Читать книгу Forse che sì forse che no - Gabriele D'Annunzio - Страница 4

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— Forse — rispondeva la donna, quasi protendendo il sorriso contro il vento eroico della rapidità, nel battito del suo gran velo ora grigio ora argentino come i salici della pianura fuggente.

— Non forse. Bisogna che sia, bisogna che sia! È orribile quel che fate, Isabella: non ha alcuna scusa, alcuna discolpa. È una crudeltà quasi brutale, un'offesa atroce al corpo e all'anima, un disconoscimento inumano dell'amore e d'ogni bellezza e d'ogni gentilezza dell'amore, Isabella. Che volete voi fare di me? Volete rendermi ancor più disperato e più folle?

— Forse — rispondeva la donna, aguzzando il suo sorriso che il velo pareva confondere e quasi fumeggiare nei mobili riflessi, di sotto alle due ali ferrugigne che le coprivano gli orecchi inserite nel suo cappello a guisa d'elmetto intessuto d'una paglia larga e forte come trùcioli di frassino.

— Ah, se l'amore fosse una creatura viva e avesse gli occhi, potreste voi guardarlo senza vergognarvi?

— Non lo guardo.

— Mi amate?

— Non so.

— Vi prendete gioco di me?

— Tutto è gioco.

Il furore gonfiò il petto dell'uomo chino sul volante della sua rossa macchina precipitosa che correva l'antica strada romana con un rombo guerresco simile al rullo d'un vasto tamburo metallico.

— Siete capace di metter la vita per ultima posta?

— Capace di tutto.

Parve guizzarle tra i denti e il bianco degli occhi l'acutezza del sorriso formidabile come il baleno d'un'arme a doppio taglio. Con la destra il furibondo afferrò la leva, accelerò la corsa come nell'ardore d'una gara mortale, sentì pulsare nel suo proprio cuore la violenza del congegno esatto. Il vento gli mozzava le parole su le labbra arsicce.

— Ora ho la vostra vita nelle mie mani come questo cerchio.

— Sì.

— Posso distruggerla.

— Sì.

— Posso in un attimo scagliarla nella polvere, schiacciarla contro le pietre, fare di voi e di me un solo mucchio sanguinoso.

— Sì.

Protesa ella ripeteva la sillaba sibilante, con un misto d'irrisione e di voluttà selvaggia. E veramente l'uno e l'altro sangue si rinforzavano, balzavano; l'uno contro l'altro parevano ardere ed esplodere come l'essenza accesa dal magnete nel motore celato dal lungo cofano.

— La morte, la morte!

Non sbigottita ma ebra, ella mirava l'imagine di lui nel fanale mediano, ch'era come un teschio orecchiuto, costrutto di tre metalli: mirava nella spera convessa del rame il capo rimpicciolito, ingrossato il basso del corpo, la mano sinistra enorme su la guida dello sterzo. Percotendo il sole nella spera, il foco divorava la faccia; e dell'imagine allora non appariva a lei se non il mostruoso torace decapitato e il pugno gigantesco nel guanto rossastro.

— Mi tenterai e mi deluderai ancóra?

— Forse.

— Vedi quel carro, laggiù?

— Lo vedo.

Le parole erano come faville fulminee che si partissero non dalla bocca senza respiro ma dall'apice del cuore lottante. Il vento le rapiva e le mesceva all'immenso vortice di polvere alzato nella traccia spaventosa. Parevano non avere la figura del suono ma quella dell'ardore, disumanate dalla brevità nella luce, dalla solitudine nello spazio.

— Chiudi gli occhi, dammi le labbra.

— No.

— Mordimi, e chiudi gli occhi.

— No.

— Moriamo.

— Eccomi.

Combattevano senza toccarsi ma invasi dallo stesso delirio che agita gli amanti acri d'odio carnale sul letto scosso, quando il desiderio e la distruzione, la voluttà e lo strazio sono una sola febbre. Il mondo non fu se non polvere dietro di loro; le forze si alternarono e si confusero. La donna era separata sul suo sedile, né sfiorava pur col gomito il compagno; ma soffriva e gioiva come se i due pugni dominatori non reggessero il cerchio, ben lei tenessero presa per gli òmeri squassandola. E trasposta era in lui l'illusione medesima, ché egli sentiva sotto le sue mani nella potenza dell'impulso grandeggiare il palpito della creatura agognata. Ed entrambi, come nella mischia ignuda, avevano il viso cocente ma nella schiena il brivido gelido.

— Non temi?

— Non temo.

Ella guardava la morte e non credeva alla morte. Vide l'ombra d'un pioppo su la via splendida; distinse sul ciglio erboso il fiore intatto del vento, il labile globo di piuma sul gambo sottile; si contrasse, divenuta un solo istinto vitale dalla nuca al tallone, imitando il guizzo delle rondini vive che sfioravano il cofano pieno di fremito. E non mai aveva conosciuto la sua propria forma come in quel punto, non mai nel suo letto, non mai nel suo bagno, non mai davanti al suo specchio: le lunghe gambe lisce come quelle dei chiari Crocifissi d'argento levigate da mille e mille labbra pie; l'esiguità delle ginocchia agevoli in cui era il segreto del passo ammirabile; le piccole mammelle sul petto largo come il petto delle Muse vocali, dall'ossatura palese di sotto i muscoli smilzi; e le braccia non molli ma salde che pur sembravano portare la più fresca freschezza della vita come una ghirlanda rinnovata a ogni alba; e chiuse nei guanti flosci le magre mani fino alle unghie screziate di bianco, sensibili come il cuore purpureo, ricche di un'arte più misteriosa che i segni scritti nelle palme; e tutto il calore diffuso sotto la pelle come una stagione dorata, e l'inquietudine delle vene, e l'odore profondo.

«No, non moriamo. Il cuore ti trema. Il tuo furore è vano. Godi e soffri di me. Non sono mai stata così forte e così desiderabile».

I suoi pensieri nascevano dal suo brivido. Ed ella portava sotto le due ali basse il suo viso di dèmone non come una maschera di carne ma come la sommità stessa della sua anima accesa nel vento sonoro e velata di fallacia.

— Isabella! Isabella!

Simile al cavallo nervoso che sente dinanzi all'ostacolo mancare il coraggio del cavaliere ed è certo che non andrà dall'altra parte, ella sentiva l'esitazione nei pugni del guidatore; e già misurava con l'occhio lo spazio tra il carro e il canale ove le ninfee biancheggiavano. Un grido involontario le sfuggì quando una rondine urtò contro i bugni del radiatore camuso uccidendosi.

— Paura?

— Per la rondine.

— Vuoi?

— Sia.

— Isabella!

Allora ella guardò il viso raso del compagno, non nella spera di rame ma nel rombo del pericolo al suo fianco: il viso bronzino, disseccato e indurito su le ossa evidenti, chiuso fino al mento come da una sorta di camaglio; onde sporgeva carnosa la bocca quasi fosse gonfia di sete e di disperazione. Poi guardò innanzi a sé. Subitamente l'orrore le arrestò il palpito, ché il carro era là, carico di tronchi immani che si protendevano oltre le corna delle due coppie di buoi aggiogate. L'ultimo battito delle palpebre afferrò netta la forma degli strati legnosi nel taglio dei fusti. Poi ella chiuse gli occhi: fu scossa dalla violenza dello sterzo, udì gli urli dei bovari e un muggito lùgubre come se la macchina micidiale passasse sopra le bestie stritolate. Aprì gli occhi: qualcosa di verde, di candido, di fresco le entrò nelle pupille. La macchina correva, muggendo dalla sua sirena, lungo il margine erboso del canale ove le ninfee galleggiavano innumerevoli. Dietro, il vortice della polvere nascondeva il passo della morte. E un repentino riso stridette per entro l'ondeggiamento del velo, sotto le ali dell'elmetto, su la faccia incolume e invitta.

Era un riso involontario, un convulso riso femineo, che le riempiva di lacrime il cavo degli occhi, la piegava a mezzo del corpo e pareva fosse per spezzarla in ogni sussulto. Ma ella diede alla sua debolezza e al suo male l'apparenza dello scherno vittorioso.

— La morte! La morte! — singhiozzò nella gola stridula. — L'ultima posta! Avete ucciso una rondine e prestato un muggito di spavento a quattro buoi troppo placidi.

Ella non poteva domare quel riso che le si partiva dalle viscere, dal più profondo di sé, dall'ignoto abisso della sua sostanza, con un suono inimitabile che pur sembrava falso alla sua anima e a quella di chi l'udiva. E il compagno taceva, senza guardarla, oppresso da un'angoscia annodata come un rancore inerte, che gli impediva di raccogliere l'irrisione e di volgerla in lieve allegrezza.

— Tutto è gioco — disse.

Moderava la corsa. Ora la strada era solitaria; e tutta la pianura in quel punto era una solitudine lontana come una ricordanza musicale, fatta di segni e d'intervalli costanti; ché gli argini verdi, e sovr'essi le pallide vie diritte, e i canali molli, i filari di salci di pioppi di gelsi, tutte le linee consentivano a quella dell'orizzonte, in concorde lentezza si prolungavano verso l'infinito. E il regno era del cielo inoccupato; ché qualcosa d'aereo, per tante quiete acque specchianti, alleviava la terra come i grandi occhi allèviano il volto umano.

Sopra la pulsazione del motore e sopra il riso della donna, che parevan salire dalla stessa meccanica inconsapevolezza, egli percepiva il silenzio senza confine. E da quella chiara libertà del cielo sgombro, e da tutte quelle bianche liste ricorrenti per la verdura, e dal balenare delle rondini sul fiso sguardo degli stagni, gli si compose l'imagine del suo volo. E imaginò di condurre non la rapidità che striscia ma quella che si solleva; imaginò di ritrovarsi nella lunga fusoliera che formava il corpo del suo congegno dedàleo tra i due vasti trapezii costrutti di frassino d'acciaio e di tela, dietro il ventaglio tremendo dei cilindri irti d'alette, di là dai quali girava una forza indicibile come l'aria: l'elica dalle curvature divine.

La donna aveva soffocato il riso, che di tratto in tratto rinasceva come un singulto infantile.

— Credo che siamo folli, Paolo — disse con una voce che si posò sul cuore dell'uomo come una mano cauta in atto d'imprigionare qualcosa che sia per fuggirsi.

