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III. GENIALE EBEFRENIA

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Codesta precocità lo invasa ed instaura, senz'altro, a nostro predecessore morale; codesto nuovo attributo, ch'egli assegnava al libro, libro-vita, libro-carità, libro-dolore, per cui la carta agisce per sè, si riproduce solidamente ricostruita di voce e di volontà, battaglia, o schermo alle nostre soferenze, lo aveva reso, senza che egli lo accorgesse, precursore di Mallarmé: «Il Libro, espansione totale delle lettere, è un tacito concerto morale; è la persona stessa del poeta, se insiste sopra di un suo dolore, di una sua gioja, di una sua malinconia, di un suo disinganno.»

Ora, chi discese da Mallarmé? Chi discende da Carlo Dossi? Noi; un Alberto Pisani ci aveva preannunciati, uscito da un Guido Etelredi suo avatar di L'Altrieri; si continuerebbe nell'Impenitente, che, dopo La Desinenza in A, dedicherà alla Geniale la confessione piena ed intera di Amori: Carlo Dossi, iperemico di genio, ipertrofico di coltura, s'ammalava d'ideale e di belle lettere italiane. Egli era in pubertà; pubesceva con lui la città che abitava, Milano; adolesceva la Patria; era pur logico tutti patissero, senza avvisarli, passaggi inquieti d'ebefrenia; l'epoca li richiedeva. Sia per la collettività di un eletta di popolo, romanticismo, sia per l'elezione di un individuo, simbolismo, le cellule prime, o l'aggregato di cellule, rispondono a dei dolori vaghi ed innominati che li vanno martoriando senza lasciarsi attutile e vincere, perchè ne nascondono, misteriosamente, le ragioni. Sono i dolori innominati, non forti, ma insistenti, non decisi, ma continui, che vanno perseguitandoci senza localizzarsi, che formano, vagamente ma realmente, il nostro malessere, uncassines li chiama Locke i senza causa; ciò che ne accenna l'avvertenza morale di sofrire la vita.

Epoca ibrida e dolorosa; vi si aspetta qualche grande avvenimento; il giovanetto attende l'amore; l'estetica fa allora eccesso e non difetto; vi si conoscono le ipertrofie sentimentali a profitto del culto del bello; si pretende e ci si crede qualche cosa di più e di diverso di quanto siamo; interviene il bovarysmo. Giornalmente, vengono a ferirci, con temprati bisturi sapienti, la noja, l'umiliazione, il dispetto, sensazioni morali male definite e peggio conosciute, che si fondono nel tædium, non quello latino e stoico per cui Petronio elegge la morte alla vita, ma quello di Leopardi, di Hartmann, di Schopenhaurer, che, pur lamentando di vivere, non si lasciano morire.

Vi si cerca qualche cosa di più che l'ordine di natura non può, per ora, concederci; ed intanto, la crescita normale accelera il suo processo febrilmente. La crisi, nell'esistenza maschile, si riassume una volta per sempre nello spazio di un lustro; qui convengono a svampare i vapori periodici e catameniali che tormentano le feminilità puberi, le involgono e le rivolgono, sempre che li patiscano, al desiderio smodato, all'isterismo, all'amare l'amore, ed alla poesia: in fine, pubertà. Se intercorre tra i quindici e i vent'anni; se non ritarda con processo postumo — e ne diventa una malattia morale, che può dare dei frutti d'arte saporosissimi, ma artificiali ed esigenti di una passione un poco sadica; — se una buona costituzione mentale rifiorisce, si incomincia armoniosamente la prima tappa per la esperienza; si va alla conquista della coscienza delineatasi sul bene e sul male; si risolve in versi; i più forti la deviano a profitto della prosa.

