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VIII.

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Prima di andare da Clauss, passai da un mercante e comprai una cravatta, una bella cravatta azzurra con certe macchie d'oro che sembravano stelle in un cielo da presepio. Fra cento e più cravatte, io vidi quella, in fondo a una scatola e la riconobbi. Questo fortunato incontro mi rallegrò, e confortò le mie speranze che, allora, erano in fiore. Poi me ne andai a casa e lo specchio s'ebbe la mia immagine come non l'aveva avuta mai, e vide che le mie mani sapevano, all'occorrenza, fare miracoli. Agghindato, e con un profumino tenue tenue nei capelli, e con quella meravigliosa cravatta, passai l'uscio. Sull'uscio incontrai Sterpoli carico d'involti, con un gran mazzo di fiori in mano, che rincasava.

— Ohè! — gli dissi. — Hai più veduto nessuno? Com'è finita? Bene o male?

— Bene, — rispose; — ogni cosa per la sua strada.

— Ma Daria? Che mi dici di lei?

Egli levò su me uno sguardo sospettoso e brontolò:

— Non scherzare. Non parlar così forte.

Entrò in casa ed io me ne andai.

Poco dopo noi eravamo, tutti e tre, seduti intorno a un piccolo tavolo, sulla veranda, avendo per unico lume la luna. L'aria era così azzurra, trasparente ed immota che ci pareva di essere immersi nella profondità di un lago; di vivere la beata vita dei pesci. Daria portava un abito verde e un nastro pure verde fra i capelli. Dinnanzi a noi fumavano delicate vivande: una moltitudine di gamberetti galleggiava in una salsa verde, fra ciuffi di erbe aromatiche. C'erano, sulla tavola, molti bicchieri, e due anfore di vino chiaro, e molte cose luccicanti. Le mani di Daria si posavano come farfalle, come farfalle, su quelle cose fragili.

— Un po' di vino, — diceva di quando in quando. — Un grano di sale... Una presa di pepe... Un zinzino di pepe, poco, poco...

Seduto di fronte a me, Carlo Clauss la serviva con gesti rapidi, chiedendo ogni momento:

— Così? Ancora? Poco? Basta?

Tre gigli candidi (noi tre!) stavano in un vaso, al centro, tre grandi e candidi gigli, in un vaso, candidi e immobili, d'un'immobilità rara nelle cose della natura. Daria spesso si curvava per odorarli.

— Ecco ciò che basta alla nostra felicità, — diceva Clauss. — Non vi pare? Ah! se sapessimo accontentarci!

— O gioia di vivere! — pensavo io, esaltandomi. Quella cravatta nuova (veramente splendida) mi dava un po' di noia intorno al collo e cercavo di dimenticarla.

— Sì, cara, — continuava Clauss con voce misurata, con sorrisi brevi e volubili, — è così. Dove ci conduce talvolta il nostro insensato desiderio di godere? Eh! eh! Un sorso, un sorso solo, una goccia Daria! No? Non credete che il segreto della felicità sia semplice? Cesare rientra nella propria casa dopo il trionfo, e incontra Calpurnia, o Poppea, (non ricordo bene) sulla porta del triclinio. — Calpurnia, dice, il tuo abito è poco casto per la moglie di Cesare! I suoi occhi cadono sul servo, che la segue agitando i ventagli, e pensa: — Tu sei troppo bello per il marito di Calpurnia. E la sua grande felicità, il suo smisurato orgoglio, annegano in questi due pensieri, in due pensieri tanto volgari. Valeva la pena di soggiogare le Gallie? Soltanto bisognava capire prima che la felicità era nelle belle mani di Calpurnia e non ai confini dell'Impero.

— Sei straordinario! — esclamai. — Bevo alla tua salute e a quella di Cesare!

Daria mi guardava raramente. I nostri ginocchi si sfioravano sotto la tavola. Io guardavo Clauss, pensavo: — T'inganni! Non è venuta per te! E cercavo di cogliere sul volto di Daria un sorriso intelligente, uno di quei sorrisi che sono come fili tesi fra due bocche, fili di ragno, invisibili; un bacio invisibile, un bacio rubato ad occhi che fingono di non voler nulla donare.