Egli rivide, in un lampo, Isabella Inghirami sotto la tettoia che crepitava alla pioggia primaverile, là, fra i rotoli dei fili d'acciaio, fra le lunghe verghe di legno, fra i mucchi dei trucioli, negli stridori della sega, nei gemiti della lima, nei colpi del martello, mentre una tacita febbre umana pareva quasi raggiare intorno al grande airone inanimato che aveva già la tela tesa su le cèntine delle sue ali. Ah perché d'improvviso quell'opera delicata e misteriosa come il lavoro dei liutai, fatta di pazienza di passione di coraggio, e di eterno sogno e di antica favola, perché era divenuta una incerta carcassa al paragone della somma di vita accorsa da tutti i punti dell'Universo e adunata meravigliosamente su quel volto quasi esangue i cui sùbiti rossori commovevano come gli accenti sublimi dell'eloquenza e come le grida dei fanciulli? Quanto ingegno teso e ostinato, quanta accortezza e destrezza, quante prove e riprove nel trovare i modi delle legature, delle giunture, degli innesti! E per qual segreto, a un tratto, ecco, le fragili falangi di quelle dita ripiegate all'angolo di quella bocca socchiusa potevano assumere un valore che aboliva tutto l'acume della ricerca e tutta la gioia dell'invenzione? Egli rivide la visitatrice, poggiata senza peso il gomito contro una costa della fusoliera, presso il timone verticale, sotto una sàrtia rigida d'acciaio, con la mano senza guanto fra la gota e il mento a reggere il viso chino nell'attitudine dell'ascolto, sembrando l'ombra del cappello alato raccogliere l'astuzia molteplice e la seduzione sagace di Mercurio imberbe.

— Ancóra pensate male di me, Paolo? O sognate il volo di domani?

Gli parve che in lei corresse un lieve fremito.

— Penso — rispose — a quel giorno che entraste per la prima volta nel mio piccolo cantiere sul prato di Settefonti.

— Me ne ricordo.

Ella risentì gli sguardi timidi e diffidenti degli artieri, il fresco d'una larga gocciola caduta dalla tettoia su la sua mano ignuda, il fruscìo dei trucioli all'orlo della sua gonna, il dolore alla caviglia impigliata in un filo d'acciaio, l'odore della vernice e della pioggia, l'ansia dissimulata del suo cuore sotto il suo artificio.

— Entraste, come chi apre una porta e comanda a un estraneo: «Lascia tutto e vieni con me». E non dubita dell'obbedienza.

— Sapevo — ella disse — una parola bella e strana come un nome di maga, che significa: «Vieni-con-me». E non me ne ricordo più.

— Il vostro vero nome.

— Per voi o per tutti?

Subitamente egli patì la bruciatura profonda, senza comprendere, senza riflettere. Or come con una qualunque parola quella voce poteva far tanto male? Come poteva con un solo accento rimescolare tante cose torbide, rappresentare l'oscurità del passato inesplorabile e l'incertezza del domani impuro?

In una carne ch'egli desiderava si converse per lui tutto il desiderio del mondo; e l'immensità della vita e del sogno fu ristretta in un grembo caldo.

Egli la guardò. Così con un colpo di stecca iroso il modellatore scancella nella creta l'effigie, la ragguaglia alla massa informe. Egli agognò ch'ella più non avesse quelle palpebre, quella bocca, quella gola, ch'ella più non fosse qual'era. E rievocò il duro carro, i lunghi tronchi protesi all'urto senza scampo.

— Ah se l'amore, che offendete e abbassate così forsennatamente, si vendicasse di voi e vi torturasse come mi torturate! Se un giorno voi non poteste più dormire né sorridere né piangere!

— L'amore, l'amore! — sospirò ella abbandonando in dietro il capo, socchiudendo i cigli, rilasciando le braccia e le mani come chi illanguidisce, con la bocca avida, quasi a bere tutto il filtro dell'estate dalla tazza riversa del cielo coronata di foglie. — Se sapeste come amo l'amore, Paolo!

Proferì queste parole inchinando il viso velato verso il compagno, con un accento ch'era simile a un sapore e a un sentore segreti, quasi che la voce per giungere alle labbra avesse attraversato la più profonda sensualità. Egli impallidì. Fu diminuito; fu rotto come un sermento che debba esser gettato nella fiamma con altri mille. Per lui il desiderio era quell'elezione irrevocabile che di quelle due braccia faceva il luogo unico della luce e del respiro. Ma il desiderio di lei era senza cerchio, senza limite, senza tempo come il male dell'essere e la malinconia della terra?

— L'amore è il dono — disse egli.

— È l'attesa — disse ella.

— Non l'indugio perverso. A ogni ora voi siete per donarvi e vi rattenete, siete per concedervi e vi negate. Fin da quel giorno, sotto la tettoia, girando intorno alle ali morte, simulaste nel passo i movimenti della voluttà.

— I vostri occhi sono malati.

Egli la rivedeva ondoleggiare intorno al grande apparecchio aereo, con la pieghevolezza quasi fluida delle malvage murene prigioniere nell'aquario.

— Perché vi lamentate sempre come un bambino capriccioso, voi che mi piaceste soltanto come l'amico del pericolo? Pensate che io sono il vostro più gran pericolo, Tarsis. L'amore che io amo è quello che non si stanca di ripetere: «Fammi più male, fammi sempre più male». Non eviterò mai nessuna pena, né a voi né a me. Fuggite, giacché avete le ali, giacché studiate il vento.

Ella non sorrideva; ma sembrava che s'appoggiasse su ogni parola come per comunicare a ciascuna il suo proprio peso, il peso della sua potenza e della sua imperfezione e di tutto l'ignoto ch'ella portava dentro. E gli stridi delle rondini su per gli stagni le fendevano l'anima come il diamante fende il vetro, e dubbio è qual dei due strida.

— Amico, amico, — ella proruppe, di sùbito invasa da uno scoraggiamento ansioso, quasi che la corsa rallentata e il giorno declinante le diminuissero il respiro — no, non m'ascoltate, non mi rispondete. Non parlate più, non voglio più parlare. Non vi farò mai tanto male quanto ne fa a me la più piccola di quelle foglie, e tutto questo cielo!

Divine erano la dolcezza e la tristezza del giorno su la pace della pianura ove le ombre e le acque e l'arte agreste avean composta una ordinanza tanto semplice che pareva condotta secondo il flauto di tre note tagliato nella canna palustre. I salci spogli, con una lieve ghirlanda di frondi in sommo, miravano negli stagni riflesso un aspetto tanto socievole che pareva si fosser già tenuti per mano e allora allor disgiunti dopo una danza serena. E tanto eran fresche le ninfee nei canali che la donna credeva sentirne l'umidità intorno ai suoi propri occhi arsi.

— Aldo e Vana saranno ancóra molto in dietro? — domandò ella con un'ansia oscura che non si placava.

— Ci raggiungeranno.

— Andiamo! Andiamo!

Paolo Tarsis accelerò la corsa. Il vortice di polvere, il rombo guerresco, l'ululo della sirena respinsero la mite e straziante melodia.

Apparivano in lontananza le mura rossastre, i baluardi saglienti, le torri quadrangolari della città forte.

— Mia sorella non vi piaceva più di me, prima? — disse ella ancóra, con un tono acre di provocazione, sollevando gli angoli della bocca a fiore delle gencive nel sorriso irritato e come sospeso sopra un poco di sangue roseo.

— Non volevate più parlare, Isabella.

Una inquietudine intollerabile agitava la donna, come s'ella dovesse dire e fare qualche cosa che sola in quel punto era consentanea a sé e al tutto ma non potesse né dire né far quella, anzi la contrariasse con ogni pensiero, con ogni parola, con ogni movimento e perfino col polso, col respiro. E stava curva come sotto la tempesta, come per comprimere la sua vita e opporsi a un salire subitaneo di onde ch'ella non sapeva se recassero il bisogno di ridere o di piangere. E, provando un dolor sordo alle scapole, propagava ella medesima quel dolore fino alle dita dei suoi piedi e delle sue mani, con la pietà d'esso dolore. Ed ecco, la stanchezza la occupava come il nero peso d'un sonnifero e le dava una voglia accorata di piegare il capo su la spalla del compagno e di dimenticarsi in un letargo senza fine. Ed ecco, tutte le forze del suo desiderio con tutte le imagini della voluttà le balzavano dentro e rotavano in una vertigine di delirio.

— È il più lungo giorno! — esclamò, come chi si risvegli nel sussulto dei ricordarsi. — Oggi è il più lungo giorno, è il solstizio d'estate. Non lo sapete?

E per alcuni attimi aspettò che la mano sinistra del compagno lasciasse il volante e la toccasse, nella speranza impetuosa che una novità nascesse da quel tocco. E tutta la sua anima si dibatteva sbigottita con un fremito innumerevole come se tutte quelle rondini vive fossero prese in una rete sola e nel terrore si rompessero le penne.

Contratto egli taceva, intento a dominare sé stesso, la sua macchina fida e infida. Ed ella volle guardarlo deformato nel rame del fanale; e più parole crudeli trovò per ferirlo, e non ne scelse alcuna ma le contenne e n'accrebbe il suo rancore. E cercò qualche altra cosa da opporre a quel male, da gettare a quella specie d'insana fame che distruggeva in lei l'intera massa della vita vissuta e non le lasciava su la lingua se non un gusto di sangue e di polvere.

Allora le ingiurie rauche e i pugni tesi dei cozzoni di cavalli le raddrizzarono in un sussulto energico le reni indolenzite.

— Avanti! Non vi fermate! Avanti!

La mandra scalpitava sprangava s'impennava intorno alla macchina fragorosa: lunghe criniere, lunghe code arrossate dall'intemperie; teste montonine con la favilla bianca dello spavento nell'angolo dell'occhio; poledri villosi come orsatti, su le alte gambe gracili; e l'urto degli zoccoli, e l'onda delle groppe, e l'odor selvaggio nel soffocante nuvolo.

— Muoio di sete — ella disse, quando il tumulto e il clamore furono superati. — Ho sete di quell'acqua verde; ho voglia d'inginocchiarmi sul margine e di tuffare il viso tra due ninfee.