In alcuni organismi privilegiati, e per ciò dolorosi d'esserlo, questo stato di continuo malessere, questo stato in divenire, perdura; li accompagna, fedele tormento e carnefice. — Pietro Verri nota, nel Discorso sull'indole del piacere e del dolore, che tutti li uomini che coltivano le scienze e le arti con buon successo, furono spinti dalla infelicità e dalla folla dei mali sulla laboriosa carriera che hanno battuto: ed a loro, così, vien concesso, per tale esuberanza, una valvola di sicurezza, per cui esce, in armonia ed in equilibrio, il troppo pieno della loro commozione. — Arte, rifugio, arte, romitaggio tranquillo, ma donde si espandono, donde non hanno più paura, nè di sè, nè delli altri, nè delle cose del mondo: — arte, che li rispecchia e perciò giudica li altri. L'arte li arma e li protegge, li avvalora; dai termini ambigui, dai dolori innominati e dal malessere, costoro, favoriti e cruciati insieme, si riverseranno nel libro; non nel libro del giorno, ma nell'opera dell'epoca; questo, che non si disperde, nè si dimette come un capellino alla moda, ma resta; ed è necessario che lo conosca, a riflesso del tempo, l'uomo civile.

La letteratura universale se ne avvantaggiò, ne conta i capolavori, siano La Vita Nova, o La Vita di Alberto Pisani siano L'Education sentimentale di Flaubert, o La Saison en Enfer di Rimbaud; precoce e restio, pei secoli, ciascuno, come Rousseau, ama dettare Les Confessions di fatti accaduti, o di fatti sentiti e per ciò più veri; e, l'uomo conservando il tono del proprio tempo, riesce oltre a dire la semplice personalità dell'uomo di natura. Romanticismo, se il tempo e le costituzioni saranno militari e reazionarie; simbolismo, se l'assetto della nazione volgerà alle industrie, il tono dell'anima al cinismo utilitario.

Lasciano il modo freddo e sereno del classico, in cui il ragionamento si distende, in cui la realtà ha un culto maggiore della verità, e, per tutti, un valore uguale e circoscritto: su cui non si sente il bisogno di ritornare alla ricerca delle essenze, dei nuclei costitutivi le idee, le emozioni, le credenze, i fatti sociali; in cui l'uomo saggio è calmo, riposa tra quattro spunti, o ruderi fondamentali di cognizioni, e, sopra a queste quattro sicurezze imparate dai maestri, si adagia, pago che rappresentino tutto il suo bagaglio scientifico e religioso. — Romanticismo, simbolismo, l'inquietudine,

«che col dar volta al suo dolore scherma;»

il mare in tempesta; il vento che ulula e sradica; il lago che schiumeggia crestato e livido; la foresta che si discapiglia; tutti nervi esagitati; la nevrastenia alla porta della ragione; la confusione tra i diritti, i doveri che non sono più e molti diritti che permangono privilegi; il cervello che fermenta ed estua; la rivoluzione imminente sulle piazze; provvidenziale e dolorosa, l'arte. È la secchia d'oro, scolpita ed aggemminata, uscita da mani pie e squisite, che discende e s'immerge al drenaggio dell'anima ripiena d'ogni liquore prezioso e va svuotandola senza interruzione sulle pagine; le quali si coprono di scrittura nera, ma cantano i sogni biondi e rosei andati a male, l'ostilità del tempo inclemente, i desiderii senza soddisfazione: liquore, che è il frutto della cooperazione di natura se, dalla mente, imbriglia l'ebefrenia e rappresenta il sopra più dell'ideale. — Crepuscolo, ora dei nervi. «Il giorno fondesi nella notte. È la più stanca ora per tutti e la più insidiosa per quelli, in cui i nervi tiranneggiano i muscoli. Già l'uomo cede alla donna, la riflessione alla spontaneità. Tutti quei sentimenti, sepolti lo stolto giorno in un tenore di vita odiata e nel sospettoso contatto coi nostri così-detti fratelli, risorgono; ciò che vi ha in noi di gentile parla. Nè le carezze di quest'ora tristissima son sconosciute ad alcuno, perchè tutti hanno in sè qualche cosa di buono, e ne hanno, perchè a nessuno è negato di amare»[10].

Crepuscolare in fatti, coll'Alberto Pisani, Carlo Dossi si dichiara e si intorbida insieme; ed è tuttora un grande mistero fisiologico, direi quasi mostruoso, il vederlo in una vita più chiusa dalla comunemente esercitata da tutti, quindi senza un vasto campo d'osservazione a portata delle sue esperienze, indovinare gesti e fatti della vita altrui nelle più intime esercitazioni, farsene il critico e l'humorista. Suol dire per ciò: «[11]Ho cominciato a pensare a cinque anni, — a scrivere a sette — a sedici anni stampava. Ho sofferto una specie di purgatorio matrimoniale dai ventinove ai trentasei, a trentasette ero già entrato in vecchiaja, con disturbi visivi, essicamento di pelle, ateroma. La sola facoltà genetica mi si risvegliò tardi poichè non conobbi donna che ai ventisette anni»; e la conobbe allora dal lato pessimo se gli ha fatto produrre La Desinenza in A.

