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DELL'ULTIMA TERRA LONTANA E DELLA PIETRA BIANCA DI PALLADE.

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A Vincenzo Morello.

Questo libro non è offerto al difensore del colpevole Ulisside, allo scrittore che primo di sopra la vil canizza gazzettante levò una parola d'uomo pensoso e animoso. Questo poema di libertà, dove la più bella speranza canta la più alta melodìa, è offerto al buon compagno che nella notte del mio publico vituperio, quando ancóra s'udiva dietro a noi la via del Teatro sonare maravigliosamente di urla implacabili, partecipò della mia allegrezza e rise del mio riso. Qual più virile testimonianza di fede avrebbe egli potuto dare in quel punto alla mia forza paziente? Eccogli dunque il segno del mio grato animo, nel suo nome.

Eravamo, te ne ricordi?, presso quelle Terme di Diocleziano che, inalzate al culto del corpo ignudo e dell'acqua salutifera, ora chiudono entro le ruine di sanguigno mattone la nudità di un popolo marmoreo. Come il vento di quel clamore non giungeva certo a toccare alcuna di quelle belle statue erette nel silenzio notturno, così non valeva a turbare in me stesso alcun lineamento dell'opera solitaria che, espressa dalla mia più profonda ansietà, omai non apparteneva se non all'immoto suo fato. E, come a quella muraglia imperiale aderiva per me la memoria dei Cristiani morituri che la costrussero in dolore e in aspettazione, così all'ardua mia gioia era commisto un affetto evangelico: una pia reverenza e riconoscenza verso la moltitudine urlante e calpestante; perché, in verità, quello strepitoso impeto di odio o forse di amor cieco — verso il poeta che da anni si sforza di rivendicare nel teatro latino le potenze del Ritmo e di restituire su l'altura scenica il dominio della Vita ideale — era una specie di spettacolo dionisiaco che sostituiva nella nostra imaginazione la presenza delle forze elementari già significata dal coro ebro dei satiri che accompagnò il passo della Tragedia primitiva.

«È una bella sera» dice l'Ulisside allorché, avendo preso commiato dal fratello generoso e dalla vita terribile con l'ultima strofe del suo fùnebre canto, si accosta alla finestra aperta ed alza al cielo primaverile di Roma gli occhi che fra poco saranno spenti. Si racconta che, come l'attore ebbe pronunziata quella parola tranquilla, un potentissimo scroscio di risa rintronò tutto il teatro e fece lungamente sussultare il ventre innumerevole.

Ora la notte d'ottobre non appariva men bella della sera di marzo, ma indulgente verso un tenue riso silenzioso che ben sapeva d'esser destinato a prevalere. E io pensavo che di là dalla muraglia, nel chiostro certosino, sotto le costellazioni si taceva il michelangiolesco cipresso onde Virginio Vesta avrebbe dovuto spiccare il ramo per la corona da deporre «su le ginocchia di pietra». Ed ecco, la tua ironia si soffermò per dire: «Si sveglia l'Erinni».

Era l'antica, la ludovisia, la bellissima, quella che là entro dormiva come le sue sorelle eschilèe nel tempio di Delfo: non la nera cagna infernale, la persecutrice sanguinaria, dal soffio romoroso, dagli occhi pregni d'atra bile, dalla convulsa bocca schiumante; bensì, mutata già in Eumenide, la grande vergine severa, simile a una Melpomene senza la maschera, coronata non dell'edera ma d'una divina tristezza.

Non diedi io quel puro viso a ciascuna delle «nuove Erinni» invocate dal delirio dell'uccisore sul limite santo che separa la notte dal giorno? O figlie dell'Aurora e dell'Uomo, siate pietose alla semplicità dei dottori che vi confusero con i custodi baffuti della Sicurezza publica!

Ci piacque d'imaginar rinnovato per l'Ulisside il giudizio di Oreste, il dibàttito presieduto da Pallade nell'Areopago venerando dinanzi al popolo convocato dalla tromba tirrenica. «Sarà il colpevole assolto dal bianco lapillo di Atena?» L'Occhichiara, alzata nel suo corto chitone dorico dalle pieghe simili alle scanalature della colonna, si degnò di ascoltare l'accusa e la difesa con sopracciglio sereno, come colei che — nata dal Cervello — converte del continuo l'ambiguo evento in specie di puro pensiero. Ma, prima dello scrutinio, ahimè, subitamente si dileguò. E ci accorgemmo ch'ella era stata offesa dall'aspetto e dall'odore di uno fra i tanti miei patroni e clièntoli sopraggiunto; il quale, premendo la casta mano sul cuor purulento, prese a lamentare la mia gloria abbattuta per sempre contro le lastre del Viminale. Tuttavia, per buono stomaco, da quei costanti bevitori d'acqua che noi siamo, potemmo essere a cena.

Oggi, in questa sottile spiaggia etrusca — mentre è lontanissimo il coro delle bertucce giovinette e dei mammoni decrepiti che m'inibiscono l'immortalità — ho veduto brillare su la sabbia al limite dell'onda il bianco lapillo di Atena e l'ho raccolto religiosamente prostrandomi. Ψῆφος Ἀθηνᾶς: è un ciottoletto, non più grande dell'aliosso polito dal gioco dei fanciulli; e parve, su la collina di Ares, il fondamento augusto della nuova giustizia.

Hai certo nella memoria il sublime episodio eschilèo. Il supplice, ricoverato nel tempio di Pallade, ha cinto con ambe le braccia l'imagine santa; e ha detto: «Sopito è il sangue su la mia mano, e inaridito. Invoco Atena con bocca pura...». Egli ha già disseparato l'anima sua viva dall'atto estraneo. Come l'Ulisside, egli non è più «l'attributo del suo atto». Purificato dal dio di Delfo, egli abbandona la sua colpa come una veste immonda; recupera nell'innocenza la sua nudità nativa; e le sue ossa sembrano «rivestite d'una nuova sostanza». Non altrimenti, nell'aria del mattino, l'Ulisside sente «la sua vera vita involarsi e fluttuare in alto sopra l'azione». Non sembra che costui invochi la medesima dea? Non è rivolta la sua diritta domanda a Colei «dai pensieri numerosi» che porta sul petto il capo della Gòrgone? «Tu dimmi se un sol movimento debba valere contro tutta una vita libera alzata su due talloni.»

