Читать книгу Le vergini delle rocce - Gabriele D'Annunzio - Страница 4

I.

Оглавление

Indice

Non si può avere maggior signoria che quella di sè medesimo.

Leonardo da Vinci.

E se tu sarai solo, tu sarai tutto tuo.

Lo stesso.

Domati i necessarii tumulti della prima giovinezza, battute le bramosie troppo veementi e discordi, posto un argine all'irrompere confuso e innumerevole delle sensazioni, nel momentaneo silenzio della mia coscienza io aveva investigato se per avventura la vita potesse divenire un esercizio diverso da quello consueto delle facoltà accomodative nel variar continuo dei casi; ciò è: se la mia volontà potesse per via di elezioni e di esclusioni trarre una sua nuova e decorosa opera dagli elementi che la vita aveva in me medesimo accumulati.

Mi assicurai, dopo qualche esame, che la mia coscienza era giunta all'arduo grado in cui è possibile comprendere questo troppo semplice assioma: — Il mondo è la rappresentazione della sensibilità e del pensiero di pochi uomini superiori, i quali lo hanno creato e quindi ampliato e ornato nel corso del tempo e andranno sempre più ampliandolo e ornandolo nel futuro. Il mondo, quale oggi appare, è un dono magnifico largito dai pochi ai molti, dai liberi agli schiavi: da coloro che pensano e sentono a coloro che debbono lavorare. — E riconobbi quindi la più alta delle mie ambizioni nel desiderio di portare un qualche ornamento, di aggiungere un qualche valor nuovo a questo umano mondo che in eterno s'accresce di bellezza e di dolore.

Messomi al conspetto della mia propria anima, io ripensai quel sogno che più volte occorse a Socrate prendendo ciascuna volta una diversa figura ma persuadendolo sempre al medesimo officio: — O Socrate, componi e coltiva musica. — Allora appresi che l'officio dell'uomo nobile sia ben quello di trovare studiosamente nel corso della sua vita una serie di musiche le quali, pur essendo varie, sieno rette da un sol motivo dominante ed abbiano l'impronta d'un solo stile. Onde mi parve che da quell'Antico — eccellentissimo nell'arte di elevare l'anima umana all'estremo grado del suo vigore — potesse anche oggi discendere un grande ed efficace insegnamento.

Scrutinando sè medesimo e i suoi prossimi, colui aveva scoperto i pregi inestimabili che conferisce alla vita una disciplina assidua e intenta sempre in uno scopo certo. La sua somma saggezza mi sembra risplendere in questo: ch'egli non collocò il suo Ideale fuori della sua pratica quotidiana, fuori delle realità necessarie, ma ne formò il centro vivo della sua sostanza e ne dedusse le proprie leggi e secondo quelle si svolse ritmicamente negli anni, esercitando con tranquilla fierezza i diritti che quelle gli consentivano, separando — egli cittadino d'Atene, e sotto la tirannide dei Trenta e sotto la tirannide plebea — separando per deliberato proposito la sua esistenza morale da quella della Città. Egli volle e seppe conservarsi a sè medesimo fino alla morte. “Io non obbedisco se non all'Iddio„ voleva significare “Io non obbedisco se non alle leggi di quello stile a cui, per attuare un mio concetto di ordine e di bellezza, ho assoggettato la mia natura libera.„

Egli con mano ferma, artefice assai più raro di Apelle e di Protogene, riuscì a descrivere per una linea continua l'imagine integra di sè medesimo. E la sublime letizia nell'ultima sera non gli veniva dalla speranza di quell'altra vita ch'egli aveva rappresentata nel discorso, ma sì bene dalla visione di quella sua propria imagine che s'integrava con la morte.

Ah perchè non rivive oggi in qualche terra latina il Maestro che sapeva con un'arte così profonda e così nascosta risvegliare ed eccitare tutte le energie dell'intelletto e dell'animo in quanti gli s'accostavano per ascoltarlo?

Una strana malinconia mi occupava, nell'adolescenza, alla lettura dei Dialoghi, quando volevo raffigurarmi quel cerchio di discepoli avidi e inquieti intorno a lui. Ammiravo i più belli, ornati di più nitide eleganze, su i quali i suoi occhi rotondi e sporgenti — quei suoi occhi nuovi, in cui era una vista propria a lui solo — si posavano più spesso. Si prolungavano nella mia imaginazione le avventure dei forestieri venutigli di lontano come quel trace Antistene che faceva quaranta stadii al giorno per udirlo e come quell'Euclide che — avendo gli Ateniesi fatto divieto d'entrare in Atene ai cittadini di Megara e decretato per i trasgressori l'ultima pena — si vestiva di abiti muliebri, e così vestito e velato esciva dalla sua città in sul vespro, compiva un lungo cammino per trovarsi presente ai colloquii del Saggio, quindi all'alba riprendeva la sua via sotto la stessa larva pieno il petto di un entusiasmo inestinguibile. E mi commoveva la sorte di quel giovinetto elèo Fedone bellissimo che, fatto prigioniero di guerra nella sua patria e venduto a un tenitor di postriboli, dal luogo di vergogna erasene fuggito a Socrate, e aveva ottenuto per opera di lui il riscatto e partecipato alle feste del puro pensiero.

Pareva a me veramente che quel gioviale maestro vincesse di generosità il Nazareno. Forse l'Ebreo, se i suoi nemici non l'avessero ucciso nel fiore degli anni, avrebbe scosso alfine il peso delle sue tristezze e ritrovato un sapor nuovo nei frutti maturi della sua Galilea e indicato al suo stuolo un altro Bene. Il Greco aveva sempre amata la vita, e l'amava, ed insegnava ad amarla. Profeta e divinatore quasi infallibile, egli accoglieva tutte le anime in cui il suo sguardo profondo scoprisse una forza, ed in ciascuna sviluppava ed esaltava quella forza nativa; cosicchè tutte, investite dalla sua fiamma, si rivelavano nella lor diversità possenti. Il suo più alto pregio era in quell'effetto di cui l'accusavano i nemici: che dalla sua scuola — dove convenivano l'onesto Critone e Platone uranio e il delirante Apollodoro e quel gentil Teeteto simile a un rivo d'olio fluente senza strepito — escissero il molle cirenaico Aristippo e Critia, il più violento dei Trenta Tiranni, e l'altro tiranno Caricle, e il meraviglioso violator di leggi Alcibiade che non conobbe limiti alla sua licenza meditata. “Il cuor mi balza assai più che ai coribanti, quando io odo i discorsi di costui„ diceva il figliuolo di Clinia, leggiadra fiera coronata di edera e di violette, tessendo il più fulgido elogio con cui siasi mai deificato in terra un uomo, alla fine di un convito che dalla bocca del Sileno aveva raccolto la grande iniziazione di Diotima.

Or quali energie avrebbe stimolate in me un tal maestro? Quali musiche mi avrebbe condotto a trovare?

Primieramente mi avrebbe cattivato l'animo per quella eletta facoltà ch'egli possedeva di sentire anche il fascino della bellezza caduca e di distinguere con una qualche misura i piaceri comuni e di riconoscere il pregio che l'idea della morte conferisce alla grazia delle cose terrene.

Puro ed austero quant'altri mai nell'atto dello speculare, egli possedeva tuttavia sensi così squisiti che potevan essere quasi direi gli artefici eleganti delle sue sensazioni.

Non v'era nei banchetti — secondo Alcibiade ottimo giudice — alcuno che sapesse goderne com'egli sapeva. Sul principio del Simposio di Senofonte egli contempla con gli altri in lungo silenzio la perfetta bellezza di Autolico, quasi riconoscendo una presenza sovrumana. Con sottil gusto discorre, in séguito, dei profumi e della danza e del bere non senza ornare il discorso d'imagini vivide, come un saggio e come un poeta. Gareggiando quivi di venustà con Critobulo per gioco, esce in queste parole carnali: “Poichè ho le labbra tumide non credi tu che io abbia anche il bacio più molle del tuo?„ Al Siracusano, che dà quivi spettacoli con una sua auleda e con una danzatrice mirifica e con un fanciullo ceteratore, consiglia di non più costringere quei tre giovini corpi a sforzi crudi e a prodigi perigliosi i quali non dànno piacere, ma di lasciare che la lor puerile freschezza secondando il suono del flauto prenda le attitudini proprie delle Grazie, delle Ore e delle Ninfe nelle insigni pitture. Così al disordine che stupisce egli oppone l'ordine che diletta, rivelandosi anche una volta cultore di musica e maestro di stile.