— Sono straordinario? — domandò Clauss. — In che cosa, se è lecito?

— Dico che inventi a meraviglia, — risposi. — Questa storiella di Cesare, di Cesare e di Calpurnia, mi sembra nuova. E a voi, Daria?

Sempre in attesa di quel sorriso, volevo che ella si volgesse verso di me. Ma Daria succhiava la coda di un gambero, rosso fra le sue dita bianche, e non si mosse.

— È frutto dell'esperienza, — disse Clauss. — S'impara a inventare. È come dire che sono vecchio.

— Povero Clauss! — mormorò Daria. — È veeecchio!

— Perchè ridete? — domandò Clauss. — Non è poi una cosa tanto ridicola. La vecchiezza ha, per un uomo, il suo lato interessante. E poi, non tutti invecchiano allo stesso modo. Per una donna no; ma per un uomo incomincia una età quasi beata. I desideri possono finalmente conciliarsi con l'impossibilità di soddisfarli; la quale, se non erro, è di tutte le età. E vi sembra una cosa da nulla? Accontentarsi delle gioie possibili? Non scartarne neppure una piccolissima parte? Ah! che scienza difficile!

— Ecco, — continuò dopo un minuto di pausa, rivolto a Daria: — poichè a questo ragazzo piacciono le favole, se permettete, vorrei raccontargliene una brevissima a questo proposito. Non vi annoio? No? Dunque, dimmi: ti sei mai domandato, tu (si rivolse a me, con queste parole), come mai Platone non si sia curato di tramandarci la propria opinione sul sacrificio di Fedone? Se cioè lo stimasse piccolo o grande? In fondo, Fedone era un bello e stupido ragazzo, il quale non possedeva se non quei riccioli biondi che, per onorare Socrate, si tagliò. Quella chioma era senza dubbio tutto il suo orgoglio e la sua massima felicità. Eppure senza esitare un istante si pelò, come un altro si sarebbe ucciso. Ma egli invece continuò a vivere e a mostrarsi in Atene con quella testa pelata. Ebbene: fece malissimo. Io dico che non si sacrificano tanto leggermente riccioli così belli, quando non si ha con che cosa sostituirli.

— Scusate, — mormorò Daria con candore, — chi è Fedone? E non gli sono più ricresciuti i capelli?

Si aspettava un dolce, un pasticcio di frutta. Quelle parole di Daria mi esilararono. Mi agitai, le versai da bere; ma neppure allora mi riuscì di annodare quel filo invisibile, quel sorriso intelligente tra le sue e le mie labbra. Daria parlava poco e non si volgeva quasi mai a guardarmi. Le sue ginocchia, sotto la tavola, rimanevano inerti. — Come mai? — pensavo. — Finge? O si è dimenticata? Spesso la sua mano si posava sulla mano di Clauss, quando gli domandava: — Per favore, un sorso di vino... un pizzico di caviale... una presa di sale... E, intanto, la luna continuava a crescere e ci guardava dall'alto, ed era paffuta e beffarda come la vedono i fanciulli. Il mare, la brezza leggiera e variabile, la notte dolcissima cantavano intorno a noi; un rosignolo solitario intonava nell'ombra i suoi minuetti da bambole, le sue «ute» giapponesi. Fu portato un pasticcio di mele; portarono anche due nuove anfore di vino.

— Pare davvero impossibile che noi siamo insieme a cena! — disse Clauss.

— Perchè? — domandò Daria.

Accostandosi al suo orecchio, Clauss mormorò:

— Volete sapere la verità? Siete una bimba maliziosa!

— Io? — domandò Daria, curvandosi verso di lui.

— E chi dunque?

— Ah! questo Clauss! — esclamò Daria, guardandomi finalmente. — Si burla sempre di me!