Le vecchie Erinni schiumanti di furore si scagliano con zanne ed artigli contro il supplice che ancóra sa pregare «con bocca pura». Bisogna ch'egli perisca nell'ignominia, ch'egli non più conosca «la gioia dello spirito», ch'egli non parli più, ch'egli non risponda più, che vivo sia dilaniato e divorato! Il coro vorticoso intorno al protetto d'Apolline volge il carme che incatena, l'inno senza lira, peste dei mortali. O amico, e non altrimenti, invaso dall'insania delle rugose Vendicatrici, il coro degli spettatori nella notte d'ottobre insorse contro l'affermazione dell'Ulisside. Ἀφόρμικτος era certo il suo ululo, ma non senza risonanza, come quello che palesava la radice inespugnabile della barbarie primitiva nell'anima civica. Il poeta tragico aveva compiuto il suo officio; che è di porre l'ardimento e la libertà dell'uomo dinanzi a un problema spaventevole. La folla voleva tagliare il nodo col rugginoso ferro del tallone, caduto dalle branche affievolite delle vecchie Erinni. «Ci scagliamo contro a lui, comunque valido ei sia, e struggiamo il sangue giovenile.» Tornare doveva dalle ripe dello Scamandro alla difesa Colei che non fu nutrita nelle tenebre della matrice ma nei lampeggiamenti del cervello maschio.

Or ecco — tu lo vedi — nell'Areopago instituito, Oreste coronato d'olivo selvaggio è seduto sul sasso dell'Ingiuria. Presso di lui è il Divinatore, testimone e complice. Per la sua virtù di Onniveggente, il dio luminoso tutto comprende e tutto perdona. La sua pupilla solare, penetrante come il suo dardo, ritrova nel più segreto cuore la cagione della colpa. Al suo fuoco incorruttibile il vapore del crimine si dilegua. La potenza della sua luce dissolve ed assolve. Quivi, nella chiostra contemplata dal cielo attico, egli assiste il matricida contro la ferocia delle cagne inferne. «Siimi tu testimone, o Apolline» dice il fratello d'Elettra.

L'invocazione dell'Ulisside al Sole del Tropico, all'Apolline libico, mi risuona dentro. Vedo «nel tristo sabbione della Costa» l'ombra del supplice senza lamento e senza ramo d'olivo seduta sopra il rottame del suo naufragio; e la tempesta le ha fatta una maschera di schiuma più spessa che la schiuma del cammello. Il dibàttito incomincia. Alle antiche parole si mescolano le nuove parole. «Può taluno infrangere le catene: rimedio v'ha a questo male e maniere molte di liberarsene; ma quando la polvere bevuto abbia il sangue dell'uomo ucciso, non v'ha alcuna sorta di resurrezione.» Gridano le Punitrici: «E come difenderai tu dunque l'innocenza di costui?»

Nell'Areopago il dio sembra anch'egli armato della «dialettica faretra» quando raccoglie l'argomento fallace di Oreste e ne fa il nerbo della sua arringa. Qui, nella nuova disputa, non sarebbe egli tentato di mescolare la sottigliezza allo scherno, se avesse dinanzi a sé le vecchie succiatrici di vene umane? Similmente troverebbe egli il sofisma nelle parole dell'uccisore càuto. «Credi tu che il piccolo fatto senza sangue possa affascinare la ragione del combattente?» Ma egli assume l'attitudine disdegnosa che gli diede la grande arte dorica.

Ed ecco un altro argomento, fornito dal colpevole: «Là, alla tavola del giuoco, nello scompiglio delle sorti, era una carne di goditore o una volontà di asceta, una bassa cupidigia o una fatalità eroica?»

Ed eccone un altro ancóra: «Non per me, non per me! Basta a me un pugno d'orzo abbrustolito, la carne degli avvoltoi, l'acqua della cisterna o del pantano, e per sale la necessità di superarmi ogni giorno».

Né l'uno né l'altro raccoglie il Difensore, né quanti altri il perduto Ulisside trae dal suo delirio di ribellione e di orgoglio; ma uno solo, quello fondato e consacrato dall'arte tragica. E, quando Pallade lascia cadere dalla sua mano infallibile la pietra bianca, il novo coro delle Erinni non urla, non geme, non si dibatte, non come l'antico impreca ai «giovini iddii che calpestarono le antiche leggi»; ma inalza nella serenità un cantico apollineo che forse un giorno sarò degno di ripetere ai miei fratelli vigilanti: non l'inno che incatena, bensì l'inno che riscatta, non la celebrazione della morte, sì bene la glorificazione della vita. Se sterili furono le cagne inferne, le nuove Erinni sono fertili di genitura ideale; e la cruenta materia ch'elle trattano è come la materia che si muove intorno alla pura bellezza.

L'argomento supremo dei due giovini iddii assolutori è l'anima stessa della tragedia, è quasi direi il suo ritmico fonte, il centro della sua forza congegnata. L'eroe, votato all'errore e al dolore, soffre non per purificarsi d'una passione criminosa, non per espiare il suo peccato e per riacquistare la sua innocenza ma per essere — di là dal terrore e dalla pietà — «l'eterna gioia del divenire». Mentre appare paziente, egli raggiunge il grado massimo della sua attività; la quale, dopo di lui, continua a operare. La legge umana, l'ordine naturale, l'uso, il costume possono essere sovvertiti dal suo atto; ma il suo atto genera un cerchio di potenze più alte, una inaspettata sovrabbondanza di vita superna. Destinato a scomparire, l'eroe diffonde e perpetua intorno a sé la sua volontà eroica, che la colpa non può distruggere né menomare. In Corrado Brando non è glorificato il delitto, come pretendono i grossi e i sottili Beoti, ma son manifestate — con i segni proprii dell'arte tragica — l'efficacia e la dignità del delitto concepito come virtù prometèa. Intorno a lui, che soffre e che deve morire, tutte le anime rendono il lor massimo splendore, illuminano di vasti lampi il cielo dello spirito. Sembra che dalle profondità dell'Essere e del Fato tutti coloro de' quali egli è il figlio e il crimine, fedeli al lor cómpito pertinace, abbian tentato invano di sollevarlo verso l'eccelsa di quelle speranze che Promèteo pose tra i mortali affinché non prevedessero la morte. Or ecco, egli muore; e nessuno ha veduto nel suo pugno lo scettro come nessuno vede che le sue mani nell'ultimo gesto sollevano «fuor d'ogni vista» un cuore portentoso. «Il travaglio divino che affatica l'oscurità della massa umana, ecco, a un tratto ha toccato la cima di quel cuore per dar segno di sé, per rivelarsi.» L'officio dell'eroe tragico è compiuto. Il più sacro istinto della vita, della vita a venire, della vita che si perpetua, è tradotto nell'ultimo gesto con una grandezza religiosa. Lo sguardo ha esplorato il fondo dell'abisso e s'è risollevato a scoprire le nuove stelle. Sopra il mutamento e l'annientamento, la Natura soccorrevole ci offre l'imagine radiosa della creatura futura.