Ella sollevò il velo, mostrò il viso nudo. Egli si volse a guardarla, con qualcosa di cavo nel petto, ch'era come l'impronta di quella nudità sempre nuova. Ella si prendeva le labbra tra i denti alternamente, inumidendole d'una stilla tratta con uno sforzo penoso dal fondo della gola. E i suoi occhi parevano aver perduta la pupilla, erano senza centro, pieni d'un tremolìo chiaro di forze che scaturivano dal buio come il gorgóglio delle dure polle nel letto delle fontane; e il segno nero nell'orlo della pàlpebra inferiore, segnato dall'arte mattutina, persisteva netto rilevando l'inumana chiarità delle iridi, allargando la larga orbita, appassionando la bellezza per la volontà di farsi più acuta.

— Ah, che cielo! Non lo vedete?

Era pallido il cielo, quasi candido, con un'apparenza eguale, eppure per ovunque variato come una mescolanza indefinita di ardori che salissero dalla terra e scendessero dal sommo, come una fluttuazione continua di cose diafane e sensibili che quella faccia riversa ricevesse su i cigli e con un battito di cigli rimandasse fino ai limiti del silenzio.

— Che faremo?

La sua ansia le diceva che il suo destino era sospeso nella luce del più lungo giorno. Ella aveva dinanzi a sé l'imagine della sua felicità riversa come la sua faccia nell'atto di mordere il dolore come un frutto maturo che la bagnasse di succo vermiglio. E non sapeva se volesse continuare senza termine quella corsa o se volesse fare una sosta in una solitudine sconosciuta. Il pensiero involontario incurvava la sua spalla secondo la forma del braccio maschile.

— Aspetteremo Vana e Aldo sotto la porta?

Appariva una esedra rossa su un prato sparso di gelsi ove pascolavano cavalli bai. Dinanzi erano le mura della città fendute di feritoie.

— Paolo, Paolo, — disse ella abbandonandosi perdutamente a quell'ansia ch'ella non dominava più — vi prego, fermiamoci a vedere la Reggia. Bisogna ch'io la veda. È la Reggia d'Isabella. Sarà ancóra aperta a quest'ora? Voglio, voglio entrare a qualunque costo. Vi prego! Bisogna che oggi io la veda. Fatemi questo dono!

Il suo meraviglioso tormento e il suo furore di voluttà e la sua riluttanza e il suo orgoglio e la sua stanchezza e la sua sete ora a un tratto si dissolvevano e si confondevano in una visione allucinante dell'amore su la ruina. Ella guardò l'inchinato sole per fermarlo col suo vóto.

— È la Reggia d'Isabella. Bisogna ch'io la veda.

— Forse è tardi.

— Non è tardi.

— Son passate le sei.

— Il giorno dura fino alle nove, oggi.

— Il custode non ci aprirà.

— Bisogna che apra. Voglio.

— Proviamo.

— Sono certa. Voglio.

La macchina s'arrestò alla porta. I doganieri s'appressarono. Nel rombo assordante, ella chinò verso di loro la sua faccia che ardeva tra le due ali come illuminata dall'ispirazione. Anelava.

— Dov'è la Reggia?

Un di loro attonito indicò la via. Taciturna e quasi deserta era la città distesa nella sua palude e nella sua tristezza. Le memorie la empivano d'un silenzio che le rondini laceravano con le strida e traevano a lembi nei loro piccoli artigli pel cielo argentino.

— E Vana? E Aldo?

— Certo, giunti alla porta, domanderanno se siamo passati.

— Domanderanno? Ecco la piazza!

La piazza era solitaria e lunga, fra palagi e torri e moli sacre, con grandi ombre respiranti in una storia di magnificenza, di gentilezza, di lussuria, di tradimento e di uccisione. Le rondini vi gettavano un clamore quasi deliro. La Reggia era chiusa. E parve alla creatura febrile che chiuso vi fosse il suo più profondo destino. Ella balzò a terra, anelante; e, simile alla figlia scacciata che ritorna in demenza, si pose a battere l'imposta coi due pugni chiusi.

— Ma che furia! Isabella, vi farete male alle dita. Certo, così spaventerete il custode che rifiuterà di lasciar entrare a quest'ora una piccola folle polverosa.

Paolo rideva, rapito tuttavia da quella vitalità volubile, da quella diversità d'aspetti e d'accenti, da quell'ardore e da quel tumulto che del luogo ov'ella era sembravano fare il punto più sensibile dell'Universo.

— C'è il campanello — disse una voce timida. Ed entrambi soltanto allora si accorsero che dietro i due sedili emergeva, di mezzo a un cumulo di cerchioni sovrapposti, il meccanico trasfigurato dalla polvere in un busto di gesso parlante.

L'impaziente si maravigliò, poi rise. Cercò il campanello, tirò con tutta la forza. Il tintinno si propagò nell'ignoto. S'udì un passo, un borbottio, uno scrocco di chiave; l'imposta s'aprì; il custode apparve su la soglia. Barbato e canuto, era la figura volgare del Tempo senza clessidra né falce. Non gli diede agio d'aprir bocca ella, ma sùbito lo avvolse nella sua implorazione irresistibile.

— Lasciateci entrare! Siamo di passaggio. Ripartiamo prima di notte. Non torneremo forse mai più. Vi prego, vi prego! Nessuno vede, nulla può accadere. Lasciate che entriamo, per un'occhiata almeno! Mi chiamo Isabella.

Più di quella grazia infantile e di quella calda voce supplichevole e di quel nome dominante valse l'offerta del compagno. Il Tempo sorrise nella barba gialliccia, e si scansò.

Allora ella si tolse il velo, si tolse il mantello; e tanta fu la luce de' suoi giovani occhi che per qualche attimo ella sembrò vestita di quella sola. Ma, quando ella si mise per la vasta scala, Paolo Tarsis udì in sé i colpi sordi del suo cuore come se la portasse su le sue braccia: pesante? leggera? Anche il corpo di lei era ingannevole, quasi duplice, come dissimulato e rivelato in una perpetua vicenda. Ecco, ella saliva di grado in grado con una pieghevolezza che pareva allungarle ancor più le gambe, attenuarle i fianchi, assottigliarle la cintura; era magra, snella, veloce, come un giovinetto allenato alla corsa. Ecco, ella si soffermava sul ripiano traendo un gran respiro; e l'occhio a un tratto si stupiva nello scoprire la larghezza delle sue spalle, la profondità del suo torace, la potenza delle sue reni, la rettitudine della sua ossatura su i piedi non piccoli ma dal fiosso arcuato così che si equilibravano sul calcagno e sul pollice come quelli della Libica michelangiolesca.

Si soffermò ella; poi fece qualche passo verso la prima sala. Il gioco dei suoi ginocchi creava nella sua gonna una specie di eleganza interiore, una grazia alterna che di dentro animava ogni piega. Ancóra si soffermò, senza più traccia di sorriso e d'allegrezza, come oppressa da un presentimento troppo grave, con le palpebre basse. L'amico era poco discosto, occupato da un'angoscia che pareva tutto abolire in lui e non lasciargli se non la possibilità d'un sol gesto nelle braccia pendenti ove si addensava l'attesa. Non lo guardava ella ma assisteva nel suo proprio corpo al fluire e all'adunarsi d'un mistero ch'ella non dominava e che pure le apparteneva più dell'intima sua midolla.

E all'improvviso dal suo corpo, dalla sua grazia, dalla sua potenza, dalle pieghe della sua veste, da tutte le linee della sua persona, da quel ch'era la sua vita e da quel ch'era apposto alla sua vita — con la fatalità dell'acqua che va alla china, del vapore che tende all'alto — si formò qualcosa di breve e d'infinito, qualcosa di fuggevole e di eterno, di consueto e d'incomparabile: lo sguardo, quello sguardo.

E fu tutto. E si presero per mano, trascolorati, senza parola, vinti da un amore ch'era più grande del loro amore, come per entrare nella casa della loro unica anima o delle loro ombre congiunte. La lor felicità terribile non più si tendeva a mordere il dolore ma ad ascoltare il grido della bellezza dilaniata e derelitta. Pareti e volte decrepite; vecchie tele sfondate; tavole e seggiole sgangherate dalle gambe d'oro misere; tappezzerie lacere accanto a intonachi che si scrostavano, a mattoni che si sgretolavano; vasti letti pomposi, riflessi da specchi foschi; impalcature alzate a reggere i soffitti; e l'odore della muffa risecca e l'odore della calcina fresca; e pel vano d'una finestra due torri rosse nel cielo, un cigolio di passeri, uno schiamazzo di monelli; e pel vano d'un'altra una strada deserta, una chiesa senza preghiere, il picchierellare di due stampelle; e appeso un lampadario a gocciole di cristallo, e obliqua una striscia di sole sul pavimento; e un altro lampadario e un'altra striscia, e più triste la cosa lucida che l'estinta; e ancóra lampadarii in fila, guasti, pencolanti, simili a fragili scheletri congelati. O desolazione, desolazione senza bellezza! «Che faremo noi dell'anima nostra?»

— Un giardino! — gridò la visitatrice traendo verso la finestra il compagno, per una sala ampliata dalle imagini dei Fiumi.

Ed entrambi s'affacciarono. Non disgiunsero le mani; stettero in ascolto come per cogliere vaghe onde di musica.

Era un giardino pensile, chiuso da un gentile portico palladiano a colonne bine; le quali apparivano più quiete perché quivi duravano in coppie costanti e, avendo tra i loro fusti un intervallo eguale, potevano ravvicinarsi nella fedeltà delle lor lunghe ombre. Piante varie v'erano confuse, arbusti e cespi vi s'affoltavano; ma tutto il verde non valeva se non per sostenere il languore appassionato di qualche rosa bianca.

Quando Paolo accostò il suo viso a quello desiderato, così che l'alito si mescolò all'alito, l'amica si ritrasse e si rivolse e guardò dietro di sé. Poi fece, sommessa, con la bocca molle:

— No. Ce n'è un altro, più bello.

Credeva di udire il preludio indistinto d'una musica che tra breve fosse per irrompere con la veemenza del torrente.

Varcarono una soglia; e li coperse il cupo azzurro d'un cielo notturno ove i segni zodiacali scintillarono riflettendosi nell'acqua stagnante degli specchi. Per la finestra saliva il profumo cocente e possente della magnolia, ebrezza delle costellazioni.

— Un altro giardino?

Era un triste cortile abbandonato. E i lampadarii di pallido vetro riapparvero in sale pompose e vuote; e riapparvero i letti insonni; e le vecchie tele cieche rossicarono e nereggiarono su le mura delle lunghe gallerie, simili alle pelli bovine tese e appese dai conciatori; e il coro dei passeri dagli embrici rotti cigolò giù per le armature sconnesse delle travi, giù pei travicelli attraversati, giù pei graticci sfondati dei palchi in ruina; e tutto fu ancóra desolazione senza bellezza.

