meno immutabili superstizioni o privilegi – il monarca – e per lui una folla di padroni, tutti armati di leggi e di spade, dal vicerè, dal governatore, dal nobile all'ultimo bravaccio di soldato – avevano in custodia la società per consenso di generazioni e generazioni: e della loro vigilanza, fosse pur prepotente e molesta, le moltitudini non sapevano più fare a meno. Certo vi erano sofferenze, abusi, miserie, dolori, ingiustizie: ma anche il male e la miseria hanno le loro risorse e creano abitudini cui il lungo tempo affeziona, sicchè alla fine spiace lasciarle. Del resto, in tanto volger d'anni, ciascuno aveva trovato – bene o male – il modo di fare il proprio comodo: perchè dunque mutare? perchè rompere, con novità e per desiderio di un meglio incerto, la quiete monotona ma tranquilla di una vita senza cure?

Perciò quando il soffio di idee più liberali e più umanitarie, movendo dalla Francia, aveva commosso tutta l'Europa ed era passato, attraversando anche la nostra penisola, sopra la morta gora di questo popolo beato del suo sonno, i più alti, nobili e colti intelletti avevano bensì aspirato a larghi polmoni questa nuova aura vivificatrice, e d'un tratto v'erano fatti con ardore febbrile e con instancabile attività propugnatori con gli scritti ed esecutori con leggi e decreti di un movimento sociale più conforme al genio dei tempi ed ai bisogni della universalità del popolo; ma nulla aveva potuto scuotere la gran massa, per inerzia sua conservatrice, della popolazione italiana: nè la penna eloquente o la parola persuasiva dei più profondi pensatori, nè il consenso della parte più eletta della borghesia, della nobiltà e del clero; e neppure la volontà risoluta e spesso generosa fino al sacrificio di principi e di ministri.

Indifferente, dapprima essa lasciò fare: poi, quando l'urto fra i diritti laici della società civile ed i privilegi ecclesiastici pose di nuovo a fronte Chiesa e Stato, diventò alle riforme apertamente ostile. Le popolazioni – specialmente quelle delle campagne, fra le quali più radicate e meno razionali sono le consuetudini religiose ed ascoltatissima sempre fu la parola de' parroci – non esitarono a persuadersi che tutte queste novità erano malvagio suggerimento del demonio, che ereticali erano le dottrine che venivan d'oltralpe e pieno di pericoli l'accettarle.

Non pareva che appunto per dar ragione ai loro timori venissero i terribili procedimenti della rivoluzione di Francia? E sembrò che a questa opinione non il volgo soltanto, ma anche le classi sociali più colte e gli stessi più caldi propugnatori delle riforme si lasciassero condurre.

Stormi di preti francesi venivano ogni giorno fra noi fuggendo l'imposto giuramento e si annidavano nelle maggiori città d'Italia prima di raccogliere il volo – quasi tutti – nel seno della Chiesa di Roma: principi di sangue, nobili di razza, fedeli servitori del re portavano fra noi, emigrando, il loro terrore ed i loro propositi di vendetta. Attraverso i racconti pieni di odio di questi fuggenti, nelle narrazioni esagerate delle Gazzette, dei Monitori, dei Mercuri del tempo e ingrossando poi di bocca in bocca, giungevano alle plebi maravigliate, penetravano entro le pareti tranquille ove patriarcalmente le famiglie borghesi, ogni sera, da anni ed anni si raccoglievano a giuocare a tarocchi, o nei salotti dove Clori, tra una tazza di caffè ed un minuetto, ascoltava sorridendo dietro il ventaglio i complimenti arcadici della sua corte amorosa, notizie che riempivano di sgomento, di stupore e di sdegno: la Bastiglia era presa; il re era fuggito, preso, arrestato, processato, poi morto cristianamente sul patibolo; i preti assassinati a centinaia; le prigioni invase da una folla di sgozzatori. E tutto questo in nome della libertà: oh libertà odiosa!