Ora io mangiavo in silenzio, a capo chino, trangugiando un boccone dopo l'altro. Che cosa significavano quei sorrisi ambigui e quelle parole confidenziali dette a mezza voce? Quegli sguardi interrogativi e quelle moine da scimmia? Non mi ricordavo bene, ma mi pareva di ricordare di aver letto, non so dove, forse nella Bibbia, alcune parole, una frase, un pensiero sulle donne. Qualcuno aveva scritto o detto: — Quando guardo le donne mi sembrano scimmie bianche. Infatti io guardavo Daria e pensavo: — È vero, sembrano scimmie bianche, scimmie bianche e pelate. E sentivo nascere in me una viva antipatia, un senso sgradevole, qualche cosa che mi ripugnava dentro. Eppure pensavo: — Non è niente. Sembrano scimmie bianche, ma sono donne. Pensavo: — Non sarà niente. Ella finge. È necessario. Guardavo la luna che sembrava un'enorme maschera bernoccoluta e dicevo a me stesso: — Dopo tutto, chi non finge? Bisogna portare una maschera. Per questo fu inventato lo specchio.

— Non ti pare, Clauss, — domandai a un tratto, — non ti pare che si finga molto? Dico, che si portino molte maschere?

— A che proposito?

— Ecco, — soggiunsi, — non so a che proposito. Dico che nella vita si è costretti a fingere. E che, talvolta, non se ne può fare a meno, e allora si porta una maschera.

— È purtroppo vero, — rispose, — si portano molte maschere.

Ed io pensavo: — Che bestia! Non si accorge che mi burlo di lui. Ma Clauss non badava a me, ed io volevo chiedere a Daria: — Ditemi! Non è vero che, dopo tutto, è molto facile fingere? Temevo che ella scoppiasse a ridere e che Clauss si avvedesse dello scherzo. Daria infatti rideva. Rideva e mi guardava. E anche Clauss mi guardava, sorridendo ambiguamente. Alfine mi toccò una mano e mi disse:

— A proposito di maschere: non potresti andare un minuto in salotto a prendere quella mascherina giapponese che è sul tavolo, con quei baffi e quegli occhi terribili?

Mi alzai e andai a prendere la maschera giapponese. Ma quando fui nel salotto mi pentii d'essermi mosso e ritornai correndo sulla veranda.

— Ecco, — disse Clauss a Daria: — tenete questa maschera di babau per ricordo di quell'altro me stesso che abbiamo seppellito stasera.

Clauss parlava con intenzione. Sì: vidi subito che quel sorriso non era naturale, che non era come tutti gli altri; e quelle parole, in apparenza così semplici, quelle parole mentivano. Mi sembrava che Clauss si fosse avvicinato a Daria durante la mia assenza e che i loro gomiti si toccassero continuamente. Le mie mani erano impacciate nei loro gesti come se gli oggetti, sul tavolo, fossero stati mossi, ed io stentassi, ora, a ritrovarli o a schivarli. — Che cosa c'è che non va? — pensavo perplesso, e cercavo di nascondere il mio turbamento portando spesso il bicchiere alle labbra per bere un sorso.

— No, no! — disse piano Daria ad un tratto. — Ci guarda. Non è possibile!

— Che importa? — sussurrò Clauss, e si accostò ancora più a lei.

Essi erano così vicini che i loro capelli si toccavano. Allora, improvvisamente, una gran luce si fece in me e mi alzai di scatto con un grido soffocato. Sotto l'urto delle mie ginocchia la tavola si rovesciò con fracasso immenso di stoviglie e di vetri. Agitai le braccia, inciampai nella tovaglia e caddi anch'io con tutto il resto. Ma mi sollevai subito, e udii che qualcuno rideva vicino a me, molto vicino a me, quasi al mio orecchio. E poi udii il rumore di un bacio, di due baci, molto chiaro. In un angolo, immobili, stretti l'uno contro l'altra, Clauss e Daria mi guardavano. Quantunque la ombra fosse fitta ed io avessi un velo opaco, un velo caldo e opaco dinnanzi agli occhi, vidi i loro volti gota contro gota, e le loro quattro pupille che mi fissavano sfavillando. E vidi anche come le loro mani si cercassero sotto gli abiti, e la donna avesse i capelli sciolti e la gola più nuda, e un che di candido, di molto bianco sul fianco...

Il perduto amore

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