— Vana! Aldo e Vana!

Lo sbigottimento spegneva il grido d'Isabella. Vedeva ella venirle incontro, pel silenzio d'una stanza occupata dall'ombra di un letto lugubre come un feretro, due creature silenziose e fisse come quelle che senza pianto dal fondo della loro stessa vita vanno incontro al destino lacrimabile.

— Aldo, Vana, siete voi? siete voi?

— No, Isabella. Siamo noi, nello specchio. Perché tremate così?

— Noi!

Era un alto cristallo che, in bilico tra due colonnette, rasentava il pavimento specchiando l'intera persona diritta in piedi. Il fascino n'emanava come da un parallelogrammo magico.

— Perché tremate così?

Vinta e riluttante, ella si appressava all'imagine traendo per la mano il compagno inquieto; entrava nell'ombra funerea del letto; fissa, non riconosceva il suo sguardo in quegli occhi che la guardavano quasi nudati, quasi privi di cigli, privi di battito, immensi, più misteriosi della tomba, misteriosi come la follia.

— No, no! Ho paura.

Ella balzò lontano, fuggi per le stanze contigue, sotto cieli d'oro e d'oltremare, sotto cieli dolci come le turchine malate e le dorature sdorate, sotto pallide ricchezze diffuse e sospese; sotto un silenzio scolpito e inevitabile.

— Isabella!

La desolazione si trasfigurava. Si mutavano ora in lembi di melodia patetici come i gridi del desiderio e dello spasimo le vaghe onde di musica ondeggianti intorno alle rose bianche dell'orto pensile. La ruina, liberata dai vestigi della vanità e della miseria intruse, respirava nell'antica grandezza per tutte le bocche delle sue ferite, respirava e soffriva e moriva anelante verso il più lungo giorno. Tutti i segni erano eloquenti, tutti i fantasmi cantavano. Le Vittorie mostravano l'anima di ferro sotto gli stucchi disgregati, e non più la corona fronzuta tendevano ma il cerchio di rugginoso ferro. Le Aquile sublimi abbrancavano i festoni di frutti putrefatti e caduchi.

— Isabella!

Ella andava andava, esitando tra l'una e l'altra stanza, non sapendo in quale l'anima sua fosse per trarre un più profondo sospiro. E le stanze si moltiplicavano; e la bellezza s'avvicendava con la ruina, e la ruina era più bella della bellezza. E gli occhi si dilatavano per tutto vedere, per tutto accogliere; e l'intero viso viveva la vita dello sguardo. E l'anima si ricordava; ché le forme scomparse rinascevano e si ricomponevano in lei musicalmente, e traeva essa la gioia della perfezione da ciò ch'era imperfetto, la gioia della pienezza da ciò ch'era menomato. E il giorno era protratto dal prodigio ma nessun indugio era concesso; e su ogni soglia il piede si posava temendo il divieto ma lontana era tuttavia la soglia della sera.

— C'è in là un altro giardino, — diceva ella errando — un altro giardino.

E, attraverso una grata, apparve una corte ingombra di macerie e d'erbe fra mura fendute ove rimanevano tracce di ornati dipinti a nodi; e, oltre le mura, una zona di palude rifulse, e riudito fu lo stridìo delle rondini, e traudito fu il gracidìo delle rane, nel cielo, nell'acqua, in un solo ardore indistinto. E la straziante Estate chiamò, tra l'una e l'altra voce.

— Non è questo.

Ella vacillava sul pavimento sconnesso, ancor qua e là inverdito dallo stillicidio; e sopra lei le macchie pluviali scurivano i lacunari azzurri del soffitto ove un oro più nobile e più solido di tutti gli ori s'ammassava in volute, in rosoni, in pigne scolpiti con robustezza romana. Le Sirene s'incurvavano, tra i fogliami sporgenti come le mammelle dei bei mostri marini, in un fregio di così forte rilievo che eguagliava la misura dei grandi versi memorabili. Lungo gli stipiti delle alte finestre le Vittorie tendevano all'estremità dei moncherini i cerchi di ferro rugginoso.

— No, Paolo, no! Non qui, non qui! Vi supplico!

Ella sfuggiva alle mani tremanti del compagno. Gli mostrava un viso che pareva decomporsi e ricomporsi come nella vicenda del terrore e dell'ebrezza. Ed entrambi, da una soglia all'altra, dalla luce all'ombra, dall'ombra alla luce, perseguitavano la loro angoscia senza fine.

— È questo? — disse Paolo chinandosi a un davanzale.

Era la squallida memoria d'un altro giardino pensile, ingombro di ortiche, di rottami, di vecchie docce contorte. Un Tritone sonava la bùccina su una parete forata e maculata; qualche papavero ardeva qua e là come una fiammella spersa. Più nere parevano le rondini in un cielo più lontano.

— Ci può essere una cosa più triste in terra? — disse la donna ritraendosi.

Ricominciava la desolazione: la cappa demolita d'un camino nera di fumo; una serie di finestre murate; un corridoio cosparso di calcinacci; un'aula biancastra con su le pareti le tracce del lordume umano e dei tramezzi sovrapposti; una scala di pietra consunta; e un altro corridoio simile alla corsia d'un ospedale evacuato; e poi un'altra scala immensa, discendente fra nicchie deserte a un'orrida porta fatta di assi sconnesse e di travi traverse, che pur pareva più inespugnabile del triplice bronzo, inchiodata sopra un varco senza nome.

— Isabella!

— Ho paura, ho paura.

Ella aveva in sommo della gola l'atroce pulsazione della sua vita. Perduta era dentro di sé, fuori di sé.

— Dove siamo? Si fa sera?

Egli l'aveva ancóra presa per la mano come per condurla; e dentro di sé e fuori di sé era perduto. Camminavano sul loro stesso tremito, come su una corda tesa e oscillante.

— Ah, non posso più!

Chi dei due aveva esalato quell'anelito? Ancor due erano le bocche ma una era l'ambascia, e le loro due forze confuse non la sostenevano.

— Non posso più!

D'improvviso rientravano nell'azzurro e nell'oro, riudivano la melodia dominante, rivedevano splendere il più lungo giorno.

— Forse, forse, forse....

Verso l'oro e l'azzurro ella aveva levato la faccia; e la sua stessa anima era diffusa sul suo capo ricca e inestricabile, effigiata nelle sue mille ambagi. Ella leggeva con gli occhi torbidi la parola spaventosa inscritta innumerevoli volte, tra le vie dedàlee, nei campi oltremarini.

— Forse, forse, forse....

Gli disse quella parola entro la bocca, sotto la lingua; glie la disse entro la gola, alla sommità del cuore; ché egli le aveva preso con le dita il mento e con le labbra il fiato, il più profondo fiato, quello che sanno le vene i sogni i pensieri.

Allora furono due creature che allucinate e riarse per un deserto di mobili dune giungono col medesimo anelito alla cisterna occulta e insieme vi discendono, vi si precipitano, si protendono verso l'acqua che non vedono, nell'angustia si urtano, si dibattono; e ciascuna vuol bere prima e di più, e sente dietro le sue labbra molli crescere la rabbia mordace, e l'ombra e l'acqua e il sangue sono al suo delirio un solo sapore notturno.

Egli bevve il primo sorso, ché un succo divino riempì d'un tratto sino ai margini il calice nudo; e, per non perderne una stilla, egli reggendo con le dita il mento pose l'altra mano dietro la nuca, di sotto alle ali, e tenne il bel capo come si tiene un vaso senza anse. E teneva forte, serrava troppo forte, inspirando l'istinto alla sua bramosia l'atto di spremere, il primissimo gesto insorto dalla cecità del nato d'uomo; ché gli sembrava di nutrire per la prima volta la sua più profonda innocenza.

Ella si vuotò di dolcezza, si fece tutta vacua e lieve come se un'aria calda circolasse nella concavità delle sue ossa prive della midolla insensibile; e un gemito sommesso, quasi una implorazione senza suono, accompagnava quel miracolo. Ma, quando si sentì distrutta sino al fondo, volle rinascere; e scosse un poco il capo per allentare la presa e liberò dalle labbra le labbra e le riattaccò sovrapposte per avere quel che aveva donato. E la vicenda si fece cruda come una lotta di feritori; ché l'una e l'altro cercavano giungere qualcosa d'ancor più vivo e segreto, i precordii, gli spiriti balzanti dell'intima vita. Ed entrambi sentivano la durezza dei denti nelle gencive che sanguinavano. E arrossato da una sola piccola goccia era tutto il fiume carnale che fluiva sul mondo.

Un lento fiume si partiva da loro, generato da quella congiunzione, da quell'immensità di gioia ch'essi avevano contenuta sino a quel punto inconsapevoli. Inondava la Reggia, passava per le innumerevoli soglie ov'era passata la loro angoscia, traeva seco tutti i resti della bellezza, sboccava nei giardini ch'essi avevano contemplato e in quelli ch'eran rimasti invisibili, traversava la palude, solcava la pianura, si perdeva senza foce nell'estate senza confine. E il gemito sommesso, debole come il fiotto d'un bambino infermo, accompagnava il miracolo; ché, pur mordendo, la donna non cessò da quella implorazione quasi senza suono, onde la voluttà pareva soffusa di dolore e velato di pietà il combattimento.

— Non più!

— Ancóra! Ancóra!

— Non più!

Un gran sobbalzo la distaccò dall'amante. E le sue pàlpebre gravi battevano per respingere la nube addensata, per riacquistare il lume, per distinguere il fantasma dalla presenza certa. Era ancóra l'imagine nello specchio? Era ancóra lo sguardo della follia negli occhi suoi divenuti estranei? Era il pallore stesso della sua perdizione quello? Ah, non credeva di poter essere tanto livida!

Era Vana, Vana nel colore della morte ma respirante, appoggiata contro lo stipite come chi sia per stramazzare, aperta gli occhi come chi non possa più serrarli. Era la sua piccola sorella.

E la voce di Vana era quella che parlava, se bene irriconoscibile. Con affannosa rapidità Vana, senza potere ancor muoversi, disse:

— Ora viene Aldo.

S'udiva il passo del fratello nella stanza contigua. Lo sforzo della dissimulazione fu concorde. L'adolescente apparve su la soglia, corrucciato.

