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MISERERE

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Memorie di viaggio.

el fondo di una valle ignota ai touristes, c'è un paesuccio di dieci o dodici case miserissime piantate una a ridosso dell'altra in salita, di modo che le finestre della seconda guardano sulla prima e così via. Il villaggio si allunga nel senso della valle e questa è così stretta che non dà spazio a due case di fronte; un torrentello rabbioso e grigio uscito pur ora dalla morena di un piccolo ghiacciaio, tiene col suo letto quanto spazio piano intercede fra le opposte montagne e rumoreggia incassato in una gola profonda e dirupata. L'unica [pg!58] via del paese e le case corrono sul fianco della montagna a sinistra del torrente; la montagna è erta e delle case, quello che è primo piano sulla facciata verso la via, di dietro è piano terreno.

Nei mesi della state il sole scende talora in quel baratro e vi fa fumare le pozzanghere dei letamai, ma dura poco; i raggi non vi giungono che a perpendicolo, appena inclinati il monte li intercetta. Quei paesani non vedono mai l'ombra delle loro case, non conoscono i bei lembi oscuri di terreno contorniati da terreni luminosi, nè l'affievolirsi graduale dei raggi nelle ore del tramonto. Là il sole dardeggia o tace, vi piomba come un fulmine, arde un momento e scompare. L'inverno dura sei mesi, nei quali la vicenda delle ore non produce che un alternarsi di diverse oscurità; la mezza luce che regna costante impedisce i crepuscoli o almeno non li lascia avvertire, la notte ed il giorno si seguono rapidamente come per l'abbassarsi o il levarsi repentino di una cortina. I villani leggono per così dire il nome di ogni mese sulle alture delle montagne; in novembre il sole non giunge che a quel punto, in dicembre a quell'altro, gennaio lo attira più in basso, febbraio più basso ancora, finchè giugno lo reca in paese e settembre ne lo riporta via. Le nebbie vi sono frequenti e fitte, [pg!59] i muri delle case che se ne imbevvero mostrano qua e là sgretolati delle pietre lucide sudanti per l'umido. Quando l'aria è tranquilla il paese manda un odore eguale di stalla, di latte, di fieno, con qualche nota caprina acuta come un sibilo. Colla nebbia gli odori si condensano e penetrano nel vestimento. La via fu già e forse dura selciata tuttora, protetta com'è da uno spesso strato di melma, di letame e di pagliume che la fa meno sdrucciolevole ed assorda il rumore dei passi sicchè pare che la gente vi cammini in punta di piedi. D'altronde gli abitanti portano certe scarpe di panno colla suola di corda intrecciata che non fanno rumore; dalla via si vedono le donne salire su per le scale di legno e passare lungo i ballatoi senza rendere il menomo suono.

Un forestiere che vi giungesse a sera, lo crederebbe un paese maledetto e disabitato. Siccome le stalle non guardano verso la via, non c'è lume a nessuna finestra; solo pei chiassuoli fra una casa e l'altra si vede talora un piccolo cerchio di luce pallida, incerta, una bianchezza nebbiosa diffusa per l'aria che mette in pensiero di nefandi sortilegi. Quella luce esce traverso i vetri unti, sudanti, rabescati di ragnatele, di una finestrucola bassa e stretta aperta a fior di terra. Di là, col poco raggio giungono suoni che non [pg!60] hanno nome, voci sommesse che sembrano provenire dalle viscere della terra, senza intervalli, simili a preghiere bisbigliate in una cripta intorno ad un sepolcro.

Gli abitanti vestono di nero, le donne portano in capo una cuffia nera e gli uomini un berrettone dello stesso colore. Parlano poco, ridono poco, hanno l'aria sospettosa e dolente propria degli esseri che vivono isolati. Infatti, quel paese non vede forse dieci forestieri l'anno, e di quelli, cinque almeno sono fuggiaschi in cerca di valichi difficili ed ignorati; gente che giunge a notte, si rimpiatta sui fienili e parte prima che aggiorni.