Onde, chi fu precocemente appassionato del sentimento d'amore per riflesso di letteratura e per schiva funzionalità biologica — che del resto lo difende e lo copre dalla repulsa feminile — sente tardi il senso genetico. Si prolunga per lui questo suo stato speciale, come lo accolse anticipato, fattore delle sue migliori rappresentazioni estetiche; non viene assolto in tre anni, come normalmente impiega a nascere, svilupparsi, determinarsi in virilità; ma perdura tre lustri, irretizzandogli le cerebrazioni in modo acuto, donandogli, in oltre, le facoltà necessarie di costanza, coraggio e volontà per te quali ha sentito il bisogno di essere originale e similmente sincero.

Egli soferse e gioì quella età[12] «che in alcuno confondasi colla infantile», ed io aggiungo, in Carlo Dossi, colla maturità — «in cui l'anima anelante di congiungersi ad altra e non trovando chi incontro le venga, dona parte di sè perfino ad oggetti della natura organica; i quali sotto il suo soffio si fanno quasi sensibili: non potendo raddoppiarsi si divide».

Ed ecco, che i maschi, per eccesso di virilità non ancora razionalmente impiegata, si feminizzano; ed ecco, che, sorpreso Apollo da Dionyso, Cristo predica e Leonardo da Vinci vede errare, e ritrae, quel sorriso unico ed ineffabile sulle labra adolescenti di San Giovanni — Bacco, di Gioconda — Melusina; e tutte le parole proferite hanno un senso oscuro e conturbato che ricercano luce e speranza. Turgido di linfe, che fremitano nell'impeto seminale e ribollono, l'adolescente, nascosto e pur offerto alla pubblicità della letteratura, si appresta, colle grazie pudiche, spavalde, originali, corrotte, ciniche, in una sincera confusione che lo fa amare.

Egli coltiva la sua crisi; è la sua malattia e la sua gioja, gode della sua innocente perversità come una fanciulla, al primo apparire di sua luna rossa: avete letto Claudine à l'école di Villy? — Parlando di sè, Carlo Dossi attesta il buon lievito di una sua cattiveria e mattia. Ed allora si amano, tra le malinconie, le rumorosità dei giuochi strani e crudeli. Avvisano, quelle vergini di difficili mesi, nella incipienza delle virtù generative, anche le altre della distruzione: Shiwa ne è il mito nella trimurti. L'ebefrenismo si balocca sulli scrupoli religiosi ed il sadismo morale. L'organo è in floglosi e sitisce; la perversità gli porta requie e torna ad abruciarlo insieme: cupidigie d'amplessi, pazzie di amori angelici; sboccia la donna che sa concepire. Ad assaporare questo frutto, che palpita ed aspetta, ecco, un Don Juan di metafisica. Un distruttore di metafisiche. Carlo Dossi, è qui invece il paziente: egli sa che i due eccessi non si completano, ma si esasperano; sa che Le lettere di amore di una Monaca Portoghese equivalgono a Faublas, che Imperia è classicamente sana ed equilibrata, e che le ascetiche si appajano alle ammalate di ninfomania. Indovina le femine e le persegue; sembra del medesimo sesso: un medico illustre, infatti, discorrendo della costituzione fisica di Carlo Dossi, scherzando, amò sostenere, che, fattone il più tardi possibile la necroscopia, si sarebbe trovato, localizzato dentro di lui, un embrione di femina in arresto di sviluppo: e Primo Levi, che ha pur vissuto i suoi anni giovanili coll'autore di Alberto Pisani, non solo lo crede, ma lo torna a scrivere persuaso dall'opera letteraria dell'amico.

Chi poteva essere, adunque, la creatura ambigua, che dall'aspetto si definisce male? Malinconia; è chi va cercando e patisce un difetto per un eccesso[13]. «Or che c'entrava mai; tomo senza compagno, tomo de subtilitate, tra quei tomi di amori appajati?» Cerca, e, se non trova, imagina e plasma a sua imagine; e si confida alla carta, al mezzo più semplice e più sicuro; e sa che egli non si tradisce; ma alcuno saprà rievocare la voce viva, il suo canto, come, seguendo le note nere, la mano del musicista sprigiona dalla cassa armonica, quando ne prema i tasti, un mondo nuovo d'armonie.