Ma il suo ultimo gesto verso una cosa bella vivente amata e frale fu ben quel che più a dentro mi commosse nel tempo lontano e ancor mi commuove; perocché la mia anima talvolta ami allentare la sua tensione nelle malinconie voluttuose e nelle appassionate perplessità che può produrre in una vita ornata di nobili eleganze il sentimento del continuo trasmutare, del continuo trapassare, del continuo perire.

Nel dialogo dell'ultima sera non tanto mi conturba quel punto in cui Critone per incarico di chi deve propinar la cicuta interrompe il discorso del morituro ammonendolo di non riscaldarsi se vuol che il veleno abbia rapida efficacia e l'impavido ne sorride e va innanzi nell'indagine; né tanto mi è dolce quella musicale similitudine dei cigni indovini e del lor canoro giubilo; né tanto mi stupiscono i momenti estremi in cui l'uomo compie con brevi atti e con brevi detti la sua perfezione sì lucidamente e, come quell'artefice il quale abbia dato alla sua opera l'ultimo tocco, contento riguarda alfine la sua propria imagine — miracolo di stile — che rimarrà immortale in terra; quanto mi rapisce l'impreveduta pausa che segue i dubbii opposti da Cebete e da Simmia alla certezza manifestata dal maestro eloquente.

Profonda pausa fu quella, in cui tutte le anime a un tratto cieche si profondarono come in un abisso, spentosi a un tratto il raggio di foco appuntato verso il Mistero da colui che stava per entrarvi.

Indovinò il maestro la tristezza di quell'oscurazione subitanea ne' suoi fedeli; e le ali della sua idea per poco si ripiegarono. La realità gli si ripresentò nei sensi e lo ritenne anche per poco nel campo del finito e del percettibile. Egli sentì il tempo scorrere, la vita fluire. Forse i suoi orecchi raccolsero qualche romore della città magnifica, le sue nari aspirarono forse il profumo della nuova estate sopravveniente, come i suoi occhi si posarono sul bel Fedone chiomato.

Poiché era seduto sul letto e accanto a lui sopra uno sgabello basso era Fedone, pose egli la mano sul capo del discepolo e gli accarezzò e gli premette i capelli sul collo, avendo già consuetudine di scherzare così con le dita in quella ricca selva giovenile. Non parlava ancora, tanto la sua commozione doveva essere intensa e rigata di delizia. Per mezzo di quella cosa bella vivente e caduca egli comunicava anche una volta con la vita terrena in cui aveva compiuto la sua perfezione, in cui aveva effettuato il suo ideale di virtù; e sentiva forse che nulla eravi oltre, che la sua esistenza finita bastava a sè stessa, che il prolungamento nell'eterno non era se non una parvenza — simile all'alone di un astro — prodotta dallo splendore straordinario della sua umanità. Non mai la capellatura del giovinetto d'Elide aveva avuto per lui un pregio tanto sublime. Egli ne godeva per l'ultima volta, dovendo morire; e anche sapeva che al dimane in segno di lutto sarebbe stata recisa. Disse alfine — e i suoi discepoli non gli avevano mai conosciuto nella voce un tal suono — disse: “Domani, o Fedone, tu te le taglierai queste belle chiome.„ E il chiomato: “Sembra, o Socrate.„

Questo sentimento — che súbito assunsi ed esaltai in me medesimo leggendo per la prima volta l'episodio nel dialogo platonico — mi divenne in séguito per via di analogie tanto complesso, e tanto l'ebbi familiare, ch'io ne feci il tema aperto o dissimulato delle musiche alle quali volli attendere.

Così l'Antico m'insegnò la commemorazione della morte in un modo consentaneo alla mia natura, affinchè io trovassi un pregio più raro e un significato più grave nelle cose a me prossime. E m'insegnò a ricercare e discoprire nella mia natura le virtù sincere come i sinceri difetti per disporre le une e gli altri secondo un disegno premeditato, per dare a questi con pazienti cure un'apparenza decorosa, per sollevar quelle verso la perfezione somma. E m'insegnò ad escludere tutto ciò che fosse difforme alla mia idea regolatrice, tutto ciò che potesse alterare le linee della mia imagine, rallentare o interrompere lo sviluppo ritmico del mio pensiero. E m'insegnò a riconoscere con sicuro intuito quelle anime su cui esercitare il beneficio e il predominio o da cui ottenere una qualche straordinaria rivelazione. E anche mi comunicò in fine la sua fede nel demònico; il quale non era se non la potenza misteriosamente significativa dello Stile non violabile da alcuno e neppur da lui medesimo nella sua persona mai.

Pieno di tale ammaestramento e solitario, io mi posi all'opera con la speranza di riuscire a determinar per un contorno preciso e forte quella effigie di me alla cui attualità avevan concorso tante cause remote, operanti da tempo immemorabile a traverso un'infinita serie di generazioni. La virtù di stirpe, quella che nella patria di Socrate nomavasi eugenéia, mi si rivelava più gagliardamente come più fiero diveniva il rigore della mia disciplina; e mi cresceva l'orgoglio insieme con la contentezza, poiché pensavo che troppe altre anime sotto la prova di quel fuoco avrebbero rivelato o prima o poi la loro essenza volgare. Ma talvolta dalle radici stesse della mia sostanza — là dove dorme l'anima indistruttibile degli avi — sorgevano all'improvviso getti di energia così veementi e diritti ch'io pur mi rattristavo riconoscendo la loro inutilità in un'epoca in cui la vita publica non è se non uno spettacolo miserabile di bassezza e di disonore. “Certo, è meraviglioso„ mi diceva il demònico “che queste antiche forze barbare si sieno conservate in te con tanta freschezza. Esse sono ancor belle, se bene importune. In un altro tempo ti varrebbero a riprendere quell'officio che si conviene ai tuoi pari; ciò è l'officio di colui che indica una mèta certa e guida i seguaci a quella. Poiché un tal giorno sembra lontano, tu cerca per ora, condensandole, di trasformarle in viva poesia.„

Assai lontano, in verità, appariva il giorno; poichè l'arroganza delle plebi non era tanto grande quanto la viltà di coloro che la tolleravano o la secondavano. Vivendo in Roma, io era testimonio delle più ignominiose violazioni e dei più osceni connubii che mai abbiano disonorato un luogo sacro. Come nel chiuso d'una foresta infame, i malfattori si adunavano entro la cerchia fatale della città divina dove pareva non potesse novellamente levarsi tra gli smisurati fantasmi d'imperio se non una qualche magnifica dominazione armata d'un pensiero più fulgido di tutte le memorie. Come un rigurgito di cloache l'onda delle basse cupidige invadeva le piazze e i trivii, sempre più putrida e più gonfia, senza che mai l'attraversasse la fiamma di un'ambizione perversa ma titanica, senza che mai vi scoppiasse almeno il lampo d'un bel delitto. La cupola solitaria nella sua lontananza transtiberina, abitata da un'anima senile ma ferma nella consapevolezza de' suoi scopi, era pur sempre il massimo segno, contrapposta a un'altra dimora inutilmente eccelsa dove un re di stirpe guerriera dava esempio mirabile di pazienza adempiendo l'officio umile e stucchevole assegnatogli per decreto fatto dalla plebe.

Una sera di settembre, su quell'acropoli quirina custodita dai Tindaridi gemelli, mentre una folla compatta commemorava con urli bestiali una conquista di cui non conosceva l'immensità spaventosa (Roma era terribile come un cratere, sotto una muta conflagrazione di nubi), io pensai: “Qual sogno potrebbero esaltare nel gran cuore d'un Re questi incendii del cielo latino! Tale che sotto il suo peso i cavalli giganteschi di Prassitele si piegherebbero come festuche.... Ah chi saprà mai abbracciare e fecondare la Madre col suo pensiero oltrapossente? A lei sola — al suo grembo di sasso che fu nei secoli l'origliere della Morte — a lei sola è dato generar tanta vita che se ne impregni il mondo un'altra volta.„

E io vedevo, nella mia imaginazione, dietro le vetrate fiammeggianti del balcone regale, una fronte pallida e contratta su cui, come su quella del Còrso, era inciso il segno d'un destino sovrumano.

Ma che valeva quel torbido bollore di passioni servili, considerato a traverso il silenzio da cui Roma è circonfusa per nove giri come da un fiume tartareo? Mi consolava d'ogni disgusto lo spettacolo sublime dell'Agro seminato delle più grandi cose morte, onde non sorge mai altro che fili d'erba, germi di febbre e formidabili pensieri. “Si agita dentro le mura urbane una gente nuova? Fra poco il vento mi porterà un po' di cenere. La mia sterilità è fatta di ceneri sovrapposte, preziose o vili. E non è anche escito dalla montagna il ferro per l'aratro che dovrà solcarmi.„ Tanto mi significava il sepolcro delle nazioni.

