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CAPITOLO XII.
MANISCALCO.

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L’immacolato tricolor, dolenti

Sì, noi macchiammo, per veder risorti

Della Romana Italia, i macilenti

Nipoti a un fascio e ad un cammin consorti.

Or dimmi: hai tu dell’Italo fidente

Appagata la speme—e le proterve

De’ suoi tiranni, soldatesche hai spente—

Birri un dì noi vedemmo e genti serve

Su quest’afflitta terra—e fatalmente

De’ servi e birri, noi vediam caterve.

(Autore conosciuto).

Ammiratore della rigida, non uguagliata da nessun popolo della terra, antica disciplina romana, io, sono quindi amante dell’ordine, cioè—vorrei vedere i popoli prosperi, liberi, felici—ed i loro reggitori, occupati non d’altro che del loro benessere—garanzie sicure queste della quiete pubblica.

Non reggitori simili agli odierni d’Italia, speculando sulle miserie della nazione, rovinandola per soddisfare a depravati capricci, non più tollerati dalla società moderna—e per impinguare numerosa caterva di satelliti che lor fan corona.

Sì! ordine vogliam noi, uomini della libertà e del progresso—cioè: Repubblicani.

Ordine! ordine! e chi lo disturba quest’ordine che l’umanità richiede—siete voi, persecutori delle genti! perturbatori della condizione normale dei popoli—voi! per gozzovigliare alle spese altrui—e far infelici le nazioni che speravano da voi un governo umano e riparatore.

Sì, voi potenti per astuzia e per l’imbecillità altrui, millantate ordine, colla coscienza di mentire—rovesciando, distruggendo ogni più sacra cosa; e facendo della famiglia umana una caterva di sventurati e di spie!

L’ordine che voi volete è la quiete—quella quiete che brama l’assassino nel godimento della roba depredata.

E Maniscalco era uno di quei vili istromenti che la tirannide poltrona, paurosa e codarda, spinge fra le moltitudini per spiarle, torturarle, assassinarle, quando fia duopo, per mantenere l’ordine che disturbano alcuni affamati servi.

Essi, istrumenti, hanno il genio della corruzione, della perversità, e sanno scegliere nella folla i loro seguaci, che distinguono a cert’aria di famiglia, agli inerenti vizii inseparabili di tale bordaglia: vizii ch’essi vogliono soddisfare al prezzo di qualunque infamia, e riconoscibili poi a certa peculiare impronta famigliare alla gente dello stesso marchio.

In Palermo, Maniscalco munito di pieni poteri, ed accrescendo di potenza in ragione inversa del credito de’ suoi padroni—credito da tiranni, che sulla terra dei Vespri si scioglie tanto presto, quanto la neve al contatto della rovente lava de’ suoi vulcani—un perverso come Maniscalco—su cui posava tutta la fiducia del Borbone in Sicilia—s’era certamente permesso ogni specie di dissolutezza, di delitti e crudeltà: la purezza delle vergini, la santità dei matrimonii, tutto andava in un fascio davanti alle libidini dello scellerato. La cuffia del silenzio, e quante torture avevano inventato i Torquemada, erano impiegate per strappare dagli sventurati prigionieri i segreti delle congiure dal dispotismo suscitate.

Un giorno in via Maqueda, tutte le classi della splendida capitale della Sicilia tornavano dal passeggio della Favorita;—tutte le classi, sì,—perchè quantunque poco menomata in potenza la famiglia dei feudali, i popoli, sono fuori da quel servilismo, che nel Medio Evo, non permetteva ad un plebeo di passeggiare accanto ai favoriti dal privilegio.

Nella folla accalcata in quella seconda strada di Palermo, pavoneggiavasi il sanguinario Ministro del Re di Napoli, con scorta numerosa de’ suoi satelliti, armati fino ai denti.—Tali non compariscono in pubblico gli agenti dell’autorità, ove la libertà non è vana parola.

