Читать книгу L’Innocente / Невинный. Книга для чтения на итальянском языке - Габриэле д’Аннунцио - Страница 4
III
ОглавлениеNon quel ramo solo portai a Giuliana, ma molti altri. Tornavo alla Badiola sempre carico di doni floreali. Una mattina, avendo su le braccia un fascio di spine albe, incontrai nel vestibolo mia madre. Ero un poco ansante, accaldato, agitato da una leggera ebrezza. Domandai:
– Dov’è Giuliana?
– Su, nelle sue stanze – ella rispose, ridendo.
Io feci di corsa le scale, attraversai il corridoio, entrai franco nell’appartamento, chiamai:
– Giuliana, Giuliana! Dove sei?
Maria e Natalia mi uscirono incontro con grandi feste, rallegrate alla vista dei fiori, irrequiete, folli.
– Vieni, vieni, – mi gridarono – la mamma è qui, nella camera da letto. Vieni.
E io varcai quella soglia palpitando più forte; mi trovai alla presenza di Giuliana sorridente e confusa: le gittai il fascio ai piedi.
– Guarda!
– Oh, che cosa bella! – esclamò, chinandosi sul fresco tesoro odorante.
Portava una delle sue ampie tuniche preferite, d’un verde eguale al verde d’una foglia d’aloe. Non ancóra pettinati, i suoi capelli erano mal trattenuti dalle forcine; le coprivano la nuca, le nascondevano gli orecchi, in dense matasse. L’effluvio della spina, un odor misto di timo e di mandorla amara, la investiva tutta, si diffondeva per la camera.
– Bada di non pungerti – io le dissi. – Guarda le mie mani.
E le mostrai le scalfitture ancóra sanguinanti, come per rendere più meritoria l’offerta. “Oh se ella ora mi prendesse le mani” pensai. E mi passò su lo spirito, vago, il ricordo di un giorno lontanissimo in cui ella mi aveva baciate le mani scalfite dalle spine e aveva voluto suggere le stille di sangue che spuntavano l’una dopo l’altra. “Se ella ora mi prendesse le mani e in questo solo atto mettesse tutto il suo perdono e tutto il suo abbandono!”
Io avevo di continuo, in quei giorni, l’aspettazione d’un momento simile. Non sapevo veramente da che mi venisse una tal fiducia; ma ero sicuro che Giuliana si sarebbe ridonata a me, così, o prima o poi, con un solo semplice atto silenzioso in cui ella avrebbe saputo mettere “tutto il suo perdono e tutto il suo abbandono”.
Ella sorrise. Un’ombra di sofferenza apparve sul suo volto troppo bianco, ne’ suoi occhi troppo incavati.
– Non ti senti un poco meglio, da che sei qui? – le domandai accostandomi.
– Sì, sì, meglio – ella rispose.
Dopo una pausa:
– E tu?
– Oh, io sono già guarito. Non vedi?
– Sì, è vero.
Quando mi parlava, in quei giorni, mi parlava con una esitazione singolare che per me era piena di grazia ma che ora m’è impossibile definire. Pareva quasi ch’ella fosse di continuo occupata a trattenere la parola che le saliva alle labbra, per pronunziarne una diversa. Inoltre, la sua voce era, se si può dir così, più feminile; aveva perduta la primitiva fermezza e una parte di sonorità; s’era velata come quella d’uno strumento con la sordina. Ma, essendo ella dunque verso di me in tutte le sue espressioni tanto mite, che cosa ancóra c’impediva di stringerci? Che cosa manteneva ancóra tra lei e me quell’intervallo?
In quel periodo che rimarrà nella storia della mia anima sempre misterioso, la mia nativa perspicacia sembrava interamente abolita. Tutte le mie terribili facoltà analitiche, quelle stesse che mi avevano dato tanti spasimi, sembravano esauste. La potenza delle facoltà inquiete pareva distrutta. Innumerevoli sensazioni, innumerevoli sentimenti di quel tempo mi riescono ora incomprensibili, inesplicabili, perché non ho alcuna guida per rintracciarne l’origine, per determinarne la natura. Una discontinuità, un difetto di fusione, è tra quel periodo della mia vita psichica e gli altri.
Udii una volta raccontare, nel corso di una favola, che un giovine principe, dopo un lungo pellegrinaggio avventuroso, giunse infine al conspetto della donna che egli aveva con tanto ardore cercata. Tremava di speranza il giovine, mentre la donna gli sorrideva da vicino. Ma un velo rendeva intangibile la donna sorridente. Era un velo d’ignota materia, così tenue che si confondeva con l’aria; eppure il giovine non poté stringere l’amata a traverso un tal velo.
Questa imaginazione mi aiuta un poco a rappresentarmi il singolare stato in cui mi trovavo allora, a riguardo di Giuliana. Io sentivo che qualche cosa, inconoscibile, manteneva ancora tra lei e me l’intervallo. Ma, nel tempo medesimo, confidavo nel “semplice atto silenzioso” che, o prima o poi, doveva distruggere l’ostacolo e rendermi felice.
Come mi piaceva intanto la camera di Giuliana! Era tappezzata d’un tessuto chiaro, un po’ invecchiato, a fiorami assai sbiaditi, e aveva un’alcova profonda. Come la profumavano le spine albe!
Ella disse, troppo bianca:
– È acuto questo odore. Dà alla testa. Non lo senti?
E andò verso una finestra per aprirla. Poi soggiunse:
– Maria, chiama Miss Edith.
La governante comparve.
– Edith, vi prego, portate questi fiori nella stanza del pianoforte. Metteteli nei vasi. Badate di non pungervi.