Tuttavia, se lo spettacolo di quel deserto vorace è un sinistro ammonimento per un popolo vano, esso è per il solitario l'inspiratore delle più sfrenate ebrezze che possano trascinare un'anima. Fuma dalle fenditure di quel suolo un vapor febrile che opera sul sangue di certi uomini come un filtro, producendo una specie di demenza eroica dissimile ad ogni altra.

D'una tal demenza si sentivano invasi, io penso, i giovinetti delle bande garibaldine quando entravano nell'Agro. Essi d'un tratto si trasfiguravano, a un fuoco che li ardeva come sarmenti. E in taluno quella febbre magnificava l'intimo sogno così ch'egli cessava di far parte d'una torma compatta e unanime, per assumere una sua persona propria, un aspetto di combattente singolare, sacro a una gesta che gli pareva novissima. Bello e nobile di stirpe come un vergine eroe del tempo d'Ajace, taluno cadendo parve rinnovare in sè il tipo delle antiche idealità guerriere ma accresciuto d'un ardore senza esempio, che non gli veniva se non dal premere quel suolo.

Gli invidiai l'evento favorevole, che a me mancava. Più volte, dopo una meditazione esaltante, divorato da un furioso bisogno di prove, lanciai il mio cavallo contro una troppo alta maceria e, superando il pericolo inutile, sentii che sempre e dovunque avrei saputo morire.

Ricordo, come uno dei periodi più intensi nella mia vita, un autunno trascorso in quotidiana comunione col deserto laziale.

Su quel teatro, ove dinnanzi agli occhi della mia mente si svolgeva un dramma di stirpi, passavano le vicende dei nuvoli rappresentate da grandi ombre mutabili comentando le mie finzioni interiori. Talvolta il silenzio si faceva così cupo e l'odore della morte su dalle gramigne putride mi ventava in viso così soffocante che io per istinto aderivo più forte al mio cavallo, quasi volendo riconoscermi vitale dalla sua vitalità impetuosa. Si lanciava allungandosi come un felino la bella bestia possente e pareva comunicarmi la fiamma inestinguibile che ardeva nel suo sangue puro. Allora, per qualche minuto, m'occupava l'ebrezza. Sviluppando l'impeto della corsa e del pensiero in una linea parallela alle gigantesche vertebre degli acquedotti, verso l'orizzonte ingombro, io sentivo nascere e dilatarsi in me un fervore indescrivibile, misto di orgasmo fisico, di orgoglio intellettuale, di speranze confuse; e secondava e moltiplicava le mie energie la presenza di quelle opere d'uomini, di quei superstiti testimonii umani su la totale morte, di quei terribili archi rossastri che cavalcano da secoli in una catena invitta contro la minaccia del cielo.

Solo, senza consanguinei prossimi, senz'alcun legame comune, indipendente da ogni potestà familiare, padrone assoluto di me e del mio bene, io aveva allora profondissimo in quella solitudine — come in nessun altro tempo e in nessun altro luogo — il sentimento della mia progressiva e volontaria individuazione verso un ideal tipo latino. Io sentiva accrescersi e determinarsi il mio essere nei suoi caratteri proprii, nelle sue particolarità distinte, di giorno in giorno, sotto l'assiduo sforzo del meditare, dell'affermare e dell'escludere. L'aspetto della campagna, così preciso e sobrio nella sua membratura e nel suo colore, m'era di continuo esempio e di continuo stimolo, avendo pel mio intelletto l'efficacia di un insegnamento sentenziale. Ciascuno sviluppo di linee, in fatti, s'inscriveva sul cielo col significato sommario di una sentenza incisiva e con l'impronta costante di un unico stile.

Ma la virtù mirabile d'un tale insegnamento era in questo: che, mentre mi portava a conseguire nella mia vita interiore l'esattezza di un disegno studiato, non inaridiva le fonti spontanee della commozione e del sogno, anzi le eccitava a un'attività più alta. D'improvviso un solo pensiero mi diveniva così intenso e così ardente che m'appassionava sino al delirio, come una speciosa forma creata da un prestigio; e tutto il mio mondo n'era sparso d'ombre e di luci nuove. Un getto di poesia erompeva dall'intimo empiendomi l'anima di musica e di freschezza ineffabili; e i desiderii e le speranze s'alzavano con un felice ardire. — Così talvolta su l'Agro il tramonto d'autunno versava la lava impalpabile delle sue eruzioni: lunghe correnti sulfuree solcavano il piano ineguale; le bassure s'empivano di tenebra, simili a voragini allora aperte; gli acquedotti s'incendiavano dalle basi ai fastigi; tutta la landa pareva tornata alle sue origini vulcaniche nell'alba dei tempi. — Così talvolta su dall'erba molle disfavillante al mattino le allodole si partivano subitamente cantando con un'ascensione vertiginosa, come spiriti di gioia in alto in alto rapiti nel più puro azzurro, invisibili ad occhi umani, e su la mia anima attonita la cupola del cielo echeggiava tutta quanta della loro ebrezza canora.

Quella solitudine poteva dunque dare, più d'ogni altra, il grado di follia e il grado di lucidità necessarii a un asceta ambizioso: a un asceta il quale, rinnovellando il senso originario della parola austera, volesse come gli antichi agonisti prepararsi con rigida disciplina alle lotte e alle dominazioni terrene.

“Quale ardua colonna, quale igneo deserto, qual cima inaccessa, qual caverna senza fondo, quale stagno febrifero, qual più ermo più nudo e più tragico luogo può vincer questo nella virtù di accendere la scintilla sacra della follia in colui che si creda destinato a incidere su nuove tavole nuove leggi per l'anima religiosa dei popoli?„ io pensava, mentre i presentimenti delle forme increate sorgevano in me favorite da quel silenzio medesimo in cui si adunavano tante forme estinte di nostra umanità. “Qui tutto è morto, ma tutto può rivivere all'improvviso in uno spirito che abbia una dismisura e un calore bastevoli a compiere il prodigio. Come imaginare la grandezza e la terribilità d'una tal resurrezione? Colui il quale potesse contenerla nella sua coscienza parrebbe a sè medesimo e agli altri invasato da una forza misteriosa e incalcolabile, assai maggiore di quella che assaliva la Pitia antica. Per la sua bocca non parlerebbe il furor d'un dio presente nel tripode, ma sì bene il genio stesso delle stirpi custode funereo d'innumerevoli destini già compiuti. Il suo oracolo non sarebbe uno spiraglio dischiuso verso un mondo soprasensibile ma l'ammonimento di tutte le saggezze umane mescolato al soffio della Terra, di questa prima vaticinatrice secondo il verbo di Eschilo. E un'altra volta le moltitudini si chinerebbero d'avanti all'apparenza divina della sua follia, non come in Delfo per sollecitare le oscure sentenze del dio obliquo, ma per ricevere il lucido responso della vita anteriore, quel responso che non diede il Nazareno. Troppo era ignaro costui e troppo era petroso il deserto ch'egli scelse per trovarvi la sua rivelazione, laggiù sotto le montagne della Giudea, alla riva occidentale del Mar Morto: luogo di rupi e d'abissi, privo d'ogni vestigio, cieco d'ogni pensiero. Non temeva gli sciacalli famelici il giovine solitario ma temeva i pensieri. La sua mano scarna sapeva mansuefare le bestie selvagge; ma qualche pensiero, se ardente e dominatore come quelli che errano nel deserto laziale, lo avrebbe divorato. Quando l'angelo malo lo spinse alla vetta della montagna e gli additò le contrade fertili sottoposte e gli indicò la direzione dei varii regni del mondo e le correnti profonde e vorticose del desiderio umano, egli chiuse le palpebre: non volle vedere, non volle sapere. Ma il Rivelatore deve estendere oltre ogni limite l'orizzonte della sua coscienza abbracciando e i giorni e gli anni e i secoli e i millennii perchè la sua verità, emanante dalla somma della vita vissuta dagli uomini fino all'ora presente, sembri un foco in cui possano raccogliersi armonizzarsi e moltiplicarsi le energie ascensionali del più gran numero di generazioni per proseguire più dirittamente e più concordemente verso idealità sempre più pure.„