Il policeman dell’Inghilterra, o degli Stati Uniti ispira fiducia all’onesto cittadino, e non timore come il sinistro cagnotto della tirannide—il bravo dei signorotti moderni.

Maniscalco dunque, attorniato da’ suoi, scoteva l’altero suo capo, e gettava sulla moltitudine uno sguardo di disprezzo, e la moltitudine, come se raccogliesse la sfida dell’insolente, calcavasi sulla siepe di sgherri che corazzava il malvivente, premevala, e dal seno di quell’onda di popolo scaturiva una di quelle figure, che la poesia dipinge dominatrici delle tempeste, sieno esse di genti o di elementi.

Tale Colombo—dopo di aver dominato il pelago che divide i due mondi—dominava gl’indisciplinati suoi seguaci in una tempesta d’insubordinata diffidenza al suo genio.

Come lo scopo del grandissimo navigatore fu realtà, la manifestazione d’odio dei discendenti del Vespro e la lama d’un pugnale, sguizzava nell’aere come una fiamma e si conficcava nel petto del disprezzatore delle genti, e lo rovesciava nella polve.

Maniscalco cadeva, ed il suo sangue irrigava una terra che non era degno di calpestare.

Il feritore poi, che alcuni dissero essere un fantasma, ma che certamente era uomo che sprezzava il pericolo, non fuggì, non accelerò il passo; ma in un orgasmo che fece stupire gli astanti, e paralizzò, ammutolì gli sgherri, pria sì baldanzosi, il feritore, dico, strappò da sè l’involto di carta che lo copriva da capo a piedi, ne sparse i brandelli sul terreno, e come per miracolo si confuse nella folla, ove fu impossibile di rintracciarlo per quante indagini se ne facessero.

I Governi ed i preti adoperano ogni mezzo perverso per corrompere le genti, e riescono sovente ad attrarre nelle loro reti qualche sciagurato, ma la massa delle popolazioni in Italia abborre la delazione, ciò sia detto in onore del nostro popolo, e se la miseria od il vizio precipitano alcuno nell’infamia, certo il delatore nel nostro, benchè infelice paese, sarà sempre generalmente in orrore.

Io ho veduto il popolo di Palermo nella gloriosa rivoluzione del 60 correr in cerca dei sorci (spie) con un accanimento indescrivibile.

Chi sa quanto il coraggioso assassino avea lavorato per tagliare, cucire, pitturare cotale abbigliamento di carta somigliante ai panni da poter comparire in pubblico senza essere riconosciuto.

Era una vendetta, meditata, certamente.

E fin ora non si conosce la causa dell’attentato, nè chi lo perpetrava.

Era lo sconosciuto qualcuno dei torturati da Maniscalco? qualcuno dei feriti nell’onore? Poichè i cagnotti dei tiranni sono generalmente gente lasciva, ed il capo degli sgherri, come già abbiamo accennato, avea fama di tale—od era alcuno di coloro che preferiscono la morte al vergognoso servaggio del loro paese?

Assassino: lo chiamarono i giornali borbonici e tale lo chiamerebbero pure altri giornali non borbonici.

Assassino! e veramente io non vorrei che si uccidesse l’uomo dall’uomo, e sono contrario alla pena di morte sotto qualunque forma.

Assassino, dunque, fu il feritore di Maniscalco e Torquemada ed Arbues ed i bruciatori delle creature umane sono santificati! ed il dominatore del Tirolo che appiccò Mantovani, Ungheresi, Piemontesi! il Reggitore della Polonia passando la vita alla distruzione di quel popolo, sottoponendo al knouth sino i bambini e le donne!—ed il Magnanimo che crede oggi di coprir colla sua veste d’Agnello le macchie di sangue di tre popoli, sono Maestà!

Assai più coperti d’omicidii dell’assassino di Maniscalco, ma infine Maestà!

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