La chiesa è servita da un cappellano che quando non è un santo, è un prete iroso caduto in disgrazia del vescovo e messo lì per punizione. C'è anche un'osteria, ed è la casa più alta del paese, una casa grossa che pare e fu già un convento, bianca, fredda, piena di finestre chiuse e di camere vuote. Invece di serrarsi in due o tre stanze a terreno, la vecchia padrona disseminò i pochi mobili nei più vasti ambienti della casa, cosicchè dalla sala da pranzo, per chiamar gente non basta levare la voce, bisogna percorrere a tastoni un lungo andito, dove le assi fradicie cedono sotto i passi, affacciarsi alla scala e picchiare col bastone sugli scalini di legno che suonano a vuoto.

[pg!61] Nella camera a dormire, sopra un cassettone zoppo da un piede, una campana di vetro racchiude il busto in cera di una vecchia vestita da signora, certo qualche parente morta della padrona. La faccia ha l'orribile perfezione dei ritratti calcati nella maschera tolta sul cadavere; la cera trasudata traverso la tinta di carminio ritorna al viso morto il colore invano falsificato ed una polvere finissima filtrata malgrado il panno che orla la bocca della campana, mette su quelle guancie dei rilievi terrosi e delle ombre che ricordano la spaventevole magrezza dei morti. Quel viso di pergamena è ornato da due lunghi ricci inanellati. Al peso dei passi il tavolato traballando fa zoppicare il cassettone ed i ricci dondolano gravemente, col piccolo fruscio asciutto delle foglie secche.

Io giunsi al villaggio sul fare della notte; per strada, discorrendo col mulattiere, avevo appreso che la padrona della locanda era una vecchia zitellona sospetta di stregoneria tanto che nessuna ragazza per bisognosa che fosse, aveva potuto durare domestica nella sua casa. Non che fosse bisbetica o manesca, al contrario: amava di soccorrere le miserie dei compaesani e tutto il villaggio era indebitato con lei; ma il suo aspetto era così rigido e severo, e così asciutta la sua voce e così brusco l'accento e l'occhio [pg!62] così immobile a fissare lontano le cose che non si vedono! Di più nell'osteria c'era una camera dove non era mai entrata anima viva e dove tutte le sante notti dell'anno il lume durava acceso fino alla mattina. Gli anziani del paese raccontavano che anche quand'era giovane e bella da dipingere, Mademoiselle aveva l'occhio vitreo e l'orecchio sempre teso ad ascoltare le voci.

Della sua antica bellezza si dicevano prodigi ma non glie l'aveva certo sciupata l'amore, che anzi, quarant'anni addietro accusata di infanticidio e tradotta dinnanzi il tribunale, questo l'aveva assolta, essendo accorso tutto il paese a giurare che non le si conoscevano amanti e che nessuno mai l'aveva nè veduta nè tampoco sospettata incinta.

L'accusa era fondata sulla testimonianza di un sergente doganiere il quale pretendeva di averla ravvisata una notte nell'atto che sotterrava un involto, aiutata da un omaccione alto e robusto del quale egli non sapeva dare altra notizia. Ma oltre che, come ebbe a dire in francese l'avvocato difensore, oltre che la nuit tous les chats sont gris, il sergente non aveva già denunziato il fatto appena seguito, bensì tre mesi dopo, quando cioè un caso fortuito ebbe rivelato il cadavere del neonato e durante quei tre mesi tutti lo sapevano, il sergente aveva cercato invano [pg!63] di sedurre la fanciulla, cosicchè nella sua deposizione appariva evidente un atto di vendetta. E bisogna dire che ella fosse veramente pulita come uno specchio se malgrado l'odore di fattucchiera che spandeva intorno, i paesani avevano deposto così unanimi in suo favore ed il cappellano istesso, un vecchio andato di poi diritto in paradiso, giurando sui sacri evangeli, l'aveva proclamata la più casta e pia e benefica vergine di questo mondo.