Anche m'accompagnava talvolta il fantasma di colui che un giorno credette di aver creato il nuovo Re di Roma. “Mancò„ pensavo “mancò anche a questo sovrammirabile suscitatore di volontà eroiche e allegro vendemmiatore di sangue giovenile un esercizio ascetico sul sepolcro delle nazioni. S'egli avesse potuto per poco torcere il suo spirito dalle cose che l'incalzavano e inclinarlo verso le cose immobili, avrebbe forse scoperta un'idea più grande della sua persona mortale e l'avrebbe eletta regolatrice della sua gesta; e il suo latin sogno d'imperio si sarebbe addensato e fatto grave e tenace così che la forza degli eventi ed egli medesimo non avrebbero potuto dissiparlo e distruggerlo per sempre come fecero. Ma la sua idea, troppo legata alla sua vita cotidiana, troppo umana, doveva morire con lui. Egli non potè conoscere il segreto per cui l'uomo prolunga nel tempo l'efficacia dell'atto. Veementi quant'altri mai erano gli impulsi che partivano dall'uomo, ma breve e malcerto era il loro propagarsi perchè essi avevano origine in un centro di potenze spontanee non sottoposte a nessun concetto superiormente formato da un ordine severo di meditazioni. La sua opera non fu quindi superiore a lui stesso e non durò se non quanto può durare una strage. I vecchi oracoli regolarono il suo destino. Il responso pronunciato dalla Pitia intorno alle sorti di Corinto potè, dopo millennii, valere anche per lui: — Un'aquila ha concepito posando sopra una rupe; e partorirà un fierissimo leone, cupido di carne umana, e che opererà molta strage. — Egli non fece se non obbedire a questo fato, come il tirannello Cipselo. E il Re di Roma si dileguò come un filo di fumo, vanissimamente.„

Di tal colore erano i pensieri che mi suscitava l'aspetto di un luogo il qual fu — secondo il verbo di Dante — dalla stessa natura disposto all'universale imperio: ad universaliter principandum. E, mentre mi tornavano alla memoria gli argomenti danteschi a dimostrare il buon diritto della dominazione romana, occupava la cima del mio intelletto quella sentenza che nella sua forma esatta e rigida i popoli latini, se volenterosi di rinascere, dovrebbero adottare a norma dei loro istituti di vita: — Maxime nobili, maxime præesse convenit; al massime nobile si conviene massime essere preposto.

E io pensava, accompagnato dal grande e tirannico spirito: “O venerando padre di nostro eloquio, tu avevi fede nella necessità delle gerarchie e delle differenze tra gli uomini; tu credevi alla superiorità della virtù trasferita per ragione ereditaria nel sangue; fermamente credevi a una virtù di stirpe la qual potesse per gradi, d'elezione in elezione, elevar l'uomo al più alto splendore di sua bellezza morale. Esponendo la genealogia di Enea, tu vedesti nel “concorso del sangue„ una certa predestinazion divina. Ora, per qual misterioso concorso di sangui, da qual vasta esperienza di culture, in qual propizio accordo di circostanze sorgerà il nuovo Re di Roma? Natura ordinatus ad imperandum, dalla natura ordinato a imperare, ma dissimile ad ogni altro monarca, egli non verrà a riconfermare o a rialzare i valori che da troppo tempo i popoli — sotto l'influsso delle varie dottrine — soglion dare alle cose della vita; ma sì bene verrà ad abolirli o ad invertirli. Conoscendo tutte le significazioni dei casi che compongono la storia degli uomini e avendo penetrata l'essenza di tutte le volontà sovrane che determinarono i maggiori moti, egli sarà capace di construir compiutamente e di gittar verso l'avvenire quell'ideal ponte su cui alfine le stirpi privilegiate potranno valicar l'abisso che oggi sembra dividerle dal dominio ambito.„

E questa imagine di re, tra tutte le imagini espresse dal suolo sacro ed entrate nella mia anima, mi era talvolta così visibile che quasi parevami una forma creata; e ardentemente io la contemplavo, mentre sul mio intelletto balenavano d'indescrivibile bellezza idee repentine e s'oscuravano per non risplendere forse mai più.

Così la campagna di Roma col suo severo insegnamento mi confortava a conseguire la mia piena virilità, ad affermare la mia sovranità interiore, a disegnare con man ferma quella “linea circonferenziale di che si genera la bellezza umana„ secondo il verbo di Leonardo. E io mi chiedeva, alla fine di ciascun giorno: “Di quali pensieri si è accresciuto il mio tesoro? Quali nuove energie si sono sviluppate dalla mia sostanza? Quali nuove possibilità ho intraveduto?„ E volevo che ciascun giorno portasse l'impronta del mio stile, si distinguesse per un segno d'arte vigorosa, per un qualche fiero emblema di vittoria, porgendomi la familiarità di Tucidide l'esempio di que' suoi strateghi che costantemente fanno una bella e precisa concione, combattono poi con tutte le forze ed in ultimo elevano sul campo un trofeo.

Cui bono? — ripeteva intanto da lungi e da presso uno stuolo crepuscolare con voci non dissimili a quelle degli eunuchi. — Quale è il senso, quale è il pregio della vita? Perchè vivere? Perchè affaticarsi? Tutti gli sforzi sono inutili, tutto è vanità e dolore. Noi dobbiamo uccidere le nostre passioni l'una dopo l'altra e intendere ad estirpar dalle radici la speranza e il desiderio che sono la causa della vita. La rinuncia, la piena inconscienza, il dissolvimento di tutti i sogni, l'annientamento assoluto: — ecco la liberazione finale!

Era una misera gente affetta di lebbra quella che iterava il lagno stucchevole. Gli antichi Persiani, come narra il freschissimo Erodoto, arrecavano a falli commessi contro il Sole la turpe infermità. E quella gente servile aveva, in fatti, offeso il Sole.

Una parte di essa, sperando di mondarsi, si immergeva in grandi lavacri di pietà e vi si mollificava e distemperava con molta compunzione. Ma lo spettacolo non era men disgustoso.

Volgevo gli occhi e tendevo gli orecchi altrove; e una superba allegrezza mi agitava allora i precordii, poiché i miei occhi non velati di lacrime vedevano tutte le linee e tutti i colori, poiché i miei orecchi sani e vigili udivano tutti i suoni e tutti i ritmi, poiché il mio spirito poteva senza limiti gioire delle apparenze fugaci e sapeva coltivare in sè ben altre melancolie e trovare il più amabile pregio della vita appunto nella rapidità delle sue metamorfosi e nella densità dei suoi misteri. “O molteplice Bellezza del Mondo„ io pregava allora “non a te soltanto sale la mia lode; non a te soltanto, ma anche ai miei maggiori, ma anche a quelli che seppero gioire di te nei secoli remoti e mi trasmisero il loro fervido e ricco sangue. Lodati sieno ora e sempre per le belle ferite che apersero, per i belli incendii che suscitarono, per le belle tazze che votarono, per le belle vesti che vestirono, per i bei palafreni che blandirono, per le belle femmine che godettero, per tutte le loro stragi, le loro ebrezze, le loro magnificenze e le loro lussurie sieno lodati; perchè così mi formarono essi questi sensi in cui tu puoi vastamente e profondamente specchiarti, o Bellezza del Mondo, come in cinque vasti e profondi mari!„

Chiedevano intanto i poeti, scoraggiati e smarriti, dopo aver esausta la dovizia delle rime nell'evocare imagini d'altri tempi, nel piangere le loro illusioni morte e nel numerare i colori delle foglie caduche; chiedevano, alcuni con ironia, altri pur senza: “Qual può essere oggi il nostro officio? Dobbiamo noi esaltare in senarii doppii il suffragio universale? Dobbiamo noi affrettar con l'ansia dei decasillabi la caduta dei re, l'avvento delle repubbliche, l'accesso delle plebi al potere? Non è in Roma, come già fu in Atene, un qualche demagogo Cleofonte fabbricante di lire? Noi potremmo, per modesta mercede, con i suoi stessi strumenti accordati da lui, persuadere gli increduli che nel gregge è la forza, il diritto, il pensiero, la saggezza, la luce....„