Ho io voluto portare su la scena una maschera fedele dell'uomo effimero? È necessario ripetere ancóra che nello spazio scenico non può aver vita se non un mondo ideale? che il Carro di Tespi, come la Barca d'Acheronte, è così lieve da non poter sopportare se non il peso delle ombre o delle imagini umane? che lo spettatore deve aver coscienza di trovarsi innanzi a un'opera di poesia e non innanzi a una realtà empirica e ch'egli tanto è più nobil quanto più atto a concepire il poema come poema? Io ho diffuso ad arte la dubbiezza del crepuscolo su l'uno e su l'altro episodio; e ho voluto che il giorno della mia tragedia «al principio della primavera, fra due vespri» fosse un giorno di trasfigurazione.

Mi piace, in questo pomeriggio di novembre così limpido che sembra annunziare sul Tirreno la precocità della quiete alcionia, mi piace di considerar con occhio senza nube l'aspetto dell'opera da cui mi accomiato e di riconoscere in qualche parte la sostanza medesima onde i miei maestri foggiavano i loro eroi sofferenti e morienti «per non più soffrire e per non più morire».

Quando Marco Dàlio incontra il «battitore di vie ignote» che cammina a gran passi lungo la muraglia del Tevere sembrando sfavillare nel vento, egli pensa: «Chi lo fermerà?» E poi gli torna nella memoria quella risposta che potrebbe anch'essere dell'Ulisside: «Dove corri? — Inseguo il dio del quale io sono l'ombra».

Tal risposta ricongiunge l'idealità di quella nuova figura con l'idealità delle grandi figure antiche sotto il cui velame si celavano gli aspetti del dio doloroso, dello Zagreo lacerato dai Titani, ch'era la sola persona tragica presente sempre nel drama primitivo come il Christus patiens nel nostro Mistero e nella nostra Lauda. Il dio si manifestava per atti e per parole in un eroe solitario, esposto al desiderio, alla demenza, al delitto, al patimento, alla morte. E l'eroe solitario diceva le parole formidabili che ripeterà con diverso accento ma con eguale intrepidità l'Ulisside: «Pronto io sono, per la mia mèta, a prendere su me quel che v'ha di peggio in terra, risoluto anche ai sacrifizii umani». Con durissimo sforzo sollevava egli su le sue spalle il peso spaventoso, ma sol per riconoscere che la sua mèta non era se non la distruzione di sé medesimo, la dissoluzione liberatrice dei suoi mali votata al trionfo della Volontà imperitura e al culto dell'eterna Gioia che è il polso della vita universa. Come l'Ulisside, egli disegnava con l'ultimo gesto l'imagine di un'altra esistenza e di un'altra virtù da lui presentite e intravvedute; alle quali non lo preparavano le sue vittorie ma la sua sconfitta e il suo perdimento.

Dice Corrado Brando alludendo a sé medesimo: «La prova della mia dignità è nel miracolo invisibile». Anch'egli dunque crede ai miracoli del suo dio. L'ebrezza della volontà accumulata è, in lui, simile alla frenesia dionisiaca. Egli sente a tratti risalirgli al cervello il vapore dell'idromele. Ha tracannato con la bevanda barbarica un filtro di violenza, di crudeltà e di allegrezza. Nel delirio orgiastico della musica egli riconosce e adora il suo nume patetico. Sembra che di lui parli e non del sinfoneta quando dice: «Che m'insegna costui? M'insegna il furore e il turbine». Sembra che raffiguri il suo proprio destino quando soggiunge: «La tempesta solleva tutte le forze dell'anima e le aggira e poi le sbatte e schiaccia contro un muro di granito». Ma in nessun momento la sua comunione col dio «che discioglie» si rivela come quando, nella contrattura del più acre impulso, egli evoca l'imagine del sonno «solvitore d'affanni», la tregua largita da Lieo ai furibondi. «Nulla di meglio che quel sonno selvaggio ch'io dormirò su la sabbia oceanica, dopo l'approdo.» Non somiglia a quello, dormito sul monte sotto i raggi del sole, che il bifolco del Citerone descrive nelle Baccanti di Euripide? Più tardi egli chiederà non la tregua breve ma il nero seppellimento. «Io vorrei già essere laggiù, allo sbocco del fiume, supino sotto il mio tumulo di terra.» Avrà tal riposo dal dio che affranca da ogni giogo e da ogni catena colui che lo ha servito; l'avrà non allo sbocco del fiume, non in un luogo designato, ma nel grembo stesso della sostanza primordiale, nell'unità originaria, a cui egli ritornerà confondendo la gioia del disparire nella gioia del divenire, dopo aver ricevuto «un annunzio di perpetuità», dopo aver sentito «l'aspirazione degli eroi sollevarsi in un cuore sublime come in un vertice del Futuro». E il poeta tragico potrà allora onorarlo con l'epigramma sepolcrale che è la lode di tutti i magnanimi in fare e in patire: «O Terra, riprendi questo corpo; e ricordati che fu potente pe' tuoi futuri travagli».

Io credo aver distintamente udito il ritmo fùnebre di tanto destino e aver misurato con esso il troppo ampio respiro dei miei dialoghi. Questa tragedia è la celebrazione di un'agonia dionisiaca. Le cause generatrici dell'Essere — l'illusione, la volontà, il dolore — vi combattono l'ultimo combattimento sotto i grandi occhi cristallini delle nuove Erinni che per illuminarlo sollevano in alto le faci non con lo squasso della vendetta ma col gesto di Psiche munito della lampada perspicace.

Quando Corrado Brando pronunzia le sue prime parole, egli ha già sopra sé «l'ombra d'un'ala» che non è quella della Vittoria. Secondo la visione di Maria Vesta, egli è «già passato dalla parte della notte». Affascinato dalla linea retta che il domatore di fiumi segna con la riga d'acciaio, egli dice: «Un sì o un no. Questo volevo dalla vita». Sembra che perfino il fantasma della sua volontà sia già dietro di lui e che, nel dialogo dell'amicizia, pur tenendo rivolto il viso verso il fato, egli non faccia se non la commemorazione di ciò che è irrevocabile e la rappresentazione di ciò che non può esser più raggiunto. Il suo sogno, che un tempo aderiva all'atto «come il bagliore a ciò che riluce», ora è come l'ombra che riempie la bocca vacua della maschera intagliata nella chiave dell'arco inaccesso. Lontanissimi sono i pozzi di Aubàcar. E la sua sete egli non la potrà estinguere se non nelle sue proprie vene gonfie.