Certo, dall'altra parte, rispondono: il libro non è inerte mai; al tomo de subtilitate corrisponde l'anima lontana, ignota che si affaccia, tra i fumi e le nubi e diventa La Geniale. «A lei che verrà» dedica un esemplare della Vita di Alberto Pisani il 30 novembre 1870: ed il 23 settembre 1883 «... e non venne ancora» ed il 15 maggio 1889 «ne è ancor venuta» ed il 16 luglio 1891 «.... e forse non verrà più» ed il 1 dicembre 1893 «A lei finalmente apparsa!» Non per altra ragione, Alberto Pisani aveva scritto, nella casina del Mago, davanti alla finestra spalancata sopra la prospettiva del cimitero intimo e breve, Le due morali: egli le aveva destinate in mente ed in cuore, a quella sola Donna Claudia Salis, per cui sofriva; tutti li altri che potevano per avventura, leggerle non gli importavano. Era a codesta innocente Salomè di gioconda prestanza lombarda, ch'egli offriva, sopra il piatto cesellato e d'oro della sua sottile eloquenza, il viscere rosso e sanguinoso ancora palpitante che l'arte sua aveva saputo svellergli dal petto senza farlo morire, ed inchinava, in omaggio per l'amore ed il mistero, come Sordello il cuor dell'Eroe pel coraggio e la gloria, a quella desiderata sua già mai. — Libro; invito: è il gorgheggio del rossignolo inconscio e necessario; è il doveroso nitrito del polledro a primavera. «Come il giovane che, per pura esuberanza di vita, si avventura senza contar quanto ha e che può, in qualsiasi impresa o viaggio, compreso il più rischioso di tutto, il matrimoniale; le prime volte entusiasticamente scriviamo, non per pompa di arte, non per mire di gloria, ma solo perchè non potremmo non scrivere. La gola dell'usignuolo si è empiuta di note e deve cantare: Venere intellettuale s'è eretta e vuole uno sfogo. È l'epoca, questa, dei lavori sinceri, dei libri fusi e squillanti come campane, non dei connessi a mosaico e muti quali parete di carcere[14]».

È allora che Carlo Dossi rinfrange la propria anima nel prisma dell'arte sua e proietta sullo schermo delle pagine bianche le semplici diversità dei proprii sentimenti, ciascun de' quali si impersona in un eroe, come ciascuna astrazione dell'iride si individualizza in un colore unito e categorico. Eccolo tramutato ne' suoi giovanotti pudichi ed irresoluti; si rivede in costoro, che aspirano dalla pelle e si riempiono di germinazione; sente le seduzioni che li turbano, che si riversano tumide, incomplete coi loro gesti seminudi ed interrotti di donna, col loro fruscio di vesti sganciate e cadenti, o di veli che affrettatamente ricoprono, coi bagliori di un seno intravvisto, collo schiocchio di un bacio improvviso, il succio del bacio reso, livida orma impressa. Li spiriti si liberano, si fondono; la creatura sopporta il suo doppio destino; l'erma quadrifronte del quadrivio riassume, nel passaggio delle età, dalla culla alla tomba; non variano che i lenocinii, i fronzoli di parata, le vesti decorative; Ciascuno è Tutti, nudo; dall'imperatore di genio alla lacera canaglia miserabile. Carlo Dossi continua la pubertà per lunghi anni operosi di letteratura; vi funziona in questo stato che richiede l'estetica del simbolismo, perchè appaja concreto, a sua imagine e somiglianza, il suo fatto d'arte. «La malinconia[15] lo aveva preso per mano e lo aveva condotto ad almanaccare, scoprendogli, una strana regione di spiriti che egli non aveva prima sospettato, un regno, se non di difficile entrata, d'impossibile uscita. — E ciò aveva scosso fortemente i suoi nervi, — sotto al chiarore del fantastico mondo, le cose del materiale gli si colorirono al doppio». Egli s'illumina interiormente; Les illuminations interieures avrebbero trovato, poco dopo, i simbolisti francesi; l'equivalenza si determina. Donde venivano: Gìa imbrunata di morte e pargoleggiante, col sorriso pallido e pur lieto; e Donna Claudia Salis, che si sostituisce alla Provvidenza e conduce al suicidio, dopo d'esser riuccisa, d'Alberto; e la Cassierina, che sciupata dalla golosità di un libertino, non si affretta ad evadere e va consumandosi; e Donna Ines, spagnolesca, cerea, ardente in cuore, che odia la luna piena ed odia e ama il fratello, apparsole già come un Arcangelo di fuoco e di maledetta soavità? Donde le figure feminili, circonfuse di un'aura strana, che non si possono definire, perchè sfuggono alla assidua nostra attenzione, trepide, in movimento, rapide a scomporsi ed a ricomporsi in ogni istante la fisionomia, ad illuderci, ad apparirci svelate e ricoperte di nuvole, di garze opache, lune rincorse e seguite dai cirri di una notte estiva, sotto cui scompaiono ed, avvolte, inargentano e sfrangiano di porpore sbiadite e di ori vecchi smunti? — I critici del tempo parlarono di Sterne, di Thakeray, di Gian Paolo Richter; è a me lecito di aggiungervi George Meredith: la morte apre le postierle alla pubblicità, come un bel delitto: — la morte, soleva dire Meredith, io non l'ho mai paventata ed è l'altra fronte della stessa porta. — E voglio ricordarvi le creature del suo spirito che guarda altrove — my mind looks elsewhere — amate, dopo trent'anni che già nacquero, dai giovani della letteratura di Francia come loro creature (curioso motivo di similitudine con Carlo Dossi): — e quelle vengono dalla Istoria di Cloe, ed altre da Diana dei Crossways.

