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IL LEGATO

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Il fenomeno della insaziabile tendenza pretina al solo godimento dei beni materiali è cosa a tutti nota, mentre pur tutti sanno egualmente che per il resto del mondo, cioè per chi non è prete, essi predicano e millantano i beni spirituali d'una vita avvenire colla gloria del paradiso!

Osservate bene e ben ponderate quella gloria dei preti: "Gloria del Paradiso! Maggior gloria di Dio!". Udite sacrilegio da impurissima bocca: Gloria a Dio! Come se l'Onnipossente, l'Eterno, l'Infinito potesse essere illustrato, glorificato da quella razza di vermi! Agli stolti l'ignoranza e la miseria, per la maggior gloria di Dio; ai preti la crapula, ricchezze e lussuria, sempre per la maggiore gloria di Dio!

Oggi non più ma in passato, i preti, a forza d'imposture e per l'ignoranza delle genti accumularono sterminate ricchezze. Esempio ne sia la Sicilia ove la metà dell'isola apparteneva ai preti e frati d'ogni specie.

E due erano le principali sorgenti delle ricchezze loro. La prima proveniva dalle donazioni dei grandi, i quali dopo aver trascinata un'esistenza di delitti credevano, cedendo al clero una parte dei loro furti, rendere legittimo il possesso dell'altra e sottrarsi al castigo di Dio.

La seconda sorgente di ricchezze i preti la derivavano al capezzale degl'infermi ove padroni dei loro ultimi istanti, colle paure dell'Inferno e del Purgatorio da loro suscitate, carpivano legati e bene spesso l'intere eredità dai morenti a pregiudizio dei figli che riduceano senza pietà alla miseria.

Correva il dicembre del 1849. La Repubblica Romana, sorta dai voti unanimi dei rappresentanti legittimi del popolo, era stata sepolta da alcuni mesi dalle bajonette straniere. I preti ripigliata l'antica possanza dovevano riempire le prebende un po' smunte da quegli eretici di repubblicani ed il conforto, la cura, il sollievo delle anime dovevano ancora provvedere al conforto, alla pienezza, alla libidine di quei corpi beati!

Erano di poco trascorse le nove e fittissima era calata la notte sulla piazza quasi deserta della Rotonda. Sapete voi cos'è la Rotonda? Quella chiesuola ove ogni mattina poche donnicciuole vanno a far corona ad un pretuncolo per la maggior gloria di Dio? Ebbene la Rotonda è il Pantheon dell'antica Roma! Un tempio che conta duemila e più anni, e direste eretto appena ieri tanto la sua conservazione è perfetta, tanto la sua architettura è sublime.

Ogni colonna del suo peristilio sarebbe pagata a peso d'oro dall'antiquario straniero ed il gigante della scoltura Michelangelo, cui questa Rotonda bastava a turbare i sonni, non fu tranquillo se non dopo di avere innalzato nello spazio quel tempio di tutti i dei e postolo come cupola sul colosso monumentale dell'universo(12).

(12) Il Tempio dì S. Pietro.

Ma il prete ne ha fatto la Rotonda, come del Foro Romano, ove s'adunavano i padroni del mondo per discuterne le sorti, ne fece un Campo Vaccino!

Erano dunque le nove d'una notte oscura di dicembre ed a traverso la piazza della Rotonda si vedeva scivolare qualche cosa di nero che t'avrebbe posti i brividi nelle ossa, fossi tu stato uno dei coraggiosi militi di Calatafimi.

Era ribrezzo o paura il sentimento svegliato dall'apparizione di quel fantasma? Non lo saprei spiegare ma credo fosse l'uno e l'altra ed erano giustificati entrambi, poiché sotto la nera sottana che ti scivolava davanti, batteva il cuore d'un demonio, anelante al compimento di tale delitto, che solo l'anima d'un prete può ideare ed eseguire.

Giunto al portone di casa Pompeo, situata in un lato della piazza, il prete dava mano al battente, lo lasciava cadere leggero, quindi tiravasi un po' indietro, ricercando collo sguardo la fitta tenebria, timoroso ch'alcuno non lo scorgesse mentre era intento a compiere la scena scellerata, ch'egli doveva aggiungere ai lugubri drammi della sua vita d'infamie.