L'azione fu compiuta; il crimine fu commesso, non dall'Ate abbagliante che accecava anche la mente di Zeus, ma dall'oscurissima Ate che abita nell'interno fango dell'uomo e quivi ha in potere la belva sopita o inferma. Ignobile è «il piccolo fatto senza sangue» troppo dissimile alla mano invitta che l'eseguì, troppo estraneo alla natura leonina. Per giovarsene, converrebbe protrarre i giochi dell'astuzia, preparare la fuga con cautela, tessere frodi, pigliare spedienti, troncare gli indugi. Ma la «scaltrezza animale» s'è dispersa nell'alba; non rimane se non la smania della guerra, la furia del combattere, l'ansia del risalire. Ed ecco «il fervore della libertà, l'esaltazione del coraggio, l'urto degli eventi e degli uomini, tutto sparisce dinanzi alla realtà immediata, all'atto che non può esser distrutto!» Qual nodo tragico mai serrò più strettamente anima anelante? Il rombo spaventoso, che l'uccisore ode sul suo capo, sembra già riempire tutto il dialogo. Dietro le figure dei due uomini si prolungano l'ombra della Pietà e l'ombra del Terrore sul pavimento della stanza tranquilla, ove l'Ignoto nascosto nell'angolo si arma.

Hai nella mente l'Aiace sofoclèo? Quando appare su la scena, anch'egli, il signore dello scudo di sette cuoi, è perduto, coperto d'obbrobrio, disperato di vivere, già dato al Buio. Inespugnabile mole d'orgoglio, anch'egli ha patito l'ingiustizia e lo sfregio. Anche a lui è parso aver compiuto «una grande azione, senza gloria, a benefizio altrui». Il più forte dopo Achille ha veduto aggiudicare, nella contesa delle armi, al pulito parlatore l'asta del monte Pelio e il clipeo scolpito della grande imagine del mondo. Anch'egli ha sempre serrato i denti per tener la lingua in freno, ha lasciato agli altri la millanteria, ha tenuto per sé l'orgoglio; ma ha pur pensato sempre: «Chi è il Capo se non il più forte?», Similmente il battitore di vie ignote ha potuto far sua la parola del Telamonio: «Io confesso ch'io domando grandi guiderdoni». Ma i giudici a colui che «difese mille navi col suo corpo» han tolto l'onore ch'eragli dovuto. Il rancore di Corrado Brando contro il suo rivale scaltro ben potrebbe esprimersi negli stessi modi: «Ciò ch'egli fa, lo fa celatamente, e sempre disarmato».

Or quando il poeta evoca l'eroe dinanzi allo spettatore, la strage ignominiosa delle greggi è già avvenuta. Subitamente invaso dal morbo furiale, il «Figlio dell'aquila», l'Eacide che pargolo ebbe per fasce la fresca pelle del leone nemèo, ha compiuto nella notte il tagliamento delle «placide bestie», s'è coperto di sangue mansueto, simile a pazzo beccaio o a vittimario ubriaco. Ed ecco, rientrato sotto la tenda, ora deve soggiacere al suo destino.

Chi dirà l'infinita tristezza di quel risveglio? I rossi fumi della frenesia notturna si dissolvono, la ragione e la pupilla si rischiarano. Quegli che trascorreva simile a un Titano su le tolde delle navi minacciate dai tizzoni dardànii, quegli medesimo è là stupefatto sul carname vile, con la ruina di tutta la sua forza e di tutta la sua gloria, esposto alle beffe e alle rappresaglie degli Atridi e dell'esercito.

Non altrimenti si sveglia il vincitore di Olda e si ritrova fra i piedi il cadavere del baro, la «cosa corrotta» che il destino gli getta innanzi perché egli stramazzi nel fango e nell'onta. «Una povera spoglia esangue arresterà colui che nella terra lontana, per aprirsi il varco, mise a ferro e a fuoco le tribù!»

Quale spettacolo più patetico del crollo subitaneo d'una vita grande, cagionato dall'atto ridevole e turpe compiuto in un'ora d'incomprensibile smarrimento? Lo stesso avversario del caduto, il protetto di Pallade Odisseo, è stretto dalla pietà; e ripete la sconsolata parola dell'antica mestizia: «Ben vedo che noi tutti viventi non siamo se non simulacri e lieve ombra». Muto sta il Telamonio e immobile in mezzo al mucchio sanguinoso. Un sol pensiero omai gli è confitto nella durissima fronte: il pensiero della morte necessaria. Ed ecco che anche qui il ritmo funebre incomincia, per accompagnare sino alla fine la tragedia. La quale non è se non la rappresentazione di un'agonia leonina e di un seppellimento avversato su la sabbia fulva, al frangente del flutto, cui sovrasta la ruota degli uccelli marini attratti dalla smisurata esca.

Si riscuote il morituro e getta due muggiti di toro. Col terzo grido chiama il figlio: Ιω παῖ παῖ. Il suo dolore invoca il nato dalla sua virtù, la creatura che sopravvive a lui distrutto, la vita che si perpetua e ascende. Lo scopritore di nuove stelle dice nella sua suprema preghiera, pensando al non nato ancóra: «Che la Natura trasmetta in carne il segno della mia più profonda cicatrice!» Il Telamonio lascia all'erede il solo scudo settemplice, l'emblema della sua possa invitta. Egli dice: «O figlio, sii più fortunato del tuo padre ma nel resto a lui simile». L'Ulisside spera che il suo figlio vada più oltre. Egli, percosso a mezza via, scorge prima di chiuder gli occhi «di là dalla mèta l'erede del suo dominio, il monumento vivo della sua vittoria». Entrambi hanno fede di aver generato con grandezza perché vissero con grandezza, perché entrambi ebbero la volontà ostinata di superar sé medesimi, «di non più essere uomini ma qualcosa di meglio». Al padre che l'ammoniva di vincere con l'armi ma sempre col favore del dio, Aiace aveva risposto: «Anche l'uom vile può con gli iddii vincere; io confido d'acquistar la mia gloria senza costoro, o padre». Il vincitore di Olda aveva ospitato il dio nel suo petto, gli aveva dato il palpito del suo proprio cuore; s'era divinamente sollevato sopra il dolore e sopra la morte; aveva detto ai carnefici: «Io sono un dèmone, e voi non potete farmi né soffrire né morire». L'orfano Eurisace regnerà magnanimo l'isola ricca di fati navali e di colombe; avrà dai talassòcrati Ateniesi gli onori divini. Ma qual Moira assisterà la nascita dell'orfano partorito senza ululo nella solitudine da colei che «pari alla stessa vita, si sente capace di tollerare tutti i mali»?

Con un lieve tremito riconosco, sotto la tenda del Telamonio, nel volto di Tecmessa quasi direi il primissimo bagliore di quella luce che irraggerà pienamente il volto della mia eroina. La giovane Frigia è una prigioniera di guerra, una «rosa del bottino», una preda barbarica liberata dai vincoli e accolta nel letto del predatore Ellèno; ma la sua attitudine e la sua voce non sono della «schiava subdola e funesta» bensì dell'amante sottomessa e devota che ha posto nel suo dèspoto ogni sua salute e che l'esorta a vivere con una preghiera d'infinita dolcezza. «A te, vivere e vincere; a me, vivere e attendere» dirà anche Maria Vesta, ma con un accento ben più animoso, ma col fremito della più fiera libertà. O matutina apparizione dell'anima feminea nell'opera giovenile di quel poeta che per la bocca dell'invincibile Antigone rivelò primo al mondo la forza delle leggi «non scritte»!