— Ah, siete qui? Vi troviamo finalmente! Avreste ben potuto aspettarci, o almeno degnarvi di lasciar detto qualcosa per noi alla Porta Pusterla.

— Credevamo che tu fossi lì lì per raggiungerci — rispose Isabella, domato il turbamento. — C'era parso di udire la tua cornetta, Aldo. E abbiamo pur lasciato il custode giù.

— Sorte, che Vana è indovina! Per tutta la strada non abbiamo fatto che mangiar polvere.

— Al momento di partire, non t'ho io proposto d'andare avanti? — disse Paolo Tarsis.

— Ma tu hai una torpedine da corsa e io ho una testuggine di palude.

— Ottima per questo paese, dunque.

Paolo desiderò di scomparire, di ritrovarsi in qualsiasi parte ma lontano. In quella falsa gaiezza si risolveva la sua gioia di porpora!

— Piccolo, via, non mi tener broncio. Sei sempre scontento — disse Isabella, morbida, lisciando con l'anulare i fini sopraccigli del fratello velati come di cipria.

— Isa, promettimi che vieni con me pel resto della strada e mandi Morìccica con Paolo.

— Sì, se vuoi.

— Voglio, voglio.

— Ah, come ti vizio!

— Che hai nei denti?

— Che ho?

Ella serrò la bocca e di sotto fece scorrere su i denti rapida la lingua.

— Anche nel labbro.

— Che ho?

— Un po' di sangue.

— Sangue?

Ella cercava il fazzoletto; e si traeva indietro con moti quasi coperti, chinando sotto le ali ferrugigne il viso ch'ella credeva di fiamma. Con una tenerezza accigliata ch'era una crudeltà inconsapevole, il fratello insisteva da presso; stendeva la mano verso di lei; le prendeva tra il pollice e l'indice il labbro inferiore; diceva:

— Hai un piccolo taglio.

Involontariamente Paolo si volse dall'altra parte, con l'atto di guardare sul camino di marmo rosso lo specchio barocco in una ghirlanda di Amorini alati, stretto dall'ansia, temendo che su lui apparisse la medesima traccia. Scorse il capo di Vana alzato verso il labirinto del soffitto e percosso da un fascio di luce sinistra. Con un colpo sordo nel cuore, udì l'accento della voce ammirabile nella menzogna. Conobbe la nuova qualità di quella voce, che diceva:

— Ah sì, forse, quando son caduta, dianzi laggiù, mettendo il piede in una buca dell'ammattonato....

Ed ella cercava il fazzoletto per coprirsi la bocca come se le fosse tutta una ferita cocente.

— Tieni — disse Vana porgendole il suo.

Era rimasta col capo levato verso il soffitto, come assorta, come attenta a udire il custode narrarle l'avventura di Vincenzo Gonzaga, che illustrava l'emblema parlante; ma non aveva mai distolto dalla sorella lo sguardo obliquo, quell'iride chiara sì duramente torta nell'angolo delle pàlpebre. E Paolo vide nel fascio di luce il risalto del bianco, intenso come smalto, su la stretta faccia olivastra; vide quella mano tesa. E nella faccia e nella mano era tanta forza d'espressione e d'illuminazione ch'elle parevano sorpassare la realtà e intagliarsi nel cielo stesso del fato, come quando il crinale delle Dolomiti solo arde nei crepuscoli inciso contro tutta l'ombra, e ciascuno dei suoi rilievi s'addentra nell'anima di chi mira, e vi s'eterna.

Forse che sì forse che no — disse l'adolescente con una voce ch'era già velata dalla malinconia, leggendo il motto inscritto negli intervalli dello scolpito errore. — Perché, Isa, tra l'uno e l'altro Forse c'è un ramoscello e non un'ala, non la tua ala, Tarsis? L'ala di Dedalo o il filo di Arianna. Perché dunque un ramoscello?

— Non so — rispose la bocca baciata.

— Non so — rispose il costruttore d'ali incatenato alla terra.

— Perché, Morìccica?

— Non so — rispose la vergine oscura che aveva voluto esser macchiata dalla goccia del sangue voluttuoso.

— Non so — rispose a sé medesimo l'adolescente oppresso dei suoi anni così pochi e così carichi d'ignota pena.

E non sapevano; e in ciascuno era una strana esitanza a uscire da quel luogo, a volgersi altrove, ad andare avanti o a tornare indietro, come se dall'alto le liste d'oro si prolungassero in una zona pieghevole che invisibilmente li circuisse e li annodasse di continuo.

— Andiamo — disse Aldo ponendo il braccio sotto quello d'Isabella. — Io voglio vedere il Paradiso, e nulla più.

Quando per la scaletta di tredici gradini il custode li condusse agli scrigni della principessa estense, quando riudirono la rondine stridere nella perla sospesa del giorno, la potenza chimerica della vita li percosse tutti nel mezzo del cuore, quivi fece più crudamente dolere i mali e i sogni inconfessabili. E l'uomo nel rigoglio della virilità esperto d'ogni rischio e d'ogni mèta, immune da ogni paura e da ogni abitudine, armato di diffidenza e di dispregio, che aveva conosciuto giorni innumerevoli in cui la disciplina della sua virtù piantata su le due calcagna gli bastava a vivere, guardò il meraviglioso ingombro del corpo omai promesso e oppose al presentimento della sciagura l'imagine dell'orgia liberatrice, memore del marinaio disceso nel porto per ripartir più leggero domani verso l'Oceano; e gli gonfiò le vene l'impazienza di saziarsi. Non ignara del piacere e bisognosa di gioire soffrendo, smaniosa di sporgersi all'orlo delle tentazioni più terribili, con un cuore timido e temerario, soave e spietato, la donna aspirava intorno a sé l'ardore delle anime simile all'odore sulfureo dell'uragano; e non formava alcun disegno, non si preparava contro l'impreveduto; pesava sul ritmo de' suoi ginocchi la divina bestialità del suo corpo, covava la sua astuzia e la sua lussuria nel suo calore più profondo. Ma la vergine e l'adolescente non avevano difesa contro lo strazio, non contro il profumo della magnolia, non contro la pallidezza della palude, né contro l'estasi dell'aria, pieni entrambi di forze discordi che facevano un cupo tumulto disperdendosi e risollevandosi a ogni soffio intorno un'ombra che forse aveva una sembianza da non poter essere guardata fisamente senza terrore.

— Ecco il mio giardino — disse Isabella piegandosi sul davanzale, con l'accento medesimo ond'ella avrebbe detto all'inizio d'una confessione impetuosa: «Ecco la mia colpa, ecco la mia gloria».

Un'ebrezza perversa si partiva da lei, mista di spontaneità e d'artifizio, espressa ora col viso nudo ora con la maschera, ora con l'affettazione dell'attrice sapiente ora con la più ignara grazia animale.

— Te l'imaginavi così, Aldo?

Al fianco di lei si piegava il fratello, cingendole col braccio la cintura, su la pietra calda.

— Guarda, Morìccica. Guardate, Tarsis.

Vana e Paolo s'appressarono; ed ella si scansò perché giungessero a scoprire i rosai. Attirò Vana contro sé per sentirla fremere; e sul capo chino di lei fece passare il suo sguardo verso l'amante, uno sguardo che non era un baleno ma qualcosa che pesava, che colava come una materia fusa. E stavano là tutt'e quattro in un gruppo, nel calore, nell'odore, invasi da un intorpidimento leggero che somigliava il principio di un incantesimo.

Anche il giardino era intorpidito, quasi imbiutato d'un silenzio pingue come il miele come la cera come la gomma. Era un abbandono e una tristezza che si consumavano in profumo tardo. Gli spiriti dell'olio si sprigionavano dal cociore dello spigo e del rosmarino; le albicocche pendevano mézze nella fronda floscia, qualcuna sfatta, aperta sul nòcciolo, stillante; i rosai non potati avevano sprocchi tanto lunghi e teneri che s'incurvavano sotto una rosa scempia; e la pallida palude vergiliana appariva di là dagli alti gigli tanto ricchi di pòlline che n'eran lordi.

— Quando io vivevo — disse piano l'incantatrice, col volto quasi vaporato dalla squisitezza del sorriso — il mio giardino era pieno di pecchie e di camaleonti.

Un'ape entrò, sonora. Gli occhi dell'adolescente la seguirono con una meraviglia che rese straordinario il volo. Tutt'e quattro, raccolti nello strombo della finestra, ascoltarono il lungo errante ronzo. Poi si guardarono tra loro fuggevolmente, e videro che tutt'e quattro avevano gli occhi chiari ma diversi, attoniti come se questa simiglianza dissimile scoprissero per la prima volta.

— Ah come sapevo vivere! — soggiunse Isabella affascinata dal suo gioco stesso. — Nelle mie piccole stanze, sul margine dei miei stagni pigri, possedevo i sogni delle città famose. Vedete, vedete: quelle del settentrione e quelle del mezzogiorno, le brune e le bionde, le grige e le bianche....

E apparivano nelle lunette le piante dipinte delle città circondate di mura e di torri, bagnate dal mare, attraversate dal fiume, fondate sul monte: Parise e Gerusalemme, Ulma e Lisbona, Berna e Marsilia; e quelle che sono per le imaginazioni degli uomini come gli aromi gli ozii le febbri i filtri le danze: Algeri, Toledo, Messina, Malta, l'egizia Alessandria.

— Isa, Isa, — sospirava l'adolescente — perché non siamo stanotte nella vecchia Algeri, su una terrazza bianca, vestiti di seta, con molti cuscini, con molte bevande, con qualcuno che ci canti qualche lunga storia che noi s'ascolti e non s'intenda!

— Taci, taci — ella disse con l'indice su la bocca, avanzandosi lievemente verso l'altra soglia. — Ascolta l'ape.

L'artefice studiosa era passata nella saletta contigua; e il bombo pareva cambiar tono, farsi più sonoro, come moltiplicato da una tavola armonica, simulando il vibrare della corda bassa.

— Ascolta, che musica!

— Suona la viola bordona — disse Aldo, sommesso, appressandosi in punta di piedi, tratto dall'istinto mimico dell'adorazione a imitare i modi della sorella.

Si sporse dalla soglia l'incantatrice, poggiando le mani all'uno e all'altro stipite; guardò intorno, guardò in alto; poi senza parlare volse la faccia irradiata dal riflesso del tesoro scoperto. E tutti gli occhi chiari intorno ricevettero il grande bagliore.