Nel coro s'intona Forestina: dalle selve vergini della sua novissima patria di castigo e d'immeritata relegazione, dal crepuscolo di una civiltà primordiale e sovvenuta, nelli sforzi dell'amore, della fede, ella si porge a Mario, il regressivo violento, gli dona amore, soavità, purezza ingenua ed incosciente, lo nobilita e lo riammette nelli uffici e nella utilità del consorzio umano: Forestina, nome fragrante di eriche e di timi silvestri; nome, anche, di crestaina milanese, sbocciata al fomento de' romanzi di Tarchetti e di Tronconi, per la polvere dei balli dei Filobaccanti, di cui, corega e maestro di casa eroico, si istituiva Bizzoni; Forestina, ripresa e sciupata dalla penna or mai stanca di Cletto Arrighi, se ne descrive li Amori; quella che parve, immeritamente, a Settembrini sorella spuria di Esmeralda, quando giudica victorhughiana La Colonia felice; come altri, per troppa presunzione, la rimettono, ed errano, pedissequa al romanticismo dei Masnadieri di Schiller.

Ed anche ritornino dai Cieli, che imparadisano li Amori, le imagini, le statuine, i ritratti; e Ricciarda giovanetta dipinta e conservata immune dall'oltraggio de' secoli in pinacoteca; ed il bell'albero snello e schietto dalle foglie cangianti nel seguirsi delle stagioni, la Tillia; ed Elvira, alla cui morte pianse lagrime innamorate: e dalla Terra risorgano, per baci oscuri ma saporitissimi, Ester e Lisa ed Adele, la fraterna amica dell'amico ed Antonietta, intossicata d'amore: e, dal libro suo ancora, una diletta creata da lui, come per ideale incesto angelico, Gìa. Queste non suscitano nessun richiamo, nessun esempio nel cielo delle lettere nostre. Foscolo le aveva appena intravedute nella sua traduzione del Viaggio sentimentale e nel Gazzettino del Bel Mondo; Tarchetti le sorprese, in parte ma come Ninfe astute e maliziose s'erano rimbucate tra le frasche, nascoste, vivide e capziose nelle profondità di un panteismo illuminato da un raggio fantastico e cristiano; Manzoni le aveva ignorate; Victor Hugo rese enormi sino al grottesco. Queste del Dossi erano fuori ed oltre il classicismo ed il romanticismo. Poco prima, Aloysius Bertrand le aveva indicate dalle sue Fantaisies de Gaspard de la Nuit; meglio Baudelaire ne' Paradis artificiels; più lontano, Stendhal, allora sconosciuto ai più, fattosi Docteur Sansfin, gibboso e sperimentalista sulla natura viva, le aveva vedute balenare interrottamente. Sicuramente, l'ultimo aveva sorpassato la consuetudine e non aveva perduto il merito di continuare Rovani, come questo aveva continuato Manzoni; ma in modo diverso, nel suo modo.