Ma nessuno tra loro, più generoso e più ardente, si levava a rispondere: “Difendete la Bellezza! È questo il vostro unico officio. Difendete il sogno che è in voi! Poichè oggi non più i mortali tributano onore e riverenza ai cantori alunni della Musa che li predilige, come diceva Odisseo, difendetevi con tutte le armi, e pur con le beffe se queste valgano meglio delle invettive. Attendete ad inacerbire con i più acri veleni le punte del vostro scherno. Fate che i vostri sarcasmi abbiano tal virtù corrosiva che giungano sino alla midolla e la distruggano. Bollate voi sino all'osso le stupide fronti di coloro che vorrebbero mettere su ciascuna anima un marchio esatto come su un utensile sociale e fare le teste umane tutte simili come le teste dei chiodi sotto la percussione dei chiodajuoli. Le vostre risa frenetiche salgano fino al cielo, quando udite gli stallieri della Gran Bestia vociferare nell'assemblea. Proclamate e dimostrate per la gloria dell'Intelligenza che le loro dicerie non sono men basse di quei suoni sconci con cui il villano manda fuori per la bocca il vento dal suo stomaco rimpinzato di legumi. Proclamate e dimostrate che le loro mani, a cui il vostro padre Dante darebbe l'epiteto medesimo ch'egli diede alle unghie di Taide, sono atte a raccattar lo stabbio ma non degne di levarsi per sancire una legge nell'assemblea. Difendete il Pensiero ch'essi minacciano, la Bellezza ch'essi oltraggiano! Verrà un giorno in cui essi tenteranno di ardere i libri, di spezzare le statue, di lacerare le tele. Difendete l'antica liberale opera dei vostri maestri e quella futura dei vostri discepoli, contro la rabbia degli schiavi ubriachi. Non disperate, essendo pochi. Voi possedete la suprema scienza e la suprema forza del mondo: il Verbo. Un ordine di parole può vincere d'efficacia micidiale una formula chimica. Opponete risolutamente la distruzione alla distruzione!„

E i patrizii, spogliati d'autorità in nome dell'uguaglianza, considerati come ombre d'un mondo scomparso per sempre, infedeli i più alla loro stirpe e ignari o immemori delle arti di dominio professate dai loro avi, anche chiedevano: “Qual può essere oggi il nostro officio? Dobbiamo noi ingannare il tempo e noi stessi cercando di alimentare tra le memorie appassite qualche gracile speranza, sotto le volte istoriate di sanguigna mitologia, troppo ampie pel nostro diminuito respiro? O dobbiamo noi riconoscere il gran dogma dell'Ottantanove, aprire i portici dei nostri cortili all'aura popolare, coronar di lumi i nostri balconi di travertino nelle feste dello Stato, diventar soci dei banchieri ebrei, esercitar la nostra piccola parte di sovranità riempiendo la scheda del voto coi nomi dei nostri mezzani, dei nostri sarti, dei nostri cappellai, dei nostri calzolai, dei nostri usurai e dei nostri avvocati?„

Qualcuno tra loro — mal disposto alle rinunzie pacifiche, ai tedii eleganti e alle sterili ironie — rispondeva: “Disciplinate voi stessi come i vostri cavalli da corsa, aspettando l'evento. Apprendete il metodo per affermare e afforzare la vostra persona come avete appreso quello per vincere nell'ippòdromo. Costringete con la vostra volontà alla linea retta e allo scopo fermo tutte le vostre energie, e pur le vostre passioni più tumultuose e i vostri vizii più torbidi. Siate convinti che l'essenza della persona supera in valore tutti gli attributi accessorii e che la sovranità interiore è il principal segno dell'aristòcrate. Non credete se non nella forza temprata dalla lunga disciplina. La forza è la prima legge della natura, indistruttibile, inabolibile. La disciplina è la superior virtù dell'uomo libero. Il mondo non può essere constituito se non su la forza, tanto nei secoli di civiltà quanto nelle epoche di barbarie. Se fossero distrutte da un altro diluvio deucalionico tutte le razze terrestri e sorgessero nuove generazioni dalle pietre, come nell'antica favola, gli uomini si batterebbero tra loro appena espressi dalla Terra generatrice, finchè uno, il più valido, non riuscisse ad imperar su gli altri. Aspettate dunque e preparate l'evento. Per fortuna lo Stato eretto su le basi del suffragio popolare e dell'uguaglianza, cementato dalla paura, non è soltanto una costruzione ignobile ma è anche precaria. Lo Stato non deve essere se non un instituto perfettamente adatto a favorire la graduale elevazione d'una classe privilegiata verso un'ideal forma di esistenza. Su l'uguaglianza economica e politica, a cui aspira la democrazia, voi andrete dunque formando una oligarchia nuova, un nuovo reame della forza; e riuscirete in pochi, o prima o poi, a riprendere le redini per domar le moltitudini a vostro profitto. Non vi sarà troppo difficile, in vero, ricondurre il gregge all'obedienza. Le plebi restano sempre schiave, avendo un nativo bisogno di tendere i polsi ai vincoli. Esse non avranno dentro di loro giammai, fino al termine dei secoli, il sentimento della libertà. Non vi lasciate ingannare dalle loro vociferazioni e dalle loro contorsioni sconce; ma ricordatevi sempre che l'anima della Folla è in balia del Pánico. Vi converrà dunque, all'occasione, provvedere fruste sibilanti, assumere un aspetto imperioso, ingegnar qualche allegro stratagemma. Il polítropo Ulisse, quando trascorreva il campo per ridurre tutti nel fòro, se imbattevasi in qualche plebeo vociferante lo castigava con lo scettro, taci, garrendo, taci, tu codardo, tu imbelle e nei consigli nullo. Il nobile demagogo Alcibiade, perito quant'altri mai nel governo della Gran Bestia, così dava principio a una sua concione per l'impresa di Sicilia: — A me, più che ad altri, si aspetta, o Ateniesi, il comando; e del comando io mi stimo degno. — Ma nessuno ammaestramento, in verità, è più profondo e più per voi opportuno di quello offertovi da Erodoto sul principio del libro di Melpomene. Eccolo. — Gli Sciti, rimasti ventott'anni lungi dalla patria per aver tenuto l'imperio dell'Asia superiore, dopo sì lungo intervallo volendo ad essa ritornare, incontrarono un non minor travaglio di quello che avevan durato nella guerra medica. Un grande esercito ostile lor precludeva l'accesso. E tanto avveniva perchè le donne scitiche, prive per lungo tempo dei loro uomini, ai servi s'erano abbandonate. E dai servi e dalle donne era sorta una generazione di giovani; i quali, consapevoli della propria origine, s'eran messi contro a coloro che tornavan dalla Media e primieramente, ad impedire il passo, avevano praticato uno scavo e dai monti taurici prolungatolo fino alla Palude Meotide, che molto è vasta. Seguitarono poi a respingere con valide opere di difesa il tentato assalto degli Sciti; e come questi ultimi dopo varii conflitti vedevano di non potere in alcun modo avanzar con le armi, un d'essi appunto così prese a dire: O Sciti, a che mai stiamo qui travagliando? Nel combattere coi nostri servi noi ci assottigliamo per le continue morti, e se noi li uccidiamo non facciam altro che scemare il numero dei nostri futuri soggetti. Onde io penso che ci convenga smettere e le aste e i dardi e che ognuno di noi debba imbrandir soltanto lo scudiscio del suo cavallo e in tal modo affrontar quella gente. Perchè sino ad ora avendoci veduto procedere in armi, essi al certo credettero di essere nostri eguali e figli di eguali; ma, come avranno veduto che in vece d'armi noi maneggiamo lo scudiscio, súbito sentiranno d'esser nostri servi; e, ben persuasi del loro stato, non sapranno più resisterci. Il qual discorso avendo udito gli Sciti, eseguirono il consiglio. E gli avversarii, fieramente percossi dal nuovo fatto, cessarono dal combattere e si diedero alla fuga. Questo pertanto è il modo onde gli Sciti riebbero la patria. — O dominatori senza dominio, meditatelo!„

Forse nella mia solitudine laboriosa — se bene io non temessi nè l'infermità nè la demenza nè la morte possedendo questa tutelare fiamma di orgoglio di pensiero e di fede — forse talvolta la mia malinconia celava in sè un verace bisogno di comunioni con il fraterno spirito non incontrato ancóra o con un'adunanza di spiriti predisposti ad appassionarsi sinceramente di ciò che mi appassionava. Un tal bisogno parevami si rivelasse nel mio abito mentale di fermare le teorie delle idee e delle imagini in una concreta forma oratoria o lirica, quasi a riguardo d'un imaginario uditore. Caldi getti d'eloquenza e di poesia m'inondavano all'improvviso, cosicchè all'anima traboccante il silenzio talvolta era grave.

Per confortare la mia solitudine, allora pensai di dare una figura corporea a quel demònico in cui, secondo il documento del mio primo maestro, io aveva fede come nell'infallibile segno che mi conduceva all'integrazione della mia effigie morale. Io pensai di commettere a una bocca bella e imperiosa e colorita dal mio medesimo sangue l'officio di ripetermi: — O tu, sii quale devi essere.