Chiuder un Re in prigion senza perchè,

Toglier la Religione e la Pietà,

Far tanto un Regno intero uscir di sè

Che ne scanni metà l'altra metà:

Di florido che fu, guari non è,

Ridurlo al verde, alla mendicità,

Senza pan, senza onore, senza fè,

Da far orrore alla posterità;

Spogliare uccider dove mette il piè,

Abusar d'ogni eccesso, d'ogni età

Turbare i Regni, assassinare i Re;

La Libertà francese ecco che fa.

Ah tenga, o Roma, il Ciel lungi da te

Quest'empia e detestabil libertà.


Questo sonetto e molti altri che allora corsero di mano in mano, manoscritti e stampati, e i numerosi opuscoli che in quegli anni sfornarono, a migliaia di copie, le officine tipografiche di Foligno e di Roma stanno a mostrare quanta ripugnanza per le riforme e per la rivoluzione di Francia era nella generalità del popolo italiano. Certo non mancarono neppure fra noi teste esaltate – giovani specialmente – che si lasciarono guadagnare dall'audacia delle nuove dottrine e dalle persuasioni degli emissari francesi i quali volontari o mandati percorrevano l'Italia. Qua e là furono affissi alle mura anonimi inviti al popolo per chiamarlo a libertà; vi furon tumulti; nella nobiltà e nella borghesia non mancarono i malcontenti che in segreto speravano e nei colloqui fidati manifestavano la speranza di una prossima mutazione di cose: v'è traccia di club organizzati, di cospirazioni pronte a scoppiare. Emanuele de Deo ed una nobile schiera di giovani a Napoli ed a Palermo, Luigi Zamboni e Giambattista de Rolandis a Bologna pagarono con la vita il loro entusiasmo per le cose di Francia: altri ebber carcere o cercaron salvezza nell'esilio. Ma sono casi isolati: la gran massa del popolo non risponde agli inviti, non comprende questo entusiasmo per ciò che le desta orrore, assiste indifferente al castigo di chi dice di morire per la libertà di essa. Quando il popolo si muove è soltanto per manifestare odio violento contro i francesi: gode delle loro sconfitte, li insulta e li deride ne' suoi versi, corre anche al sangue: basti ricordare per tutti il nome dell'infelice Basville.

Del resto, finchè il Bonaparte non ebbe con le sue vittorie portata la rivoluzione fra noi e rotto l'incantesimo, non v'era alcuno in Italia, nè principe nè popolo, che non fosse certo della vittoria finale delle armi dell'Europa coalizzate. Dio ci prova: Dio alla fine deve vincere! si era sempre affermato: ma col Bonaparte era venuto per tutti il momento di dubitare e di domandarsi, come faceva il Papi, che cosa stava per accadere.

*

E dal canto suo, con quali intendimenti il Bonaparte poneva il piede in questa penisola donde, non più di dieci generazioni innanzi, erano usciti gli avi suoi che ai tempi del “popolo vecchio„ avevano seduto nei Consigli del Comune di Firenze e poi avevano partecipato alle gloriose e dolorose vicende della parte ghibellina di Toscana? In lui, che ora scende facile promettitore di libertà e rigido partigiano di democratica eguaglianza e che fra pochi anni tornerà restauratore dell'impero, parla ancora qualche voce del sangue antico memore dei tempi, nella lor rude semplicità felici, del viver riposato che Dante rimpianse per il Comune fiorentino, o fermentano ancora l'odio tenace e le speranze sempre rinnovate dei ghibellini, cui alimentavano il triste esilio e la grandiosa visione dell'aquila imperiale trionfante?