Né la dolcezza di Tecmessa, né il rude amore dei marinai di Salamina, né il pensiero dei vecchi e del nato possono interrompere la corsa dell'eroe verso la tenebra. «O tenebra, mia luce!» ha detto l'amico del giorno, il combattente che nella mischia intorno al cadavere di Patroclo aveva lanciato la meravigliosa bestemmia contro Zeus spargitore importuno della nera caligine, Ιω σκότος, ὲμον φαος. Luce a lui farà la spada fatale di Ettore, confitta per l'elsa nella sabbia del mare, su la più deserta piaggia. La morte ch'egli invoca nel commiato sublime è quella stessa cui vuol consacrarsi l'Ulisside novello: non la femmina orrida ma il Genio maschio.

Ὤ Θανατε Θανατε, νῦν μ’ ὲπίσκεψαι μολων.

Dietro di lui è il macello ignobile, è l'ira degli iddii, è il pianto di Tecmessa, è l'esultazione ingannevole dei socii navali che chiamano Pan «ondivago» alla danza; ed egli è là, contro la larga spada infissa, avvolto da quel gran vento che amano gli sfidatori «pieno di sabbia sollevata e di schiuma in lembi.» Non sembra che anche Corrado Brando abbia udito su quel gran vento il grido selvaggio del coro in tripudio?

Ἰω ἰω Πὰν, Πὰν,

ὦ Πὰν Πὰν άλίπλαγκτε....

O amico, e non ti ricorda Thanatos un'altra consecrazione che inseverisce quel poema nautico ov'è celebrata — con modi che ti piacquero — la nascita della decima Musa Energèia?

«Bel fanciullo» dissi «a Te solo

sacrerò l'acciaio polito

ove miro l'anima mia,

se mai sarà ch'ella s'incurvi.»

L'anima ribelle del Telamonio s'incurva, nel tempo medesimo, sotto il giogo degli iddii e verso la punta del ferro. Il peso stesso della sua azione riconosciuta e giudicata lo abbatte al suolo. «In avvenire» dice egli con un'amarezza che mi sembra simile al sarcasmo «in avvenire sapremo che convien cedere ai numi, e impareremo a venerare gli Atridi». Il nome della moderazione ricorre per la prima e per l'ultima volta su le labbra dell'empio che un giorno osò respingere crudamente il soccorso di Pallade stimandosi bastevole a sostener da solo qualunque sforzo ostile.

Ἡμεῖς δὲ πῶς οὺ γνωσόμεσθα σωφρονεῖν;

Ma egli si uccide perché «niuno potrebbe vincere Aiace, altri che Aiace».

Corrado Brando dirà: «Chiunque possegga sé, per essersi conquistato a prezzo di travagli, considera come suo privilegio il diritto di punirsi o di farsi grazia, e non lo concede ad altri». Egli scuote da sé il peso della sua azione, egli scaccia dal suo spirito l'imagine della colpa, si rifiuta di accettare il castigo, di considerarsi omai «come l'attributo del suo atto e null'altro». Gli sembra iniquo che il piccolo fatto senza sangue abbia ragione d'una grande vita. Egli non incurva né il suo corpo né la sua anima, anzi erge a dismisura e l'uno e l'altra come colui che teme d'essere sorpreso da uno sgomento improvviso, da un affievolimento di forze, come colui che teme «di commettere una viltà contro la sua follìa, di disconoscerla, di difformarla, di avvilirla». Prima che contro gli uomini, egli si difende contro il rimorso e contro il pentimento. Il suo istinto di ribellione non soltanto persiste fino all'ultimo, ma si esaspera trasmutandosi in minaccioso delirio. Egli vuol dedicare ancóra qualche sacrifizio umano in un gran rogo alla sua libertà, perché almeno gli schiavi dalla piazza si volgano in su e si ricòrdino. La sua ultima ragione è nelle sue armi cariche. Egli non si ucciderà, ma ucciderà finché non sarà ucciso. E verso la notte di primavera il suo cadavere arderà nell'incendio, in mezzo all'Urbe, tra il Muro del sesto re e il Fòro costrutto dal domatore dei Parti; arderà perché meglio dal fango mortale si sprigioni nel fuoco lo spirito «infaticabilmente vivo» e continui a operare sul mondo, poi che la più fulgida favilla è già entrata «nel germe ancor cieco del nuovo essere».

Su la salma di Aiace scoppia il conflitto tra il fraterno dolore di Teucro e il basso rancore degli Atridi che tentano gittar la preda cruenta agli uccelli del mare. La magnanimità del Laertiade intercede pel nemico e lo celebra come il più forte degli Achei dopo Achille. L'eroe infortunato sarà sepolto, con tutta l'armatura, dalla pietà del sagittario e di Tecmessa nel promontorio battuto dalle tempeste. Ma colui che non ha potuto scegliere il luogo della sua sepoltura e dormire sotto il tumulo il sonno stesso della terra incognita, il sonno ardente dell'Africa, colui sottrarrà la sua spoglia ad ogni contesa e ad ogni onta: saprà accendere a sé stesso il suo rogo e spargere al soffio del novel tempo il suo cenere.

Posti dall'arte tragica dinanzi a un problema spaventevole il Greco dell'Evo eroico e il Latino della terza Roma, entrambi lo affrontano con animo vittorioso quantunque entrambi appariscano vinti. Ora il primo non cerca di comprendere: non scioglie il nodo, sì bene lo taglia con la spada di Ettore. Raggiunge il luogo deserto e s'immola, pago di spandere col sangue una grande anima. Compie così il riscatto dell'atto, accettando la necessità dell'immolazione. Ma il secondo ha l'occhio più sagace e audace: egli non teme di discendere nel suo proprio abisso e d'illuminarlo. Al lume del suo pensiero egli riconosce che l'atto è estraneo alla sua vita verace, alla sua sostanza profonda; e che per ciò egli non deve sodisfare la giustizia umana con alcuna ammenda. «Pentimento? espiazione? La tua luce non è la mia.» Risale dall'abisso con uno smisurato impeto di libertà, portando un superbo vóto al sepolcro: libero per la morte e libero nella morte. Non più considera sé come un colpevole che vuol sottrarsi alla pena, ma come un nemico che vuol vendicarsi. «Sono un nemico.» Troppo hanno pesato su la sua pazienza gli uomini impuri, il tristo tempo. La sua fine sarà una festa d'orgoglio: rampogna, incitamento e promessa ai superstiti.