Tra le imagini dei miei maggiori una m'è sopra tutte le altre carissima, e sacra come una icona votiva. È il più nobile e il più vivido fiore di mia stirpe, rappresentato dal pennello di un artefice divino. È il ritratto di Alessandro Cantelmo conte di Volturara, dipinto dal Vinci tra l'anno 1493 e il '94 a Milano dove Alessandro aveva preso stanza con una sua compagnia di gente d'arme, attratto dall'inaudita magnificenza di quello Sforza che voleva fare della città lombarda una nuova Atene.

Nessuna cosa al mondo ha per me un egual pregio, e nessun tesoro mai fu custodito con più appassionata gelosia. Io non mi stanco di ringraziar la Fortuna che ha voluto far risplendere su la mia vita una tanto insigne imagine e concedermi la voluttà incomparabile di un tanto segreto. “Se tu possiedi una cosa bella, ricòrdati che ogni sguardo altrui usurpa il tuo possesso. Il godimento della contemplazione parteggiato è menomato: e tu rifiùtalo. Qualcuno, per non confondere il suo sguardo con quello dello sconosciuto, non entrò nel museo publico. Ora, se tu veramente possiedi una cosa bella, chiudila con sette porte e coprila con sette velarii.„ E un velario copre la figura magnetica; ma il suo sogno è così profondo, la sua fiamma è così possente che talvolta il tessuto palpita alla veemenza del respiro.

Io diedi dunque al demònico la forma di questo genio familiare; e lo sentii nella solitudine vivere d'una vita assai più intensa della mia. Non aveva io dinnanzi a me, per il prodigio durevole d'uno fra i più grandi rivelatori del mondo, non aveva io dinnanzi a me uno spirito eroico escito dal mio stesso ceppo e costituito da tutti quei caratteri distintivi della prosapia i quali io così acutamente cercava di rivelare in me medesimo e che in esso apparivano con una fierezza di rilievo quasi spaventosa?

Eccolo ancóra dinnanzi a me, eguale sempre e pur sempre nuovo! Un tal corpo non è la carcere dell'anima ma ne è il simulacro fedele. Tutte le linee del volto quasi imberbe sono precise e ferme come in un bronzo cesellato con insistenza; la pelle ricopre d'un pallor fosco i muscoli asciutti, usi per certo a palesarsi con un tremito ferino nel desiderio e nella collera; il naso diritto e rigido, il mento ossuto e stretto, le labbra sinuose ma energicamente serrate esprimono la volontà temeraria; e lo sguardo è come una bella spada, all'ombra d'una capellatura densa e greve e quasi violetta come i grappoli d'uva che il sole affoca sul tralcio più vivace. Egli sta in piedi, visibile dal ginocchio in su, immoto; e pure l'imaginazione si rappresenta al primo attimo lo scatto repentino delle gambe flessibili e forti come gli acciari delle balestre, che scaglieranno pericolosamente quel busto elegante appena il nemico si mostri. “Cave adsvm„: ben gli si addice l'antica insegna. Vestito d'un'arme leggerissima, damaschinata certo da un artiere sommo, egli ha le mani ignude: mani pallide e sensitive ma pur con un non so che di tirannico e quasi di micidiale nel lor disegno netto: la sinistra appoggiata su la gòrgone dell'elsa, la destra contro lo spigolo d'un tavolo coperto di velluto cupo, del quale appare un lembo. Accanto alle manopole e al morioncello, posano sul velluto una statuetta di Pallade e una melagrana che porta sul gambo anche la sua foglia aguzza e il suo fiore ardente. Dietro il capo allontanasi per entro al vano d'una finestra una campagna spoglia terminata da una chiostra di colline su cui si eleva un còno, solo come un pensiero superbo. E in basso, su un cartiglio, leggesi questo distico:

FRONS VIRIDIS RAMO ANTIQVO ET FLOS IGNEVS VNO

TEMPORE [PRODIGIVM] FRVCTVS ET VBER INEST.

In qual luogo e per quale evenienza Alessandro erasi incontrato la prima volta col maestro fiorentino che allora attingeva il massimo splendore della sua virilità? Forse in un festino di Ludovico, pieno delle meraviglie create dalle arti occulte del Mago? O piuttosto nel palazzo di Cecilia Gallerani, dove gli uomini militari ragionavano di scienza bellica, i musici cantavano, gli architetti e i pittori disegnavano, i filosofi disputavano delle cose naturali, i poeti recitavano i loro e gli altrui componimenti “alla presenza di questa eroina„, come narra il Bandello. Quivi appunto mi piace imaginare il primo incontro, nel tempo in cui la favorita del Moro già incominciava ad amar segretamente Alessandro.

Quale fiamma d'intelligenza audace e di volontà dominatrice doveva trasparire dalle sembianze del giovine perchè Leonardo ne fosse preso fin da quel giorno! Forse Alessandro ragionò con lui in disparte “su i modi di ruinare ogni rocca o altra fortezza se non fondata in sul sasso„ e si appassionò ai segreti formidabili di quell'affascinante creator di madonne il qual superava in novità d'ingegni tutti i maestri e compositori di strumenti bellici. Forse, nel corso del ragionamento, Leonardo proferì qualcuna di quelle sue parole profonde su l'arte della vita; e, scrutando gli occhi del giovine fattosi muto, riconobbe in lui uno spirito deliberato a trarre dalla vita tutto ciò ch'ella poteva dargli, un ambizioso disposto non già a seguir ciecamente la sua ventura ma a conquistare il dominio con il soccorso di quella scienza che moltiplica e converge allo scopo le forze dell'operatore. E colui che alcuni anni dopo doveva divenire l'architetto militare di Cesare Borgia, colui che invocava ed aspettava un principe magnanimo il quale gli offerisse senza misura i mezzi per porre in atto i suoi innumerevoli disegni, colui vide forse nel patrizio chiomato il futuro fondatore di una dinastia regale e lo amò riponendo in lui le più superbe speranze.

Mi piace imaginare che si riferisca alla sera del primo incontro il breve ricordo nei comentarii del Vinci (allora tutto intento agli studii per la statua equestre di Francesco Sforza): “A dì penultimo d'Aprile 1492. Ginnetto grosso di Messer Alessandro Cantelmo: ha bel collo e assai bella testa.„

Uscendo insieme dal palazzo di Cecilia si soffermarono entrambi su la via sempre ragionando; e, come Leonardo scorse il ginnetto, gli si appressò per osservarlo. Palpando il bel collo egli espresse con qualche esclamazione spontanea il terribile travaglio che davano al suo spirito incontentabile le continue ricerche intorno al monumento con cui il Moro voleva glorificar la fortuna del padre conquistatore del ducato ed espugnatore di Genova. La sua mano creatrice delineò nell'aria il colosso con qualche largo gesto rendendolo visibile agli interni occhi del giovine. Cadeva il giorno; l'ora del vespero primaverile fluttuava su i pinnacoli della città gaudiosa; una compagnia di musici passava cantando; e il cavallo per l'impazienza nitrì. Un sentimento eroico dilatò allora l'anima di Alessandro agguagliandola al fantasma del gran capitano. “Ah, partire per la mia conquista!„ egli pensava balzando in sella. E poichè in realtà egli non partiva se non verso una qualche cura della vita comune, disse d'improvviso in un impeto d'amarezza: “Pare a voi, maestro Leonardo, che metta conto di vivere a un uomo nel mio stato?„ E Leonardo che quelle inattese parole non meravigliarono: “Tutto è che l'aquila pigli il primo volo.„ E forse il cavaliere imberbe che si allontanava con la sua gente gli parve essere stato fatto re dalla natura “come quello che nell'alveare nasce condottiero delle api„.

Il mattino seguente un servo condusse il ginnetto in dono allo statuario insieme col saluto del suo signore.