Non ignorava il Bonaparte queste vicende: i manoscritti laurenziani che per le cure del nostro Biagi e del signor Masson hanno di recente rivelato un Napoleone ancora sconosciuto, mostrano che nello studio quasi esclusivo della storia, leggendo, analizzando, riassumendo instancabile le opere di numerosi scrittori, si è venuta formando tra il 1786 e il 1792 la mente politica di lui, quale più tardi si rivela sul campo dell'azione. E fra gli appunti allora raccolti piace vedere un estratto di quella parte del secondo libro delle Istorie del Machiavelli dove è narrato dell'origine del Comune di Firenze e delle prime contese fiorentine fra guelfi e ghibellini fino all'ultima cacciata di questi.

Ma non quei lontani ricordi domestici, nè questi più recenti studi, ai quali si direbbe che talvolta, sia pur inconsciamente, obbedisca il genio di quel grande, parlavano alla mente di lui quando ai suoi soldati mostrava come campo di conquista l'Italia. Nè ritornando alla patria degli avi suoi, lo occupava il proposito, che più tardi, quando la mente ammaestrata dall'esperienza ritornava “ai dì che furono„, volle far credere essere stato il fine ultimo delle sue azioni politiche in Italia: e cioè di rinnovarne le glorie antiche e di prepararle quell'avvenire che nei pentimenti dell'esilio divinava non lontano e per il quale tutti i popoli della penisola, per comunanza di linguaggio, di costumanze, di letteratura formanti una sola nazione, dovevano riunirsi sotto un solo governo il cui capo si sarebbe insediato in Roma.

Egli cercava gloria: gloria per sè come mezzo di farsi valere e di imporsi a quanti allora in Francia primeggiavano e governavano. Per quale via avrebbe raggiunta la gloria che cercava, quale forma avrebbe assunto il primato che voleva conquistare, ei non vedeva allora, nè lo poteva: ma già in sè aveva la fede sicura, incrollabile di essere il più forte. Si vantò il Barras di averlo egli tratto fuor della volgare schiera degli innumerevoli ambiziosi che la rivoluzione aveva fatti salire a galla, e di averlo portato sulla grande scena politica col chiamarlo, il 13 vendemmiatore, a spazzare a colpi di cannone per la morente Convenzione le vie di Parigi: credeva il potente Direttore che soltanto al favore di lui dovesse esser grato il Bonaparte del comando dell'esercito d'Italia, ed ai suoi amichevoli uffici della mano da molti ambita della elegante e bellissima creola che era stata moglie del generale Beauharnais. E col Barras lo credevano tutti: non però il Bonaparte. Egli era convinto di non dover nulla a nessuno, tutto a sè stesso.

Giuseppina Beauharnais aveva piegato riluttante, come una capinera sotto l'occhio del falco, al fascino inesplicabile fatto d'amore e di spavento che lo sguardo dominatore del giovine côrso già esercitava tutto intorno a sè. Lo confessa ella stessa, aprendo l'animo ad un'intima amica, pochi giorni prima di consentire alle nozze fatali, le quali ebbero luogo la vigilia della partenza del Bonaparte per l'Italia. E soggiunge: “Barras mi assicura che farà ottenere al generale il comando supremo della nostra armata d'Italia, se lo sposerò. Allorchè ieri il Bonaparte mi parlò di questa preferenza, che, quantunque non sia ancora accordata, fa di già mormorare i suoi compagni d'arme, mi disse: – Credete che io abbia bisogno di protettori per far carriera? Un giorno essi si reputeranno felici se io consentirò a favorirli. Tengo la mia spada al fianco e col suo aiuto andrò lontano. – Cosa dite di questa certezza del successo? Non dimostra una fiducia nata da un immenso orgoglio? Un generale di brigata che vorrebbe atteggiarsi a fautore dei capi del governo! Non so come avvenga – continua Giuseppina – ma talvolta quella fiducia ridicola mi affascina al punto da farmi credere possibile tutto ciò che quest'uomo così strano abbia fissato di ottenere. E chi tenendo calcolo della sua immaginazione vivace può prevedere ciò che egli farà?„

I Francesi in Italia (1796-1815)

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