Quando scesi all'osteria e la padrona mi corse incontro a festeggiarmi, poco mancò non tornassi indietro sul momento. Nessuna delle sue fattezze poteva dirsi particolarmente spiacente ma insieme componevano una figura indimenticabile a cagione del ribrezzo che ne derivava. Io domandai più tardi a me stesso se la sua somiglianza col busto di cera avesse contribuito a tale effetto. Lo somigliava infatti, se non che i suoi capelli erano neri e quelli del busto di una tinta dorata pallida come li hanno certe ragazze giovanissime che poi gli oscurano invecchiando. Ma dovetti riconoscere che ciò non era, perchè vidi la padrona assai prima che il busto e questo non accrebbe la sensazione disgustosa ricevuta dalla vista di quella, tanto essa aveva subito raggiunto la maggiore possibile intensità. Era una donna alta, asciutta, la fronte spaziosa [pg!64] nettamente incorniciata da due righe di capelli neri appiastrati e grassi per l'unto e scendente al resto del viso senza interruzione, poichè non recava altro segno delle sopracciglia che un leggiero arrossamento della pelle, evidente indizio di pelo biondo o rossastro ed in lei quindi, sicura denunzia di parrucca. Era pallida di un pallore muto e dissanguato che non si coloriva nemmeno sulle labbra e sul quale le rughe apparivano così violente da parere incise per entro tutto lo spessore della carne. Si reggeva imperiosa sul busto sottile di giovinetta e serbava nell'andatura quel vezzo contadinesco che consiste nell'irrigidire leggermente la gamba appena fatto il passo, locchè dà una scioltezza saltellante a tutta la persona. I suoi modi, l'atteggiarsi, le parole e sopratutto gli sguardi tradivano un proposito sempre presente di parere disinvolta, ed insieme una dolorosa e puerile timidità. Appena fissata chinava gli occhi con una espressione rapidissima di sbigottimento e li risollevava di scatto per piantarveli in viso, tesi e corrucciati dallo sforzo. In casa attendeva a tutte le faccende, non avendo domestica. Mentre cenava era un continuo salire e scendere dalla cucina alla camera da pranzo; le sue scarpe di panno non facevano scricchiolare pure un gradino della scala nè una tavola del corridoio, di [pg!65] modo che appariva improvvisa come un fantasma. In fin di cena avendo io avanzato mezzo il vino della bottiglia, essa, venuta a sedermisi accanto, ne versò due dita in un bicchiere e volle toccare con me augurandomi (Dio che orribile sorriso!) l'amore fedele della mia donna.

Come fui in letto ed ebbi spento il lume, dopo lo sbattere di qualche uscio e lo stridere di qualche chiavistello, tacque nella casa ogni rumore di esseri viventi; solo saliva dal basso un mormorìo sordo e continuo, che sulle prime attribuii al torrente vicino. Ma a mano a mano che tendevo l'orecchio per accertarmi della sua essenza mi persuadevo che non era rumore d'acqua. L'acqua dei torrenti montani non manda il suono eguale che sogliono i larghi fiumi delle pianure; a volte leva la voce, a volte l'affievolisce, di quando in quando sembra mutare di letto e precipitando per nuovi dirupi schiaffeggiare delle roccie non mai prima bagnate, poi torna al corso di poc'anzi se non che ad un tratto diresti che apra dei gorghi improvvisi e vi si sprofondi borbottando. Talora la sua voce è così fioca che pare silenzio; allora occorre un atto determinato della volontà per udirla e quando l'odi credi discernere nel grave suono i suoni minuti di ogni onda e di ogni goccia e l'illusione è così perfetta che ti domandi se non piove. Il mormorio che sentivo [pg!66] era invece senza fine eguale, non si allargava in ondate per l'aria, non mi giungeva pei vetri della finestra; saliva insidioso su per le muraglie della casa e usciva certo da un luogo chiuso e profondo. Che fastidio mi dava! Accesa dagli insoliti spettacoli di quella sera: la valle stretta e desolata, il paese deserto, le case mute, le finestrucole rischiarate da una luce bianca di fuoco fatuo, l'osteria fredda e vasta come un convento e il racconto dell'infanticidio e quella donna e quel viso di cera morto che mi aveva fatto spegnere il lume perchè non ne reggevo la vista; la mia fantasia creava immagini di una realtà spaventosa. Tutte le paure infantili, tutti gli orribili racconti di cui mi ero compiaciuto in passato, tutti gli errori vinti, tutti i terrori fantastici che torturano la mente in seguito a qualche lutto domestico, tutte le viltà dell'anima, tutte le infermità dell'intelletto, insorgevano confusamente, rabbiosamente contro i consigli della ragione e la debellavano. Non c'era verso che potessi durare per la via delle spiegazioni semplici ed ovvie, che anzi ragionavo il mio errore con una pacatezza sofistica della quale, pure avvertendola, non mi sapevo liberare. Messo in sospetto di fatti anormali, mi ripugnava, come cosa contraria alla mia dignità, riconoscere da cause ordinarie lo smarrimento in cui ero caduto; [pg!67] non mi domandavo già: Donde viene tale mormorio? ma bensì: Perchè tremo tutto e sudo freddo? e cercando di proporzionare i fatti alle sensazioni anzichè queste a quelli, aggravavo sempre di più lo stato morboso da cui intendevo levarmi.