Entravano nella cassa dorata d'un clavicembalo? entravano in una teca votiva lavorata dal principe degli orafi per custodire gli avorii miracolosi dell'arpa di Santa Cecilia? Il bombo dell'ape era come la vibrazione della corda sotto la penna di corvo in una cadenza allungata; ma il silenzio era come il silenzio che vive dentro i reliquiarii.

— Isabella! Isabella! — ripeteva l'adolescente, abbagliato, leggendo per ovunque il nome della divina Estense.

E la sorella con un sorriso di felicità infantile guardava attorno interrogando lo stupore di ognuno, come per una foggia della sua eleganza, come quando metteva una bella veste nuova e chiedeva: «Ti piace? Vi piace? È tutta mia l'invenzione».

— Quando io vivevo — disse piano — qui si faceva musica, verso quest'ora. Te ne ricordi, Vanina?

— Io me ne ricordo — disse Aldo, movendo a vuoto le dita della sinistra come usava lungo il manico del suo violoncello. — Forse la mia viola da gamba è ancora chiusa là, in quello stipo.

Più delicata della filigrana era l'opera del soffitto, intorno all'arme delle due aquile e dei tre gigli d'oro. Alle pareti erano gli stipi per gli strumenti e per le intavolature, e nel legno figurati a tarsia il dolzemele il buonaccordo la viola la virginale l'arpa, e miste alle figure musicali erano strane imagini di palagi e di verzieri come per significare i luoghi inesistenti a cui sul fiume della melodia l'anima anela pur dal più lieto dei soggiorni. E, quivi anche, sopra uno stendardetto era intarsiato il nome soave.

— Certo è là, la tua viola — assentì l'incantatrice, con gli occhi fissi. — La vedo bene, Aldo. Ho sempre invidiato quel suo colore rossobruno, pei miei capelli. Ah, se tu potessi mai cavare una nota che gli somigli! E quelle chiazze giallastre della vernice sul fianco, più trasparenti dell'ambra! E dietro, nel mezzo della cassa, quella doratura a strisce di zebra, ricca e dolce come la gola di un uccello tropicale! Il dosso del manico è pallido, levigato dalla tua mano.

— Morìccica, e che bel liuto avevi tu per cantare! — disse l'adolescente inebriandosi. — La cassa era costruita come la carena dei navigli a liste di legno alterne, chiare e scure, ma più leggera d'un guscio di noce. E la rosa era traforata così sottilmente che appena appena ci passava un raggio di sole quando la mettevi contro luce perché si leggesse in fondo il nome del famoso liutaio.

Stavano essi addossati agli stipi, come immemori, indugiandosi nella misteriosa tregua. Pareva che tutto divenisse musica, per cui la stanza angusta abitata dall'antica anima era congiunta alla lontananza immensurabile. Non il suono delle campane faceva biancheggiare il cielo esausto d'aver sì lungamente risplenduto? S'udiva nelle pause dalla palude salire il primo coro delle rane; e, quasi illuse dalla rispondenza, n'eran bianche le acque. E tutto era bianchezza e lentezza: ancóra i veli della sera vegnente per quella fiumana d'oblio erano indistinti, se bene i salici avessero già nelle capellature un poco d'ombra.

— Questo cielo, Aldo, mi fa ripensare a quella parola che mi mostrasti in una dedica d'un Libro di Cantate, forse dedicato a me quando vivevo. Te ne ricordi?

— Me ne ricordo. «Il cielo stesso come Autore della Musica sia testimonio....»

— Autore della Musica!

— Era un libro di Cantate a voce sola, del Mazzaferrata. E ce n'era una per oggi, una per quest'ora: «Ove con pié d'argento». Era rilegato in pergamena impressa, lucida come i cofanetti di pastiglia; e sul rovescio della legatura era scritto a mano: «Doppio ardor mi consuma». E la carta era fragile, molle, consunta nei margini: cominciava a morire per le estremità come le foglie d'autunno. Te ne ricordi? Anche il libro dev'essere nello stipo.

Isabella consentiva alla fantasia dell'adolescente con quel suo sorriso durevole, sospeso su la piccola ferita del labbro.

— Vanina, — ella disse — perchè non prendi il tuo liuto e non ci canti sotto voce una canzone?

— La canzone di Thibaut de Champagne roy de Navarre: «Amors me fait commencier Une chanson novelle....» — disse Aldo. — Oppure quella d'Inghilterra, così dolce, su le parole di Ben Jonson il Tragico, quella che finisce: «O so vhyte, o so soft, o so sweet, so sweet, so sweet is shee!» A che pensi?

Vana esitò, quasi temendo di non aver più la sua voce primiera, quasi credendo di dover parlare per la prima volta con la mutata voce. Poi rispose:

— Mi domandate di cantare, e io pensavo alle parole di quell'altro tuo poeta. «O rondine, sorella rondine, io non so come tu abbia cuore di cantare.... Ti prego di non cantare, almeno per un poco!» Domandiamo una pausa alle rondini, intanto.

— È vero — disse Isabella.

Veramente i gridi delle rondini laceravano l'estasi del più lungo giorno. A tratti, gli stormi passavano dinanzi la finestra come saettamenti disperati.

— Quanto mi piace oggi, Vana, la tua malinconia! — disse Aldo.

— Anche a me — disse Isabella.

Addossata allo stipo, con la testa appoggiata alle tarsie, con le mani senza guanti abbandonate in giù, con le lunghe ciglia brune socchiuse sopra lo smalto luminoso, Vana aveva il volto di chi sentendosi venir meno rattenga tra i denti la sua propria anima e la gusti. La sua bocca era lievemente convulsa da un sapore simile a quello di certe erbe che masticate forzano i muscoli del sorriso.

— Isa, ti ricordi di quella tavoletta di Cesare da Sesto in quella bella cornice sdorata, che vedemmo a Francoforte? — disse Aldo. — È una Santa Caterina d'Alessandria, in un paese di boschi di acque di monti, vestita di verde, elle posa le mani su la ruota dentata del suo martirio. Le estremità delle sue dita smorte sono presso i denti di ferro crudeli. Ma lo spirito musicale di quella pittura ci entrò in cuore. Mi ricordo che tu dicesti: «Le sue dita si posano su la ruota così dolcemente che sembra tócchino i tasti d'un arpicordo».

— È vero.

— Così è Vana oggi.

Paolo Tarsis taciturno ascoltava il dialogo fantastico; e l'aspetto e la voce dell'adolescente gli movevano una sorda gelosia, e l'angustia di quella stanza e l'afa del passato e quelle imaginazioni e quelle morbidezze lo soffocavano. Egli a quando a quando vedeva la nuda brughiera lontana, il suo grande airone bianco ricoverato sotto la tettoia di ferro e di assi, le tuniche azzurre de' suoi meccanici occupati intorno al congegno. E dal turbamento, che gli davano i sogni musicali, nascevano le forme delle vaste nuvole che dovevano rendere patetico il cielo della sua vittoria. E, come passava rasente la finestra lo stormo a saetta, egli era percorso da una sorta d'impazienza muscolare e riudiva in sé il sibilo dell'elica.

— Quanto mi piace questo! — disse Isabella dopo una pausa, come una che abbia morso la polpa d'un frutto e ne lodi la bontà con la bocca bagnata di succo; ché la sua voce rendeva sensuali anche le sottigliezze dell'intelligenza.

— Rimaniamo qui? — disse Aldo. — Riprendi possesso del tuo Paradiso? Stanotte avremo la più grande sinfonia di rane che mai si possa udire. Le rane mantovane sono famosissime: superano perfino le ravennati in arte armonica.

— È la notte più breve.

— Io non voglio dormire.

Di nuovo egli s'era appressato alla sorella con la grazia d'un paggio, seguito dall'inquietudine di Paolo. Era tanto bello che avanzava di bellezza le due creature del suo sangue. La forma della sua fronte su l'arco dei sopraccigli era simile a quella dei giovini Immortali; e chi la guardava non poteva cessare di guardarla, ché involontariamente risaliva di continuo a quella perfezione. Ond'egli, accorgendosi che di continuo lo sguardo altrui non s'affisava ne' suoi occhi ma più su de' suoi occhi, aveva il sentimento di portare una corona ammirabile; e ne pareva accresciuta la fiamma della sua spiritualità come la leggerezza delle sue movenze.

— Bisogna dunque andare? — disse Isabella.

E rimirò la filigrana del soffitto, ove ancora l'ape dimenticata bombiva come lungh'esse le cellette dell'alveare. E rivide negli scomparti il suo nome, il motto magnanimo, l'Alfa e l'Omega, l'enigmatico numero XXVII, i segni musicali, il candelabro a triangolo, la sigla intrecciata, il mazzo di polizze bianche.

Nec spe nec metu! Ma io spero quel che temo, e temo quel che spero.

— È per te — disse Aldo — quel madrigale di Gerolamo Belli d'Argenta che Vana ti canterà: «L'onde de' miei pensier portano il core Hor ai lidi di speme hor di paura....»

E il sogno ebbe un torbido intervallo. E tutti gli occhi chiari s'incontrarono fuggevolmente.

— Che vuol significare il numero ventisette? — chiese Vana, che nella confusione del suo spirito si volgeva con un'ansia superstiziosa verso gli indizii e i presagi.

— Non me ne rammento — rispose Isabella. — Ma è un numero che forse non dimenticherò più.

E guardò il taciturno per ricordargli che il ventisette era la data prossima della gara suprema nella Festa dedàlea. E lo sguardo impose l'attesa, promise: «Dopo»; e fu per lui come l'ondeggiare delle lunghe fiamme in cima alle aste delle mète aeree.

— E il fascio di cartelline? — chiese Vana.

— Sono le polizzette del gioco di ventura — rispose Aldo — quelle che si traggono dall'urna cieca della sorte.

— Bianche?

— Sì, bianche.

— Cedimi questa impresa, Isabella — disse Vana.

— O non piuttosto quella delle Pause? — disse Aldo.

— Che è l'impresa delle Pause?

— Quella dei segni musicali su la rigata, che vedi là; ed era la più cara a Isabella.

— Tu che decifri le intavolature, la sai lèggere?

L'adolescente si volse e balzò a sedere sul largo davanzale per essere più presso alla cornice ove poggiava il cielo dell'imbotte scolpito ad anelli a rosoni a legacci, ne' cui fondi eran ripetute tutte le imprese fuorché quella delle Pause ricorrente sola nel fregio vaghissimo.