Ho detto che il giorno della mia tragedia è un giorno di trasfigurazione. Meglio forse avrei potuto chiamarlo: un giorno d'invenzione eroica. Qui ciascun personaggio, sotto l'urto dei fati, inventa la sua virtù; che diviene la sua difesa, la sua necessità e la sua bellezza. Si muovono essi in un'ombra vespertina; ma, dopo la vigilia che segue il primo vespro, la loro vita interna è infiammata da una luce di aurora. Se non mi fosse impedito dall'angustia e dalla povertà della moderna scena, io vorrei porre davanti agli occhi dello spettatore non soltanto l'imagine del Fiume fidiaco ma quella della Donna michelangiolesca che si sveglia su l'arca, ai piedi del Pensieroso, con in tutte le membra la pesantezza di un dolore titanico; il qual non è se non l'ingombro dei pensieri e degli atti ancor costretti nell'impronta materna perché troppo ancóra immeritevole di riceverli si mostra il popolo degli schiavi, non pur degno di far da strame al sonno della sorella Notte che là di contro dorme senza riposarsi.

Una scena ornata di statue non comporta se non la più severa nudità. L'arte del tragedo, come quella dello statuario, ha per oggetto il nudo. Obbedendo alla legge della mia arte, con non timida mano io ho spogliato di ciò ch'era vile e fugace l'anima dei miei simulacri e ho potuto talvolta sollevarla fino alla regione del canto. La stanza dell'Ulisside, nel secondo episodio, non è dissimile alla tenda del Telamonio. Il «lordume civile» sembra spazzato via per sempre, se bene salga per la finestra aperta «il romorio degli insetti umani». E quel romorio è remoto come il rombo dell'Ellesponto.

Nel primo episodio la denudazione inesorabile avviene sotto gli occhi stessi dello spettatore. I personaggi non sono ancor del tutto liberati dal pregiudizio e dalla menzogna, non hanno ancor del tutto abbandonata la paura di soffrire e di far soffrire. Di tratto in tratto ancor s'ode, nelle pause della loro angoscia, la voce fioca e roca della consuetudine. A ogni parola, a ogni gesto del violento sembra che nell'aria della stanza tranquilla qualche cosa si schianti, qualche cosa si laceri. Quando il domatore di fiumi col linguaggio della poesia celebra la riconciliazione dell'Uomo e della Natura, ecco che la «Potenza velata dalla sua stessa bellezza» entra d'improvviso nella scena e impone la sua legge alla vicenda. Ella forzerà le palpitanti creature a cercare nel più profondo la lor «vera vita» e a manifestarla.

E per manifestarla ciascuno deve accettare «la meravigliosa necessità della solitudine». La maschera del Titano sospesa alla parete non cessa di biancheggiare pur nell'ombra crescente come un segno di luce inestinguibile. «È l'isola dello spirito» dice Corrado Brando «e non v'è nulla intorno fuorché la tempesta».

La prima apparizione di Maria è accompagnata dalla freschezza e quasi direi dal fremito della primavera acerba. Ella sopraggiunge con le mani piene di violette; ma l'odore dei fiori non le impedisce di sentire nell'aria chiusa l'odore della febbre mortale. Al suo gesto di supplichevole amore, Corrado non volge il capo nel partirsi ebro di lontananza e di perdimento. «Chi lo fermerà?» Ed ecco, scomparsa quella frenetica forza eccitatrice, la vita sembra rallentare il suo bàttito, illanguidirsi, raumiliarsi. Alle imagini della grandezza dolorosa e indòmita succedono le imagini delle bisogne umili e consuete. I vecchi infermi si affacciano alle finestre dell'Ospizio tutte eguali; nel ricordo camminano in fila su la spiaggia anziate i giumenti placidi che vengono dalle carbonaie di Conca. Sorge dal passato e s'indugia per qualche attimo nell'aria primaverile un sentimento di pace e di securità. Le lacrime della giovine donna sgorgano subitanee come la pioggia di marzo ma più silenziose. Entrano i due uomini dediti a offici che sono inutili per la vita: l'uno tenta di far rivivere le pietre morte, l'altro cura i mali incurabili della vecchiezza. E l'uno e l'altro vengono tratti dal «desiderio di riscaldare l'anima a un focolare amico», vengono per respirare «in una illusione di santità familiare». Evocano il dolce agio di ieri, la vecchia fante che porta la lampada verde, il silenzio della strada dietro le tende, gli usignuoli dell'Aventino, il rimorchio sul Tevere, i vaghi romori che approfondiscono la quiete; e quel navalestro Pàtrica che è quasi la larva del Tempo, quel passatore informe su cui sembra che passino le acque del fiume come tutte le cose labili.

O Vita, o Vita,

dono terribile del dio,

come una spada fedele,

come una ruggente face,

come la gorgóna,

come la centàurea veste!

Ecco che di sùbito l'eterna Medusa balza dal pavimento della stanza come da una voragine e agghiaccia l'anima di colui che ha tanto sofferto e tuttavia teme di toccare il fondo della miseria. Il capo irto di serpenti e grondante di nero sangue è là, in mezzo alle apparenze familiari, tenuto sospeso da un pugno invisibile. Per vincere l'orrore, per tener diritte nella schiena le vertebre che si disgiungono, bisogna inventare una virtù e animarla di sé con uno sforzo splendido e veloce che somigli a una resurrezione. Virginio Vesta, Maria Vesta, nati d'un medesimo sangue, suggellati dal medesimo suggello, sono d'improvviso chiamati alla vita eroica. Una voce li chiama, li solleva, li trasfigura e li disgiunge. Nella notte piena si compie il sublime travaglio, incominciato nell'incerto crepuscolo.

Entrambi, guardandosi, sono sopraffatti dall'angoscia. Le fibre dei legami lacerate sembrano gemere in loro. Né l'uno né l'altra hanno ancora conquistata la libertà suprema. Virginio barcolla sotto il colpo, e si lascia sfuggire una parola poco virile. «Non c'è più nulla, allora!» balbetta, quando Maria ha confessato. Gli fa paura il suo deserto.

Ma la sorella è la prima a vincere il tremito; è la prima a respingere l'uso il costume e il limite. Il suo sguardo è già impavido e fisso dinanzi a sé, mentre quello del fratello ancóra s'indugia tra i fantasmi leni del passato. Quando egli riafferra la sua volontà e le dice: «Voglio difenderti», ella ha già l'accento eroico nella sua risposta: «Contro chi, se non temo?» Il distacco è avvenuto. Egli è solo, omai; e non può più proteggere, e non può più consolare. Un tempo le due vite si toccarono, e ne nacque un bene inaudito. Ora i due nati dello stesso sangue ridiventano estranei e soli. Per costruire un santuario bisogna abbatterne un altro. Ma nella donna parla per l'ultima volta l'antica voce tirannica quando, a sostener l'amato, ella afferma la sua certezza: «Resterà col mio amore....»

Perché le sorga in bocca la nuova voce è necessario ch'ella faccia la sua vigilia «nel gelo della morte, con la finestra aperta su l'alba, a piedi scalzi come chi deve passare all'altra riva».