Nella febbre che mi agitava, credetti persino che il mormorìo provenisse dalla campana di vetro posata sul canterano, che fosse un filo di voce uscito dalle labbra cadaveriche di quel mostro che vi stava rinchiuso, che le pareti di vetro mi impedissero di discernere le parole e che queste turbinando nel poco spazio serrato perdessero accento e cadenza per convertirsi nel suono lugubre e confuso che mi atterriva.

Accesi il lume.

La stanza aveva due usci; uno metteva nel corritoio e l'altro in un camerone attiguo, vuoto. Mi levai, posai la candela nel vano di questo secondo uscio, mi precipitai al canterano, presi la campana col suo piede fra le braccia: i ricci biondi agitati ballarono sinistramente sul viso terroso, spolverandone i rilievi; la cuffia cannellata tremò tutta ed io portai correndo il mio grottesco fardello fino all'angolo più discosto della camera vuota. Con quante cautele lo deposi a terra! Se la campana, l'unico e fragile ostacolo che mi difendeva da quel cadavere mutilato, [pg!68] si fosse infranta, sarei morto di paura. Poi tornai rinculoni alla mia stanza, chiusi l'uscio a chiave e mi sentii sollevato.

Ma il mormorìo seguitava.

Apersi la finestra. La brezza gelida della notte mi rincorò; d'altronde il rumore naturale dell'acqua corrente, tornò a parermi per un momento la sola causa delle mie paure. Ma quando il freddo m'ebbe fatto rinchiudere i vetri, ecco di nuovo salire, rasente i muri la nota bassa, grave, la nota umana che mi atterriva. Allora mi vestii alla meglio ed uscii nel corritoio. Le tavole avvezze ai passi muti delle scarpe di panno, scricchiolavano e gemevano come nuove nel morto silenzio della casa. Infilai la scala. Le porte delle stanze al primo piano erano tutte spalancate e per la bocca rischiarata sugli orli mostravano profondità oscure piene d'insidie. Passando, la mia candela gettava sprazzi di luce sui mobili e improvvisava forme fantastiche. Di quando in quando sostavo per avvertire il mormorìo, a volte lo perdevo, ma fatti pochi passi tornava a colpirmi insistente, monotono come prima.

Giunsi al piano terreno. Nella cucina biancheggiava un chiarore, smorto, diffuso, meno intenso che il riflesso delle nevi nelle notti serene d'inverno, immobile come le luci il cui centro è [pg!69] lontano. Il mormorìo invece era vicinissimo ma la sua causa durava misteriosa, anzi era accresciuta di mistero.

Risoluto a scoprirla, spensi il lume a fine di guidarmi col chiarore che avevo offuscato. Esso proveniva da un immenso camino dalla larga cappa sporgente che teneva tutta la parete di fronte all'entrata. Sotto la cappa, nel muro di fianco si apriva un usciolo basso e stretto che metteva ad una di quelle camerette che in Piemonte chiamano Peilo.