Maria e Natalia vollero portare una parte del fascio. Rimanemmo soli. Ella andò ancóra verso la finestra; si appoggiò al davanzale, volgendo le spalle alla luce.
Io dissi:
– Hai qualche cosa da fare? Vuoi che me ne vada?
– No, no. Resta pure. Siediti. Raccontami la tua passeggiata di stamani. Fin dove sei giunto?
Ella pronunziò queste frasi con un po’ di precipitazione. Come il parapetto era all’altezza delle reni, ella teneva sul davanzale i gomiti; e il suo busto s’inclinava indietro, entrando nel rettangolo della finestra. La faccia, rivolta verso di me in pieno, si empiva d’ombra, specialmente nel cavo degli occhi; ma i capelli, ricevendo in sommo la luce, formavano una esigua aureola; gli omeri anche in sommo si rischiaravano. Un piede, su cui premeva il peso del corpo, avanzava l’estremità della veste, mostrando un po’ della calza cinerina e la babbuccia brillante. Tutta la figura, in quell’attitudine, in quella luce, aveva una straordinaria forza di seduzione. Un lembo di paesaggio turchiniccio e voluttuoso, tra l’uno e l’altro stipite, sfondava pel vano, dietro quella testa.
Allora fu che, d’improvviso, come per una rivelazione fulminea, io rividi in lei la donna desiderabile e nel mio sangue si riaccesero il ricordo e il desiderio delle carezze.
Io le parlavo guardandola fissamente. Come più la guardavo, più mi sentivo turbare; ed ella certo doveva leggere nel mio sguardo, perché l’inquietudine in lei si fece palese. Io pensai con un’acuta ansietà interiore: “Se ardissi? Se m’avanzassi fino a lei e la prendessi fra le mie braccia?” Anche la franchezza apparente che io cercavo di mettere nei miei discorsi leggeri, m’abbandonò. Mi confusi. Quel disagio divenne insostenibile.
Giungevano dalle stanze contigue le voci di Maria, di Natalia e di Edith, indistinte.
Io mi levai, m’accostai alla finestra, mi misi a fianco di Giuliana, fui sul punto di chinarmi verso di lei per proferire alfine le parole già tante volte ripetute dentro di me in colloqui imaginarii. Ma il timore di una interruzione probabile mi trattenne. Pensai che quel momento era forse inopportuno, che non avrei avuto forse il tempo di dirle tutto, di aprirle tutto il mio cuore, di raccontarle la mia vita interna delle ultime settimane, la misteriosa convalescenza della mia anima, il risveglio delle mie fibre più tenere, la rifioritura de’ miei sogni più gentili, la profondità del mio sentimento nuovo, la tenacità della mia speranza. Pensai che non avrei avuto il tempo di raccontarle i minuti episodii recenti, quelle piccole confessioni ingenue, deliziose all’orecchio della donna che ama, fresche di verità, più persuasive di qualunque eloquenza. Io dovevo infatti riuscire a persuaderla d’una grande e forse per lei incredibile cosa, dopo tante delusioni: riuscire a persuaderla che questo mio ritorno non era ingannevole, ma sincero, definitivo, necessitato da un bisogno vitale di tutto il mio essere. Ella, certo, diffidava ancóra; certo, in questo suo diffidare stava la ragione del suo ritegno. Ancóra fra noi s’intrapponeva l’ombra d’un atroce ricordo. Io dovevo scacciare quell’ombra, ricongiungere la mia anima a quella di lei così strettamente che nulla più potesse intrapporsi. E questo doveva accadere in un’ora favorevole, in un luogo segreto, silenzioso, abitato soltanto dalle memorie: a Villalilla.
Noi tacevamo, intanto, ambedue nel vano della finestra, l’uno a fianco dell’altra. Giungevano dalle stanze contigue le voci di Maria, di Natalia e di Edith, indistinte. Il profumo delle spine albe era vanito. Le tende che pendevano dall’arco dell’alcova lasciavano intravedere il letto nel fondo, ove i miei occhi andavano spesso, curiosi della penombra, quasi cupidi.
Giuliana aveva chinato il capo, perché sentiva anch’ella forse il peso dolce e angoscioso del silenzio. Il vento leggero le agitava su la tempia una ciocca libera. L’irrequietudine di quella ciocca scura, un po’ lionata, ove anzi qualche filo alla luce diveniva oro su quella tempia pallida come un’ostia, mi faceva languire. E, guardando, io rividi sul collo il piccolo segno fosco da cui tante volte in altri tempi era partita la favilla della tentazione.
Allora, non potendo più reggere, con un misto di temenza e di ardire, levai la mano per ravviare quella ciocca; e le mie dita tremanti di su i capelli sfiorarono l’orecchio, il collo, ma appena appena, con la più tenue delle carezze.
– Che fai? – disse Giuliana, scossa da un sussulto, volgendomi uno sguardo smarrito, tremando più di me forse.
E si scostò dalla finestra; sentendosi seguire, diede qualche passo come di fuga, perdutamente.
– Ah perché, perché questo, Giuliana? – esclamai, fermandomi.
Ma subito dopo:
– È vero: non sono ancóra degno. Perdonami!
In quel punto le due campane della cappella incominciarono a squillare. E Maria e Natalia si precipitarono nella camera, verso la madre, gridando di gioia; e, l’una dopo l’altra, le s’appesero al collo e le coprirono il viso di baci; e dalla madre passarono a me, e io le sollevai, l’una dopo l’altra, nelle mie braccia.
Le due campane squillavano a furia; tutta la Badiola pareva invasa dal fremito del bronzo. Era il Sabato Santo, l’ora della Risurrezione.