Tale imagino il principio delle mutue liberalità. Il maestro compensava il discepolo con la vera ricchezza, poichè “non si dimanda ricchezza quello che si può perdere„. Come Socrate egli prediligeva i discepoli ornati di rare eleganze e di belle capellature. Come Socrate, egli eccelleva nell'arte di elevare l'anima umana all'estremo grado del suo vigore. Alessandro fu certo per qualche tempo l'eletto in quella Academia Leonardi Vincii dove una nobile genitura spirituale dischiudevasi a poco a poco sotto un insegnamento che traeva il suo calore dalla verità centrale come da un sole non oscurabile. “Nessuna cosa si può amare, nè odiare, se prima non si ha cognizion di quella. L'amore di qualunque cosa è figliuolo di essa cognizione. L'amore è tanto più fervente quanto la cognizione è più certa.„

Si trovano qua e là negli interrotti comentarii di Leonardo i segni della curiosità appassionata con cui lo sperimentatore indefesso vigilava l'anima preziosa del suo giovine amico. Egli non aveva segreti per lui, volendo concorrere con tutti i suoi mezzi ad accrescerne le potenze accumulate, a renderne più efficace l'azione futura su un vasto campo. Egli notava per ricordarsene: “Parla col Volturara di questi tali modi di trarre i dardi.„ E ancóra: “Mostra al Volturara modi di levare e ponere ponti, modi di ardere e disfare quelli dell'inimico e come si piantan bombarde e bastioni di dì e di notte.„ Oppure: “Messer Alessandro mi vol dare il Valturio De re militari e le Deche e Lucrezio Delle cose naturali.„

Come i detti brevi e fieri del giovine lo colpivano, egli ne notava alcuno. “Disse Messer Alessandro che convien prender la fortuna a man salva dinanti, perchè retro è calva.„ E ancóra: “Sendo io in sul libro del dividere li fiumi in molti rami e farli guadabili, disse ardito il Volturara: Affè che Ciro di Cambise ben seppe fare il simile al fiume Ginde per castigarlo, sol per avere quello toltogli uno cavallo bianco.„

Un giorno — imagino — erano entrambi convenuti nella casa magnifica di Cecilia Gallerani; e Leonardo aveva rapito gli animi sonando quella nova lira fabbricata di sua mano quasi tutta d'argento in forma d'un teschio di cavallo. Nella pausa che seguì l'entusiasmo, la rinata Saffo si fece recare un mirabile cofanetto ricco di smalti e di gemme inviatole dal duca in dono; e mostrandolo chiedeva ai presenti quale oggetto tanto prezioso potesse a lor giudizio meritare d'esservi riposto. Ciascuno espresse un diverso parere. — E voi, Messer Alessandro? — domandò Madonna Cecilia, con dolci occhi. Rispose l'audace: — Di quello che fra i tesori di Dario fu trovato, del quale nulla fu visto che fosse più ricco, uno antico Alessandro volle far la custodia alla Iliade di Omero.

Sùbito il Vinci segnò nei comentarii quella risposta; e v'aggiunse: “Ei si vede chi si nutrica di midolle e nervi di lione.„

Un altro giorno erano entrambi convenuti nel giardino della medesima ospite, e Alessandro, dopo aver disputato con qualcuno di quei “famosi spiriti„, s'era tratto in disparte per seguire qualche pensiero nuovo che il calor della disputa aveagli dischiuso nell'intelletto denso di germi. Chiamandolo la bella contessa bergamina a più riprese, egli non si voltò se non tardi perchè tardi udì il richiamo. A un grazioso rimprovero, o forse a un motto pungente, rispose egli sorridendo: — Non si volta chi a stella è fisso.

La sera, il Vinci segnò nei comentarii anche quella risposta; e v'aggiunse la sua profezia: “Presto piglierà il primo volo, empiendo l'universo di stupore, empiendo di sua fama tutte le scritture e gloria eterna al loco dove nacque.„

Forse in quella sera medesima, considerando l'intensità e la molteplicità di quella precoce giovinezza, il suo spirito inclinato alle significazioni occulte degli emblemi e delle allegorie trovò il bel simbolo della melagrana compendiosa che reca sul gambo la foglia aguzza e il fiore ardente.

Ma a dì 9 di luglio dell'anno 1495, tre giorni dopo la battaglia di Fornovo, egli segnava: “Morto il Volturara in campo, da par suo. Mai cieco ferro al mondo troncò più grande speranza.„

Tal visse e morì il giovine eroe in cui parve sublimata la genuina virtù della mia stirpe militante. Tale intieramente mi si rivelava nella effigie vera che di lui tramandò al lontano erede un artefice soprannominato Promèteo.

“O tu„ egli mi diceva impadronendosi della mia anima col suo magnetico sguardo “sii quale devi essere.„

“Per te sarò„ io gli diceva “per te sarò qual debbo essere; poichè io ti amo, o bellissimo fiore di mio sangue; poichè io voglio riporre tutto il mio orgoglio nell'obbedire alla tua legge, o dominatore. Tu portavi in te una forza bastevole a soggiogare la terra, ma il tuo destino regale non doveva compiersi nel tempo in cui prima apparisti. Tu non fosti, in quel tempo, se non l'annunciatore e il precursore di te medesimo, dovendo riapparire su dal tuo ceppo longevo nella maturità dei secoli futuri, alla soglia di un mondo non anche esplorato dai guerrieri ma già promesso dai sapienti: riapparire come il messaggio l'interprete e il padrone d'una vita nuova. Per ciò scomparisti d'improvviso, a similitudine d'un semidio, presso un fiume gonfio di acque, tra il fragore della battaglia e dell'uragano, stando il sole per attingere il segno del Leone. La morte non troncò la grande speranza, sì bene la sorte volle differirne il compimento meraviglioso. La tua virtù, che non potè allora manifestarsi in una gesta trionfale al conspetto della terra, dovrà necessariamente risorgere un giorno nella tua stirpe superstite. E sia domani! Ed esca il tuo eguale dalla mia genitura! Io invoco ed attendo e preparo il rinascimento della tua virtù con una fede indefettibile, adorando la tua imagine vera, o dominatore pensoso, o tu che mettesti per segno nei libri della Sapienza il filo della tua bella spada ignuda!„

Così io gli diceva. E sotto il suo sguardo e sotto la sua ammonizione, non soltanto mi si moltiplicavano le forze efficaci ma il mio cómpito mi si determinava in linee definitive. — Tu, dunque, lavorerai ad effettuare il tuo fato e quello della tua stirpe. Tu avrai dinnanzi, nel tempo medesimo, il disegno premeditato della tua esistenza e la visione di un'esistenza superiore alla tua. Tu vivrai nell'idea che ciascuna vita, essendo la somma delle vite precedenti, è la condizione delle future. Tu non crederai dunque di essere soltanto principio, motivo e fine del tuo proprio fato, ma sentirai tutto il pregio e tutto il peso dell'eredità che hai ricevuta dai tuoi maggiori e che dovrai trasmettere al tuo discendente contrassegnata dalla tua più gagliarda impronta. La concezione sovrana della tua dignità sorga su la certezza, in te ferma, d'essere il tramite conservatore d'una energia molteplice che potrà domani o tra un secolo o nel tempo indefinito affermarsi con una manifestazione sublime. Ma tu spera che sia domani! Triplice è il tuo cómpito, dunque, poichè tu hai il dono della poesia e ti studii d'acquistare la scienza delle parole. Triplice è il tuo cómpito: — condurre con diritto metodo il tuo essere alla perfetta integrità del tipo latino; adunare la più pura essenza del tuo spirito e riprodurre la più profonda visione del tuo universo in una sola e suprema opera d'arte; preservare le ricchezze ideali della tua stirpe e le tue proprie conquiste in un figliuolo che, sotto l'insegnamento paterno, le riconosca e le coordini in sè per sentirsi degno d'aspirare all'attuazione di possibilità sempre più elevate.

Allora, avendo così lucida dinnanzi a me la tavola delle mie leggi, io conobbi non soltanto la tristezza del dubbio ma un'ansietà che somigliava alla paura, un'ansietà nova e orribile. “Se una violenza cieca e impreveduta delle forze esteriori urtasse difformasse infrangesse la mia opera! Se io dovessi piegarmi e soggiacere a un sopruso bestiale del Caso! Se il mio edificio crollasse, prima della coronazione, per uno di quei soffii deleterii che all'improvviso irrompono dal buio!„ Questa paura io conobbi, in una strana ora di smarrimento e di abbattimento sentendo vacillare la mia fede. Ma poco dopo n'ebbi vergogna, quando l'ammonitore mi disse: “A giudicarne dalla qualità dei tuoi pensieri, tu sembri contaminato dalla folla o preso da una femmina. Per avere attraversato la folla che ti guardava, ecco, tu già ti senti diminuito dinnanzi a te medesimo. Non vedi tu gli uomini che la frequentano divenire infecondi come i muli? Lo sguardo della folla è peggio che un getto di fango; il suo alito è pestifero. Vattene lontano, mentre la cloaca si scarica. Vattene lontano, a maturare tutto quel che hai raccolto. Verrà poi la tua ora. Di che temi? Che varrebbe tanta disciplina se non ti rendesse più forte delle cose? Tu non dovrai invocare dalla fortuna se non l'occasione; ma pur questa è possibile talvolta, con la volontà, crearla. Vattene lontano, dunque, mentre la cloaca si scarica. Non t'indugiare; non ti lasciar contaminare dalla folla, nè ti lasciar prendere da una femmina. Certo, tu hai bisogno di un'alleanza per fornire una parte del cómpito che hai assegnato a te stesso. Ma meglio è per te attendere e rimaner solo, pur anche uccidere la tua speranza è meglio che sottomettere la tua carne e la tua anima a un vincolo indegno. — Se la cosa amata è vile, l'amante si fa vile. — Bisogna che tu non dimentichi mai questa sentenza del tuo Leonardo, e che tu possa sempre rispondere superbamente come Castruccio: — Io ho preso lei non ella me„.