Là rischiarate da una lucerna ad olio appesa alla parete, stavano due persone: la padrona dell'osteria ed un vecchio di forme atletiche, questi abbandonato su di un inginocchiatoio in atto di grande sfinimento, quella ritta in piedi daccanto a lui, con un libro in mano che teneva levato all'altezza della lucerna per vederci. Tutti e due mi voltavano la schiena. La donna terminava allora di leggere l'ultimo mistero doloroso al quale seguiva la fila delle Ave Marie e dei Pater che essa recitava con voce chiara e con misurata lentezza, mentre il vecchio li masticava confusi, come avesse la lingua tarda e spessa e la bocca bavosa. Alla filza delle Ave Marie, seguirono il requiem e le litanie della Madonna che apparivano dedicate a qualche determinata persona, poichè il ritornello ribatteva sempre: ora [pg!70] pro eo, ora pro eo.—A volte, la voce del vecchio raggomitolato nell'inginocchiatoio accennando a spegnersi, la donna levava la sua, dandole non so quale accento autoritario, così imperioso che tosto l'altra si studiava di farle eco con docilità.

Dopo l'ultimo Oremus, la vecchia senza rifiatare intonò il Miserere, ma l'uomo si levò in piedi barcollando e disse:

—Ho sete.

La donna gli pose una mano sulla spalla premendovi finchè non l'ebbe rimesso ginocchioni; ma oramai era sola a pregare; l'altro, briaco fradicio, pareva dovesse abbisciarsi e ruzzolare in terra ad ogni momento.

La vecchia lo scoteva, lo sollevava, lo reggeva, lo stimolava con pugni e tornava sui versetti già recitati per farglieli ripetere parola per parola:—Voglio salvarti, voglio salvarti tuo malgrado, contro di te.

E lo chiamava con parole di vituperio, lo guardava coll'occhio fosco, ardente, saettante uno sprezzo mortale ed una inesorabile fermezza. E il vecchio, dominato, quasi snebbiato da quegli sguardi, balbettava finchè questi lo tenevano soggiogato, balbettava parole latine informi e slabbrate, ed appena essa metteva gli occhi sul libro, si accasciava e taceva un'altra volta. A un punto [pg!71] parve volersi rivoltare, urlò un Cristo battendo un gran pugno sull'inginocchiatoio ma non si resse e ricadde. Un'altra volta allungò la mano verso una bottiglia (certo una bottiglia d'acquavite) posata lì presso su di un tavolino a mezza luna, ma la vecchia fu più lesta a ghermirla e gli disse:

—Prega prima, dopo berrai.

Egli le si rivolse supplichevole, giungendo a stento le mani colle mosse esagerate e violenti degli ubriachi ed essa senza badargli ripigliò l'inno, grave, immobile, lasciando piombare ogni parola come una minaccia e contentandosi oramai dell'assentire che l'altro faceva col capo e del grugnito che mandava frettoloso alla fine di ogni versetto, per non essere colto a tacere.

Terminato il Miserere la donna gli versò mezzo bicchiere d'acquavite e glie lo porse:

—A domani, ricordati, ce ne sarà dell'altra.

Egli tracannò d'un getto tutto il liquore e disse beato:

—Buono! Buono! Com'è buono!

Poi la donna lo prese per un braccio, staccò la lucerna dalla muraglia e tutti e due mossero per uscire. Io mi gettai nell'angolo oscuro del focolare, li vidi traversare la cucina, sentii tirare il chiavistello della porta di fuori e una canzonaccia rauca e trascinata mi annunziò che [pg!72] il briaco era all'aperto nel gran silenzio notturno della via.

La vecchia tornò indietro mi ripassò davanti una seconda volta senza vedermi, riappese la lucerna alla parete e si abbandonò sull'inginocchiatoio in atto di dolore mortale senza lacrime.

Quando risalii nella mia stanza il mormorio era cessato, ma non potei chiudere palpebre in tutta la notte. Io mi sono fitto in mente che la padrona dell'osteria vada espiando così coll'antico amante e complice, l'antico dolce peccato e il delitto d'infanticidio di che il tribunale l'aveva assolta per difetto di prove; che essa attiri l'indurito briacone alla preghiera, colla promessa di abbondanti libazioni, che gli affretti la morte in questo mondo per assicurargli il perdono e la salvezza nell'altro.—Ma io sono un romantico impenitente e forse calunnio quella disgraziata.

[pg!73]

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