— Se non sbaglio, c'è la chiave di contralto; e poi ci sono i segni dei quattro tempi; e poi i segni di tre pause di valore decrescente: due, una, mezza; e poi un sospiro del valore di una minima; e poi le tre pause in ordine inverso; e infine il segno del ritornello doppio.

Tutti i volti erano in su, pensosi; tutti gli occhi chiari scrutavano il cartiglio.

— È la notazione del silenzio — fece Vana.

— La canzone che non canterai, Morìccica — fece il fratello ancor seduto sul davanzale, stendendo verso di lei la mano e toccandole la spalla. — Che strana impresa, e come profonda! Isa, tu l'avevi cara più d'ogni altra, tanto che alla Corte di Ferrara per le feste in onore di Lucrezia Borgia comparisti vestita di una camóra «recamata di quella invenzione di tempi e di pause».

— M'è sempre cara — fece l'incantatrice. — È il valore di quel che non dissi non dico non dirò mai.

Sorrideva col viso in profilo, metà nella luce e metà nell'ombra.

— Riassumo da oggi l'impresa delle Pause — ella soggiunse. — Ora andiamo.

Si volse per passare nel camerino attiguo.

— Ma come non l'abbiamo veduta? — fece con un grido di meraviglia, e s'arrestò.

Una piccola porta di marmo era dinanzi a lei, una porta gemmea, trattata anch'essa con ceselli da orafo come quella d'un ciborio, a cui i dischi di nero antico alternati coi tondi candidi in basso rilievo davan qualcosa di funebre quasi che s'aprisse sopra il sepolcro d'una delle «pute» mantovane, forse di Livia, forse di Delia, morta di baci. Un fregio di grifi sovrastava all'architrave; i fondi dei riquadri brillavano di pagliuzze d'oro come incrostati di venturina; e la figura avvolta d'un peplo piegoso, in atto di tenere il flauto di Pan, era la Musica ed era Isabella. Ma chi era, nel basso rilievo sottoposto, la donna ignuda avente sul capo i chiusi volumi, sotto il piede un teschio umano?

— Ecco un'allegoria oscura come l'impresa delle Pause — disse Aldo inginocchiandosi per indagare l'imagine. — Tu stessa l'ispirasti a Tullo Lombardo?

Ella si chinava con le due mani su le spalle di lui a guardare.

— Ti somiglia — soggiunse sottovoce il fratello.

— È vero — ella assentì sommessa.

Ed entrambi rimanevano intenti, s'indugiavano. La sorda gelosia rimorse il cuore del taciturno.

La figura scolpita a guisa di un cammeo aveva anch'essa le lunghe gambe lisce e l'un ginocchio molto proteso innanzi nell'atto d'incedere con quella maniera espedita che dava tanta pieghevolezza al passo della giovine signora e distendendo la stretta gonna palesava nel gioco alterno il disegno della coscia fino all'anca e l'inflessione del grembo sparente.

— Aldo, Aldo, scacciala!

Ella si raddrizzò, si schermì, sentendo il ronzìo dell'ape presso la sua gota. Con un balzo varcò la soglia; e i suoi piccoli gridi sonavano sotto il cielo d'oro, ché l'ape la perseguitava importuna; e le sue mani s'agitavano alla difesa puerile.

— Ahi! M'ha punta!

In uno di quei gesti scomposti la pecchia provocata l'aveva punta alla mano manca, nel polpaccio del pollice.

— Mi fa male! Bisogna suggere forte, Aldo!

Aldo non rideva più. Ella gli tendeva la mano supina, ed egli pose le labbra su la puntura per medicarla.

— Sì, così.

Egli suggeva più forte.

— Basta!

Ella rideva d'un riso che a Paolo sconvolto pareva l'eco attenuata di quello già udito lungo il canale delle ninfee dopo il passaggio del carro carico di tronchi.

— Basta. Non mi duole quasi più. Mi brucia un poco soltanto.

L'occhio di Vana era cattivo. La sorella empieva della sua ilarità tutta la stanza, trascorrendo intorno con una grazia di movimenti così forte ch'ella sembrava emanare da sé quella stellante ricchezza d'azzurro e d'oro come il pavone apre la sua rota sidèrea.

— Riconosco, riconosco. Non avevo in questi armadii le mie più belle vesti? Non erano tappezzati di velluto crèmisi i miei stipi?

Ella aveva scoperto in un angolo del nudo legno un frammento del prezioso drappo.

— Non li ho lasciati qui i miei broccati, i miei rasi, i miei tabì?

— Isabella! Isabella!

Aldo leggeva il nome nelle targhette che allacciava il meandro d'ulivo.

— Eri anche allora la più elegante dama d'Italia — disse egli adulando la giovine donna come soleva. — Oggi hai per rivali Luisa Merati, Ottavia Santeverino, Doretta Ladinì; allora gareggiavi con Beatrice Sforza, con Renata d'Este, con Lucrezia Borgia. Allora la marchesa di Cotrone ti mandava a chiedere per modello una sbèrnia, come oggi Giacinta Cesi ti manda a chiedere un mantello. Che erano al confronto i grandi corredi d'Ippolita Sforza, di Bianca Maria Sforza e di Leonora d'Aragona? Ma quella Beatrice era veramente la spina del tuo cuore. S'era fatti ottanta quattro vestiti nuovi in due anni! Tu l'anno scorso per le quattro stagioni te ne facesti novantatre. E la Borgia, quando andò sposa ad Alfonso aveva con sé duecento camicie meravigliose! Tu superasti e l'una e l'altra. Chiedevi ai tuoi corrispondenti milanesi e ferraresi notizie minutissime delle due duchesse, in vestiario e in biancheria, per non restar mai indietro. Anche allora tu eri una inventrice di fogge nuove. Tu inventavi le mode. Portasti a Roma quella della carrozza. Avevi il desiderio smanioso delle novità eleganti. Ti raccomandavi ai tuoi fornitori perché cercassero «di cavar de sotto terra qualche cosetta galantissima». Anche allora amavi gli smeraldi, ed eri riuscita a possedere il più bello dell'epoca. A Venezia, a Milano, a Ferrara avevi mediatori con orefici. Non ti contentavi d'aver le più belle gioie ma le volevi squisitamente legate: anelli, collane, cinture, bottoni, braccialetti, catene, frange, sigilli. Il tuo orefice prediletto fu quell'ebreo convertito, di nome Ercole de' Fedeli, che fece lavori di niello e di cesello incomparabili, tra cui forse la famosa spada di Cesare Borgia, ch'è in Casa Caetani, e la cinquedea del marchese di Mantova, ch'è al Louvre.

Egli pareva aver bevuto il vino di quattro cent'anni in uno di quei vasi di calcedonio o di diaspro forniti d'oro che la Estense aveva raccolti innumerevoli negli armarii della Grotta in Corte Vecchia. Era ebro di passato ma provava un piacere quasi malsano nel mescolare le cose vive alle cose morte, nel confondere le due eleganze, nel frugare le due intimità. Ella lo secondava, quasi per una volontà d'inesistenza, con le ciglia senza palpito e col sorriso durevole dei ritratti magnetici.

— Ricordami ancóra! — ella diceva per incitarlo, a ogni intervallo, come s'egli non le narrasse cose nuove ma le risvegliasse la memoria.

— La duchessa di Camerino, Caterina Cibo, faceva fare a Mantova i suoi vestiti sotto la tua sorveglianza come ora Giacinta Cesi non va dalla sarta se tu non l'accompagni.

— Ricordami!

— Nel tuo viaggio di Francia, l'ammirazione per le tue guise fu unanime, come oggi gli occhi delle Parigine ti divorano quando tu esci da un teatro o entri in un salotto ben frequentato. Perfino Francesco I ti chiese qualche veste da donare alle sue donne; e Lucrezia Borgia, la tua rivale, dovette rivolgersi a te per avere un ventaglio di bacchette d'oro con piume nere di struzzo, dopo aver cercato invano d'imitare quella tua «capigliara» a turbante che porti nel ritratto tizianesco.

— Avevo i capelli che ho, castagni?

— Castagni con forti riflessi biondi; e, per averli tanto tempo gonfiati a turbante, ora li serri in due trecce e li giri e li schiacci con le forcine e ti fai una piccola piccola testa che mi piace assai più.

— Belle mani?

— Più belle ora: ti si sono smagrite e allungate. La destra dipinta dal Vecellio, con l'anello nell'indice, ha fini le dita ma un po' grasso il carpo. Per curarle, facevi ricerca delle forbici più sottili e aguzze e delle «lime da ungie» più delicate. E ordinavi i tuoi guanti a Ocagna e a Valenza, i più morbidi e i più odorosi del mondo.

— Perché amavo anche allora i profumi.

— N'eri folle. Li componevi tu stessa. Ambivi il nome di «perfecta perfumera». La tua «compositione» era d'un'eccellenza insuperabile. Tutti imploravano la grazia d'un bussoletto. Ne donavi a re, a regine, a cardinali, a principi, a poeti. E il tuo Federico, quand'era in Francia, non ti chiedeva mai denari senza chiederti profumi e tanto spesso gli uni, credo, quanto gli altri.

— Eri ben tu Federico allora? Ti riconosco.

Risero forte entrambi, prendendosi le mani, guardandosi negli occhi splendidi.

— Ma spesso tu mandavi invece di denari un bussoletto, perch'eri piena di debiti.

— Oh no!

— Sì, sì; ne avevi fin sopra ai capelli, affogavi.

— Federico!

— Avevi sempre una voglia pazza di comprare tutto quello che ti piaceva; e poi non potevi pagare. Allora, debiti su debiti.

— Non è vero.

— Perfino con Sua Santità, e poi col Sermoneta, col Chigi.... So tutto. C'è la lettera al Trìssino. «Miseria extrema di dinari....

— Mi smungeva Federico.

.... per non haver ancora restituiti molti ducati tolti in prestito....»

— Federico!

— E mettevi le gioie in pegno.

Ridevano come monelli, con una gaiezza irresistibile che travolgeva il sogno, con qualcosa di furbesco nell'angolo dell'occhio, quasi fossero soli, immemori dei due che dal vano della finestra parevano assistere a una scena di mimi.

— E le maschere, le maschere!

— Quali maschere?

— Come le amavi! Ne fabbricavano tante nella tua Ferrara. Ne mandasti cento in dono al Valentino: cento maschere a Cesare Borgia!