Ma chi si curava del perpetratore d'un delitto ove dominavano il mercenario straniero ed il prete! Dove in una popolazione immensa, il poco di buono che c'era, stava imprigionato, proscritto, o ridotto alla miseria?

Il portone della nobile casa venne schiuso. Il portiere riconosciuto il reverendo padre Ignazio, con un strisciante inchino lo salutò, baciògli la mano e gli fece lume accompagnandolo fino ai primi gradini della scala più per cerimonia che per bisogno essendo già ben rischiarato dalla lampada l'ampio scalone d'una casa delle più opulente di Roma.

"Ov'è Flavia?" chiese il chiercuto al primo servo che gli capitò davanti, e Siccio, che tale era il nome del servo, proprio Romano davvero e poco simpatico all'uccello di cattivo augurio: "Al capezzale della morente" rispose, e voltò le spalle.

Ignazio con passo frettoloso, siccome ben pratico della casa, s'incamminò verso una stanza da letto che chiudeva una serie di salotti e di stanze ricchissime. Giunto alla porta faceva udire (sommesso però) certo grugnito che avea del bestiale, ma ben inteso e capito egualmente, poiché in un attimo, lo schifoso ceffo d'una vecchia suora comparve sull'uscio, schiuse, introdusse premurosamente il prete e scambiò con lui uno di quegli sguardi che avrebbero agghiacciato il sole, se fossero stati ricambiati al suo cospetto.

"È fatto?". "È fatto!" era la risposta della donna, ed entrambi s'incamminarono verso il giaciglio della morente.

Don Ignazio trasse di sotto alla gonnella una boccetta, ne vuotò il contenuto in un bicchiere ed aiutato dalla suora, sollevò il capo della moribonda che aprì macchinalmente la bocca e bevette fidente od inconscia tutta la pozione.

Un sogghigno di soddisfazione infernale volava dall'uno all'altro viso dei due scellerati. Abbandonarono sui cuscini il capo già insensibile della vecchia infelice, si ritirarono quindi tranquillamente a sedere in un angolo della stanza. Quivi Flavia passava nelle mani del prete un foglio; questi, senza leggerne il contenuto, che ben conosceva, volava coll'occhio alla firma, la fissava per qualche momento, poi ripiegando lo scritto, lo intascava con mano convulsa, senza aggiungere altro che un "Sta bene! Voi avrete la vostra ricompensa!".

Era quel foglio il testamento della signora Virginia, madre di Emilio Pompeo, morto sulle mura di Roma, da piombo napoleonico. La moglie di Enrico dopo averlo assistito nella lunga agonia, vinta dal dolore, alla sua volta soccombette lasciando un bimbo di due anni, unica prole orbata dei genitori, cui rimaneva soltanto l'appoggio della vecchia ava.

Virginia amava ancora il suo Muzio, unico rampollo dell'antichissima stirpe dei Pompei, con affetto vìvissimo, e certo non avrebbe mancato di lasciarlo in possesso della vasta eredità di famiglia: ma che volete? come tante donne ignorava che sotto la nera sottana batte l'anima dell'inferno.

Don Ignazio con quella ipocrisia e sottigliezza che paiono privilegio della casta pretina, Don Ignazio confessore della vecchia, a forza di giri e rigiri era pervenuto ad ottenere che sul suo testamento s'introducesse un legato a suffragio delle anime del Purgatorio, ma se questo accontentava le anime del Purgatorio, non rendeva pago lo scellerato, il quale agognava all'intera proprietà della casa Pompeo.

Ammalatasi la vecchia Virginia, Ignazio le fece accettare Flavia per infermiera e col suo mezzo, e assiduamente vigilandola senza quasi permettere ch'altri l'avvicinasse, quando il corpo e la mente dell'infelice per l'aggravarsi del male s'andarono indebolendo, il ribaldo non trovò difficoltà a sostituire al testamento che portava il legato un nuovo testamento che lasciava per intero l'eredità Pompea alla corporazione di S. Francesco di Paola, creando per giunta don Ignazio stesso esecutore testamentario.

Non mancavano i testimoni idonei e la bigotta sottoscrisse la miseria e lo spoglio dell'infelice bambino per impinguare la crapula di quei figli della maledizione.

Intanto Muzio, diseredato, dormiva placidamente nella sua cameretta ancora adorna dalla mano materna in un magnifico letticino. Orfano infelice! che il domani doveva svegliarsi mendico.

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