Qui penetriamo nell'imo cuore del drama, la cui vicenda è tragica, la cui essenza è lirica. Qui pienamente l'idea centrale s'illumina, e irraggia del suo splendore la catastrofe. «Da che profondità è salito alla tua bocca questo canto? T'inseguivo nelle tue musiche quale ora mi ti mostri. Ho ascoltato con angoscia tutte le tue melodìe per attendere che quest'una venisse. E ch'io abbia potuto udirla in questo punto, è forse l'ultimo dono del Destino.»

Il ritmo funebre, che accompagna il passo dell'eroe verso la sua fine, s'arresta all'inattesa apparizione della dolce creatura figlia del canto; e anch'egli, l'assassino, per un momento appare trasfigurato, purgato d'ogni macchia, esaltato dal miracolo, come se dalla tenebra la donna reduce gli uscisse incontro d'improvviso con una luce di stella. La parola sofoclèa sembra per lui riempirsi d'un novo senso: «O tenebra, mia luce!»

Un miracolo infatti si compie, insperato, come nell'Alcesti di Euripide. Admeto «l'indomabile» vede sparire dal suo talamo la florida figlia di Pelia. Per serbare la sua propria vita, egli manda la devota verso la prateria d'asfodelo, la sospinge nel regno di giù. Similmente Corrado dà nel suo cuore il commiato crudele alla sua donna, per proposito di scampo; e non volge il capo al gesto supplichevole della mano ancor fresca di fiori. Mi piace di comparare l'anelito di Maria verso l'Alba con il sospiro della Tessala verso lo splendore del Giorno. Ἅλιε καὶ φάος ἁμέρας.... La creatura nuova ha il desiderio di morire perché dalla sua morte venga all'amato «qualche bene ignoto». Ella si distende supina e, oppressa dal peso del suo corpo non più vergine, si offre vittima volontaria: «Ecco, sono distesa per lui e non mi alzerò più». Veracemente dunque, allorché va verso lui che non l'aspetta, ella torna come Alcesti dal regno profondo. Alzando ella il suo velo, Corrado la riconosce reduce dal Buio; non altrimenti che Admeto, alzando Eracle il velo della straniera, riconosce il volto divino della sua sposa a cui ancor siede nella bocca vivente il silenzio dell'Ade. — Θαῦμ’ ἀνέλπιστον τόδε — grida con attonita gioia il re ospitale.

Alcesti si tace. La nuova creatura si abbandona all'ebrezza del canto per celebrare il suo miracolo interiore. «Dov'era la maschera della colpa ho veduto apparire il viso dell'innocenza.... Il mio spirito può abitare la tua tenda. Il mio coraggio può fissare le tue nuove stelle.... Posso, come te, cantare nei supplizi!.» Il rapimento del morituro è impetuoso come un ultimo volo d'aquila verso un sole riacceso. Egli ora sa a quali culmini tendesse lo sforzo della sua vita, quale fosse il segreto della sua ansia. È scomparsa la profezìa eroica che prima gli sembrava di leggere «chiara come in una lapide incisa» nelle corrosioni spaventose dell'immensa duna oceanica. «Tu sei forse la mia ultima terra lontana» dice egli alla donna che lo chiama e lo suscita. I fiumi, i monti, le selve, i deserti, tutte le patrie ignote e agognate sembrano sprofondarsi nel suo spirito e convertirsi in regioni interiori. Altri cammini, altre culture, altri dominii, altre città riconosce egli in sé o intravvede. Trasmutato in spazio mistico il continente periglioso è dentro di lui, cinto dalle onde «senza schiuma e senza strepito» dell'immensa Malinconia. «Tu sai che, se cerco la via ignota, la cerco per svelare me a me stesso.... I più grandi spazii io li percorro nell'invisibile, dentro di me. Toccare la sorgente o la foce segreta d'un fiume non mi vale se quella gioia non illumina nel mio spirito una cima più alta.»

Quando la voce feminile ascende sino alle note del canto, il suo potere riesce a superare il fascino d'ogni altra bellezza e d'ogni altra armonia; poiché, per divenir musicale, è necessario che quella voce s'accordi col ritmo del nostro cuore, lo rinforzi, si perda in noi, diventi la nostra essenza stessa, si trasformi in qualche cosa che prima ignoravamo e che d'improvviso ci appare come un nuovo tesoro di sangue e d'anima. «Sento che le radici della mia vita non sono più in me e che l'infinito è là dove tu ti volgi» dice l'inebriato quando sta per ricevere l'annunzio della maternità. Egli medesimo ascende alle più alte note del canto nel celebrare la vita della sua vita.

Mi tornano nella memoria le parole dell'Antico mentre mi accomiato dalla creatura nuova che porta la costellazione di ferro nell'iride. Ella va a porsi tra Silvia Settala e Mila di Codra, non mutilata come l'una, non incenerita come l'altra, ma compiuta da un sacramento della Natura; non un vincolo ma un dono; più che un dono: un Segno. «Or teco pensa, che bellezza dovea essere in lei, alla quale parea si convenisse lo suo dolore!»

Scomparsa la donna dalla scena, il ritmo funebre interrotto ricomincia; ma or sembra condurre l'eroe non più verso il sacrificio e verso il sepolcro, sì bene oltre l'amore e oltre la morte, là dove egli non possa «né soffrire né morire.» Ancóra persiste in lui il fascino della melodìa quando ricorda al servo la notte di Milmil, il cerchio di fuochi, il suono delle tre canne dispari, i Neri che ascoltavano immobili «come se quel canto non fosse straniero ma venisse dal fondo della loro infanzia».