— Quanto mi piace questo! — disse Isabella con un sùbito mutamento di tono, perché aveva sentito dietro di sé l'ostilità dei due spettatori ed era di nuovo pronta a far soffrire. — Se ne ritrovassi qualcuna dentro gli armadii?

— Una vecchia maschera, una vecchia veste, una vecchia catena. Apri, apri.

Ella aperse. Le ributtò il triste odore.

— È pieno di ragnateli — disse, e richiuse.

— Sono certo i ricami portentosi di quella femminetta greca che avesti da Costanza d'Avalos.

E fu l'ultimo sorriso della finzione; ché dall'armadio aperto un soffio di malinconia s'era diffuso, e lo spirito delle Pause, il canto senza parole, l'ardore senza concento.

— Andiamo, andiamo.

Ella ripassò per la porta gemmea, ritraversò la cassa dorata del clavicembalo senza tastiera, ridiscese la scaletta di tredici gradini. La seguivano gli altri, in silènzio. I passi risonarono per un lungo andito bianco; poi giù per un'altra scala desolata; poi per l'ombra d'un'aula cinta di nicchie in forma di conche, verdastra come una caverna marina. Una porta stridette su cardini rugginosi; e tutto l'argento del vespero brillò fra le due imposte, per mezzo a un gran ragnatelo lacerato; e su la pietra giacevano un pipistrello nericcio e una lucertola grigiastra, e l'una guizzò via e l'altro prese il volo, come se i due lembi del ragnatelo si fossero di sùbito animati.

— Sempre si rinnova l'incanto?

Si sporse nell'aperta loggia l'adolescente con un profondo respiro.

— La bellezza non ha pietà di noi? non ci dà tregua?

Tutti respiravano verso il cielo di Vergilio, ricevevano l'immensa pace sul petto in tumulto.

— Il giorno senza fine!

Un alito fresco saliva dai salci dalle canne dai giunchi, prossimo come quel d'una bocca silvana che abbia bevuto a gorgate il gelo della fonte senza asciugarsi.

— Che faremo? Che faremo?

Erano tutt'e quattro in uno dei poggiuoli inferriati a vista della palude. Dietro di loro taceva nell'abbandono la vasta corte erbosa delle antiche giostre, circondata dalle logge a colonne avvolte che avevano udito il ringhio dei barbareschi. Dinanzi, una sovrana purità si perpetuava come in un mondo immune dall'ombra; e la luce era sonora fino al culmine del cristallo empireo.

— Sorella, sorella, non vedi? non vedi?

Un'ansia inane vuotava il cuore dell'adolescente, e poi di sùbito lo gonfiava uno smisurato impeto come se moltitudini di ferrei cavalieri gridando irrompessero dalle profondità per galoppare su tutta la terra.

— Isa, le tue mani sono di perfetto marmo!

Meravigliose erano le due mani ignude su la ruggine della ringhiera, levigate nei nodelli, marmoree veramente, come abbandonate dalla vita sanguigna e trasfigurate da un'arte sublime. Ella era una creatura tutta palpitante e anelante di tristezza, di desiderio, di ricordanza, di timore, di promessa, con due mani di statua.

— La puntura ti duole ancóra?

— Mi brucia soltanto.

— Ti sei ferita due volte. Aspèttati la terza ferita.

La mano di marmo disegnò un gesto di supplice verso la bellezza della candida sera; poi col dorso appena appena toccò il labbro che non sanguinava più. Il saettìo disperato delle rondini stridì su l'immobile argento. Il capo del fratello s'inclinò verso la spalla diletta. Egli aspettava un dono che non gli era dato, e non sapeva quale; e la voce della sua anima era un alto lamento, se bene si esalasse in piccole parole.

— Che faremo? Mi chiuderete laggiù in una stanza d'albergo, fra poco? Io non voglio dormire.

Paolo Tarsis guardava quel volto di giovine iddio decaduto che travagliavano così torbidamente gli affanni umani; e il rancore dei suoi trentacinque anni esperti e indurati si appesantiva dinanzi a quella grazia inquieta come una convalescenza febrile. E ogni attitudine dell'adolescente verso la sorella gli moveva un malessere indefinibile.

— Vieni con me su la brughiera — disse.

— A vegliare la veglia d'Icaro?

— Ad aspettare l'alba.

— Sotto un'ala del tuo grande airone?

— Alla diana farò un volo di prova. Le prime stelle e le ultime sono propizie a quest'arte.

— Espero è il tuo buon genio?

Aldo non guardava il costruttore d'ali ma, col capo presso l'omero della sorella, era fiso nel cielo di Vergilio. Tutto era puro come nella più divina delle ecloghe. Non un soffio moveva le cime delle canne, le vermene dei giunchi, le fiammelle dei papaveri, lo specchio delle acque. Solo il coro delle rane diffondeva il senso del moto in forma di ritmo, simile alla vibrazione della bianchezza.

— Quale altro cielo, se non questo, si chiamerà firmamento? Stasera potresti volare all'infinito. Ah, insegnami!

Trasognato egli si volse, e guardò l'uomo: riconobbe l'ossatura della volontà temeraria, la biliosa faccia scarnita dall'ardore di vincere, la pupilla fulminea del predatore, quegli angoli vivi che parevano fatti per fendere come i conii la resistenza, quelle dure mascelle che per contrasto portavano la carne rossa della bocca come un frutto molle in una tenaglia d'acciaio. E uno sgomento subitaneo lo invase, ché non era quegli il suo compagno né il suo maestro.

— T'insegnerò — disse Paolo Tarsis con l'accento della condiscendenza, come chi risponda a un bimbo che domandi un balocco; e sorrise.

L'ombra cadde su le ciglia del trasognato, e gli riempì l'orecchio un confuso rombo, e il cuore gli pulsò contro la gola; ché egli aveva scorto, tra l'uno e l'altro dente di colui che sorrideva, un filo di sangue, un sottilissimo grumo, e un lieve gonfiore lividiccio nel labbro rilevato dal sorriso.

— Aldo, che hai? — gli domandò Vana. — Come sei divenuto pallido!

L'imagine del bacio selvaggio gli si creò nel lampo della divinazione.

— Sembro pallido? È questa luce. Non ho nulla. Anche voi sembrate così.

Non dominava il suo sgomento cieco. Le giunture gli si scioglievano come nel pànico. Si chinò su la ringhiera, e credette che il battito del suo polso risonasse sul ferro come il martello su l'incudine. Lo stormo frenetico delle rondini s'era allontanato perdendosi ai confini della palude, ed egli l'udì tornare verso la loggia come una forza ruinosa e strepitosa che fosse per trascinarlo seco. Negli attimi d'attesa rivide le cose più lontane della sua infanzia. Poi lo scagliamento disperato gli trapassò tutta l'anima tramortita.

«Addio! Addio!» ripeteva in sé, ma senza sapere come la parola gli si formasse dentro e gli si staccasse dal cuore; ché non era se non suono interno di gemito, simile a quello inarticolato che la tortura strappa alla carne vile. «Addio! Addio!»

E raccolse un po' di forza per ricomporre il suo viso, per dissimulare l'ambascia; si sollevò, si volse come a guardare la desolazione del cortile erboso; fece qualche passo furtivo verso la porta che s'empieva d'ombra. Sentiva pesare entro di sé un pianto accumulato. Il bisogno folle di sfuggire lo prese, lo cacciò tra le pareti ignote, di soglia in soglia, d'andito in andito, di stanza in stanza, per l'irremeabile ruina. Da prima corse anelante, con un velo su gli occhi, come chi abbia il fuoco appreso alle vesti e più avvampi nell'aura della fuga. Poi le figure superstiti nell'enormità di quella morte escirono dall'ombra e l'assalirono, e s'ingigantirono del suo dolore; e i contorcimenti dei grandi corpi rossastri nelle mura piene di battaglia furono come l'agitazione della sua demenza; e gli squarci e le fenditure e i mucchi furono come i resti del suo crollo; e tutto l'oro scolpito e sospeso e infranto sul suo capo fu come la perdizione del suo sogno ponderoso. Ed egli andava andava, di soglia in soglia, d'andito in andito, di stanza in stanza, per l'irremeabile ruina. E a tratti, come se soffiasse la ràffica, gli giungeva l'alto canto palustre, lo stridore del saettamento ostinato, la squilla della salutazione angelica, e il gemito stesso della sua propria anima. «Addio! Addio!»

Non l'ombra entrava per le finestre ma si creava dentro, ma sorgeva da ogni cavità, occupava i luoghi profondi, s'accumulava come una cenere fosca, s'addensava come una moltitudine tacita. Una porta fu piena di minaccia; una scala fu piena di terrore; un corridoio fu come un abisso.

— Isabella! Isabella!

Il nome echeggiò come in una caverna; ma, dopo, la vita del silenzio si moltiplicò, ebbe mille volti sparenti.

— Isabella!

Il nome cadde senza risonanza, come qualcosa che s'afflosci. Un chiarore violaceo appariva pel tetto squarciato. Nell'ombra era un aliare molle di nottole. Vene di gelo vi s'insinuavano come se pei crepacci stillasse l'acqua degli stagni.

— Isabella!

Smarrito nell'intrico della ruina, egli barcollava su i pavimenti sconnessi, urtava contro le travature cadute, varcava gli usci palpando gli stipiti freddi, rabbrividiva per tutte le ossa appressandosi alle forme ignote. E sopra il terrore l'imagine del bacio selvaggio, l'imagine della voluttà sanguigna, si apriva dentro le sue pupille con l'intermittenza e la violenza dei bagliori in occhi infermi; ché forse egli era passato, ché forse egli passava là dove s'eran congiunte le bocche crudeli. E il mare del pianto gli ondeggiava a sommo del petto fragile, a sommo dell'anima senza limite; e per ricacciare il singhiozzo egli ripeteva quel nome che pur dianzi aveva risonato nel riso come gli acini balzanti d'una collana disciolta.

— Isabella!

— Aldo, Aldo, dove sei? dove sei? Ti sei perduto?

Trasaltò egli udendo la voce angosciosa che rispondeva all'orribile angoscia; e si volse; e in fondo all'andito lùgubre scorse un'ombra nell'ombra.

— O Vana!

E si corsero incontro; e non parlarono, perché entrambi traboccavano di pianto. E furono soli; e non s'udì alcun altro passo fuorché quello cauto del vecchio. E non si guardarono ma s'abbracciarono disperatamente.


Forse che sì forse che no

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