Giusta scendeva l'ammonizione, in quell'ora. E senza indugio io mi disposi a partire dalla città infetta.

Era il tempo in cui più torbida ferveva l'operosità dei distruttori e dei costruttori sul suolo di Roma. Insieme con nuvoli di polvere si propagava una specie di follìa del lucro, come un turbine maligno, afferrando non soltanto gli uomini servili, i famigliari della calce e del mattone, ma ben anche i più schivi eredi dei majorascati papali, che avevano, fin allora guardato con dispregio gli intrusi dalle finestre dei palazzi di travertino incrollabili sotto la crosta dei secoli. Le magnifiche stirpi — fondate, rinnovellate, rafforzate col nepotismo e con le guerre di parte — si abbassavano a una a una, sdrucciolavano nella nuova melma, vi s'affondavano, scomparivano. Le ricchezze illustri, accumulate da secoli di felice rapina e di fasto mecenatico, erano esposte ai rischi della Borsa.

I lauri e i roseti della Villa Sciarra, per così lungo ordine di notti lodati dagli usignuoli, cadevano recisi o rimanevano umiliati fra i cancelli dei piccoli giardini contigui alle villette dei droghieri. I giganteschi cipressi ludovisii, quelli dell'Aurora, quelli medesimi i quali un giorno avevano sparsa la solennità del loro antico mistero sul capo olimpico del Goethe, giacevano atterrati (mi stanno sempre nella memoria come i miei occhi li videro in un pomeriggio di novembre) atterrati e allineati l'uno accanto all'altro, con tutte le radici scoperte che fumigavano verso il cielo impallidito, con tutte le negre radici scoperte che parevano tenére ancor prigione entro l'enorme intrico il fantasma di una vita oltrapossente. E d'intorno, su i prati signorili dove nella primavera anteriore le violette erano apparse per l'ultima volta più numerose dei fili d'erba, biancheggiavano pozze di calce, rosseggiavano cumuli di mattoni, stridevano ruote di carri carichi di pietre, si alternavano le chiamate dei mastri e i gridi rauchi dei carrettieri, cresceva rapidamente l'opera brutale che doveva occupare i luoghi già per tanta età sacri alla Bellezza e al Sogno.

Sembrava che soffiasse su Roma un vento di barbarie e minacciasse di strapparle quella raggiante corona di ville gentilizie a cui nulla è paragonabile nel mondo delle memorie e della poesia. Perfino su i bussi della Villa Albani, che eran parsi immortali come le cariatidi e le erme, pendeva la minaccia dei barbari.

Il contagio si propagava da per tutto, rapidamente. Nel contrasto incessante degli affari, nella furia feroce degli appetiti e delle passioni, nell'esercizio disordinato ed esclusivo delle attività utili, ogni senso di decoro era smarrito, ogni rispetto del Passato era deposto. La lotta per il guadagno era combattuta con un accanimento implacabile, senza alcun freno. Il piccone, la cazzuola e la mala fede erano le armi. E, da una settimana all'altra, con una rapidità quasi chimerica, sorgevano su le fondamenta riempite di macerie le gabbie enormi e vacue, crivellate di buchi rettangolari, sormontate da cornicioni posticci, incrostate di stucchi obbrobriosi. Una specie d'immenso tumore biancastro sporgeva dal fianco della vecchia Urbe e ne assorbiva la vita.

Poi di giorno in giorno, su i tramonti — quando le torme rissose degli operai si sparpagliavano per le osterie della via Salaria e della via Nomentana — giù per i viali principeschi della Villa Borghese si vedevano apparire in carrozze lucidissime i nuovi eletti della fortuna, a cui nè il parrucchiere nè il sarto nè il calzolaio avevan potuto togliere l'impronta ignobile; si vedevano passare e ripassare al trotto sonoro dei bai e dei morelli, riconoscibili alla goffaggine insolente delle loro pose, all'impaccio delle loro mani rapaci e nascoste in guanti troppo larghi o troppo stretti. E parevano dire: “Noi siamo i nuovi padroni di Roma. Inchinatevi!„

Tali, in fatti, i padroni di quella Roma che sognatori e profeti, ebri dell'ardente esalazione di tanto latino sangue sparso, avevano assomigliata all'arco di Ulisse. — Bisogna curvarlo o morire. — Ma quegli stessi uomini, i quali da lungi erano apparsi fiamme nel cielo eroico della patria non ancor libera, ora diventavano “carboni sordidi, buoni soltanto a segnare su i muri una turpe figura o una parola sconcia„, secondo l'atroce imagine d'un rètore indignato. S'industriavano anch'essi a vendere, a barattare, a legiferare e a tender trappole, nessuno più facendo allusione all'arco micidiale. E non pareva probabile, in verità, che a spaventarli si levasse d'improvviso il grido: “O Proci, divoratori della sostanza altrui, badate, Ulisse è già approdato in Itaca!„

Ottimo consiglio era dunque il ritrarsi dallo spettacolo, per qualche tempo. E io partii con i miei cavalli e con le mie cose più familiari, senza commiati.

Avevo scelto per soggiorno Rebursa, la prediletta delle mie terre ereditarie, prediletta già da mio padre come da me: rifugio favorevole a un'anima valida, paese dalle vertebre di roccia, disegnato con rara sobrietà e gagliardìa di stile: che poteva accogliere e nutrire il sogno imperioso della mia ambizione come aveva accolto e nutrito l'altera tristezza di mio padre dopo la caduta del suo Re e dopo la morte di Colei che vivente era parsa la luce della nostra casa, il nostro più sicuro bene.

Anche, io aveva poco lungi di là — a Trigento — alcuni amici, non veduti da molti anni ma non obliati, a cui mi legavano grati ricordi della puerizia e dell'adolescenza. E il pensiero di rivederli mi rallegrava.

Vivevano a Trigento, nell'antico palazzo baronale circondato da un giardino quasi vasto come un parco, i Capece Montaga: famiglia tra le più illustri e magnifiche delle Due Sicilie, caduta in rovina nei dieci anni che seguirono la disgrazia del Re, quindi ritiratasi a vita oscura nell'ultimo dei suoi feudi, in fondo alla provincia silenziosa. Il vecchio principe di Castromitrano — che aveva goduto i supremi onori alla corte di Ferdinando e di Francesco, e che aveva seguito fedelmente l'esule a Roma e oltralpe senza mai rinunziare alle suntuosità del tempo felice — sognava da anni nell'ombra e da anni invano aspettava la Restaurazione, mentre la sua canizie precoce andavasi chinando sempre più verso il sepolcro e la sua figliuolanza andavasi disfacendo nel tedio inerte. Soltanto la demenza della principessa Aldoina turbava la lunga agonia gittandovi sopra a sprazzi lo splendore fantastico del Passato. E nulla poteva eguagliare in desolazione il contrasto tra la realtà miserevole e i pomposi fantasmi espressi dal cervello della demente.

Quella grande stirpe moribonda aggiungeva a quel paese di rocce una specie di funebre bellezza, per la mia anima che cercava già di raccogliere tutta l'anima inclusa nella chiostra lapidea. Mi nasceva già dal profondo un presentimento misterioso in cui il mio destino si avvicinava e si mescolava a quel destino solitario. E nella memoria mi risonavano con una tenue magia musicale i nomi delle principesse nubili: Massimilla, Anatolia, Violante: nomi in cui parevami fosse qualche cosa di vagamente visibile come un ritratto pallido a traverso un vetro offuscato; nomi espressivi come volti pieni di ombre e di lumi, in cui già parevami scoprire un infinito di grazia, di passione e di dolore.

Le vergini delle rocce

Подняться наверх