Quale istinto lo inchina così verso il «figlio del cratère»? Dice egli a Rudu: «Sei nato dentro un cratère spento, che si ridesterà». I cratèri sono le fauci bacchiche della Terra. Il morituro cerca forse di compiere la sua ultima comunione con la Natura ignuda, con la Natura immune da ogni indagine della conoscenza, non violata dall'urto di alcuna civiltà. Nell'isolano persiste il tipo primordiale dell'uomo. Costui vive fuori d'ogni epoca e fuori d'ogni ordine sociale. Non è all'estremo ma all'origine della sua stirpe. Egli ha perduto il ricordo del suo passato familiare, la nozione del suo stato civico, il senso della domesticità. È in lui non so che riflesso del Coro originario obediente e compaziente, che vede come il dio soffra e come si trasfiguri. Egli non comprende ma sente, non conosce ma indovina. Sopra tutto, adora e obbedisce. La sua servitù è cieca ma sublime. «Tu sei ancóra capace di cantare con una voce più ferma in un supplizio più crudo, se io te lo comando.» Si ripercuotono nella sua anima semplice le angosce del suo Signore; ed egli appare come l'imagine ripercossa del demone dionisiaco che, dinanzi a lui, si agita e si manifesta. Al suo contatto, l'eroe doloroso è riassalito da un sùbito accesso di selvaggia allegrezza. «Imagina ch'io abbia bevuto l'idromele e che mi ritorni la smania della guerra.» E ripreso dal fremito oscuro della superstizione, ridiventa aleatore, si arrischia di nuovo al gioco facile e terribile per rievocare la potenza della sua volontà che un tempo interrogava la Sorte ma soltanto per contrariarla, ma soltanto per afferrarla alla gola come Alessandro fece della Pitia sul tripode. «Che vale il giuoco, se tu vuoi quel che vuoi?» gli dice il servo. «Mi leggi nell'occhio?» egli risponde; e sa che nell'occhio non ha lo sguardo della volontà invincibile ma lo sguardo stesso del fato che lo possiede e lo trae. Dalla pelle del leone, distesa sul pavimento per ricevere il getto della moneta romana, si leva allora l'imagine di «una gloria che fu silenziosa». Ed egli, che non ha immortalità fuori del Deserto, esprime l'uno de' suoi due grandi vóti funebri: «Accendimi un fuoco di lentisco sopra un nuraghe per memoria e non mi dimenticare nei tuoi canti». Ha veduto nella sua visione, sopra l'isola fiorita d'asfodeli e commossa dall'ànsito dei giganti dormienti, l'altare ciclopico di macigni non cementati se non dal tritume dei millennii.

Così vedrà nell'ombra della basilica romana il colosso di pietra «quasi belva, quasi dio»; ed esprimerà al fratello perduto l'altro vóto, il supremo. «Portagli una corona di cipresso in memoria di me, e deponila su le grandi ginocchia ove sognando mettemmo il nostro avvenire.»

Mirabile fato, quello del superstite domatore di fiumi! Per riuscire a inventare la sua virtù, qual somma di forze ha dovuto egli raccogliere e costringere! Non lo sostiene alcuna ebrezza, né il fascino del canto, né la rivelazione dell'oltrepassato amore. Anche la sua volontà di beneficio diviene inefficace. Egli conosce che ogni consolazione è vana per la creatura che può soffrire sinché più non senta la sua sofferenza. L'anima eroica respinge da sé ogni cosa lene come la ruota che gira vertiginosamente. La compiuta virtù genera la compiuta solitudine. E l'amico e la sorella partendosi da lui, gli ripetono la medesima dura parola: «Dove io vo, tu non puoi seguirmi». Egli è solo come nessun altro. L'acqua ha cessato di sorridere nell'Universo. Ma il regolatore dell'Elemento inesauribile sa dire a sé stesso: — «Taci, o profondo. Consólati d'aver tutto perduto, se in te è rimasto quel senso nuovo che ti farà scoprire domani la nuova sorgente».

«Luce su i culmini sola!» grida la voce dell'Orchestra, con una sonorità trionfale, lacerando il silenzio dell'aspettazione, prima che su l'altura scenica il velo si apra. La mia tragedia risponde a quel grido illuminando tutti i culmini. Ella celebra le più ardue vittorie del coraggio umano su la sventura e su la colpa. Ella interpreta con insolita audacia il mito di Promèteo: la necessità del crimine che grava su l'uomo deliberato di elevarsi fino alla condizione titanica; e conferisce non so che selvaggio ardore patetico all'impeto iterato della volontà singola verso l'universale, alla smània di rompere la scorza dell'individuazione per sentir sé unica essenza dell'Universo. Ella afferma ed esalta l'istinto agonale come solo creatore di bellezza e di signorìa nel mondo. Ella ricorda alla razza dei Caboto l'antichissima sua «vocazione d'oltremare», la sua prima sete d'avventura e di scoperta, la gioia di propagare di là da ogni confine lo splendore della patria, l'orgoglio di stampare l'orma latina nel suolo inospite. Misurando su l'arco romano la prominenza del sopracciglio consolare, ella offre alla terza Italia la visione augurale della sua nuova architettura considerata come il linguaggio della potenza, come il grande atto concorde della volontà che muove i macigni, come il prodigio compiuto dall'ebrezza della volontà che aspira a placarsi nell'arte. Ella in fine santifica il dolore che, trasmutato nella più efficace energia stimolatrice, genera e conserva l'avvenire. Ella glorifica la donna sapiente in una sola cosa: nel donar sé stessa. Dice: «La paura del dolore, la paura di soffrire, non può essere abolita se non da una religione in cui l'Amore sia amato.» Anche dice: «Che ciascun uomo si faccia degno di ricevere un annunzio di perpetuità, avendo fede nella Vita Eterna».

Tale, o amico, è la parola della tragedia abominevole che i catoncelli stercorarii — sia detto con sopportazione — consegnano ogni giorno alla vendetta popolare. Nessuna delle mie opere fu mai tanto vituperata, e nessuna mi sembra più nobile di questa. Col canto senza musica ella si accorda agli esemplari augusti. Sorta dalla mia più vigile angoscia con la spontaneità di un grido, ella sembra composta sotto l'insegnamento assiduo dei primi Tragedi. Ma gli accordi e i riscontri, che io discopro in lei se la contemplo, sono per me stesso inattesi: mi significano le divine analogie della vita ideale, le comunioni misteriose e quasi direi sotterranee che affratellano le creature dello spirito. Quando su la mano pallida ma forte di Maria Vesta che alza il suo velo intravvedo l'ombra del braccio di Eracle che discopre il viso fedele d'Alcesti tornante dall'Ade, io riconosco l'eternità della poesia che abolisce l'errore del tempo. Anche riconosco la verità e la purità della mia arte moderna; che cammina col suo passo inimitabile, con la movenza che è propria di lei sola, ma sempre su la vasta via diritta segnata dai monumenti dei poeti padri.

Per ciò io mi considero maestro legittimo; e voglio essere e sono il maestro che per gli Italiani riassume nella sua dottrina le tradizioni e le aspirazioni del gran sangue ond'è nato: non un seduttore né un corruttore, sì bene un infaticabile animatore che èccita gli spiriti non soltanto con le opere scritte ma con i giorni trascorsi leggermente nell'esercizio della più dura disciplina. Le figure della mia poesia insegnano la necessità dell'eroismo. Uscito è dalle mie fornaci il solo poema di vita totale — vera e propria «Rappresentazione di Anima e di Corpo» — che sia apparso in Italia dopo la Comedia. Questo poema si chiama Laus Vitae: è composto con un'arte demoniaca come quella che foggia gli specchi magici; e opera per continua metamorfosi su le imagini del mondo visibile trasmutandole in segni luminosi del mistero interiore. È il ditirambo delle origini e delle profondità. L'anima vi si agita nel canto come una Menade che abbia rapito il segreto a Orfeo prima di lacerarlo; ma sempre la segue l'ombra eleusina,

Più che l'amore: Tragedia moderna

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