Per intanto, oggi, auspicati, gli porgo davanti, a parallelo, un Poil de Carotte, un Livre de Monelle, le Moralités Legendaires: Jules Renard, Marcel Schwob, Jules Laforgue, dovrebbero essere, ignorandolo, scolari del Dossi. La ragione rimane nello stesso momento morale: «Come[16] se non bastasse una vita astiosamente calma, or si trovava essicato quel sentimento che, a volte, a minuti, gliela faceva parere tal quale ei avrebbe voluto, senza pensare, che, spento il mezzo creatore d'ogni illusione, era pur spento quella per non ne sentir la mancanza». — Così, a dispetto della vita, che gli si rifiuta, viene la letteratura grande e pessima virtù d'ogni amarezza; non per questo, conoscendola, rinuncia, elegge il suo piacere doloroso e terribile, come l'ammalato d'amore torna ad amare per morirne; come l'intossicato dall'oppio e di morfina non dimette quei veleni della gioia amara che lo imparadisano e lo consumano. Che altro doveva fare il giovane Alberto se non scrivere sè stesso, sognare:

«Des casques, des rouets, des livres, des épées,

Des cierges, des bijoux, des billes, des poupées?»

E la sua Principessa di Pimpirimpara, risponde a Lohengrin fils de Parsifal, alla Salomè del Laforgue.

Per lui tutto è storia, tutto è realtà; quel poco di avvenimenti veri, che entrano nel suo racconto, basta ad innerbare la favola; e li uni e l'altra diventano leggenda, cioè una verità personale e passionale, per cui il valore massimo sta nell'averla sentita e vissuta. E che di più? Sognando non ha creduto di vivere? E la vita reale non equivale la visione del sogno? Sopra un'altra colonna del suo Dosso, egli fece incidere, sotto un nome di donna a lui cara, ma che non conobbe se non di udita: «perchè nulla vi è di più vero del sogno».

Oggettivazione, dunque, di sè stesso in movimento, in pensiero, in fantasia; egli vi raccoglie tutti li elementi di quanto è, e di quanto vorrebbe essere; tutte le sue donne sono la cristallizzazione poetica delle creature vive da lui conosciute in difetto, rese, per lui e secondo il suo desiderio, perfette; il bovarysmo si trasforma in fantasime indimenticabili. — Se possiede la visione esatta del fatto, vi aggiunge la ragion massima del suo desiderio, della sua speranza, del suo idealismo; donde i valori reali si tramutano e divengono i valori veri della sua estetica. Egli non sa bene che sè stesso; è del suo corpo, della sua mente, delle sue illusioni, il più acuto osservatore, il più nemico critico; saggia, a traverso la pietra di paragone dei propri nervi e della propria sensibilità, qualche volta esquisita sino alla patologia, tutto il mondo e li altri uomini. Ma, mondo, uomini rimpasta a sè; egli si è aumentato; si è fatto centro; la pietra di paragone ha comunicato la propria sostanza nell'assaggio, a cose e ad uomini; li ha temprati al suo titolo; desiderio, speranza, idealismo vi si dispongono, informano li avvenimenti, si cristallizzano sopra li esseri e diventano le sue azioni, i suoi personaggi. — L'alchimia interna, donde passano le realtà per divenire le verità di Carlo Dossi, produce il suo tipo d'arte che è simbolico[17]. — «Simili descrizioni appartengono evidentemente alla storia — storia mia, ove si tratti di quelle quasi autobiografie che sono L'Altieri e L'Alberto Pisani, e saranno i Giorni di festa, e le Ore di malinconia»: storia, poema, espressione della propria sensibilità innerbata dalla imaginazione; racconto di realtà o di verità è tutt'uno. Egli sa con Foscolo che la Poesia sorpassa la Storia, perchè ha una significazione più vasta e più vera.

Per intanto, alla Vita di Alberto Pisani, corrispondono L'anima delle Carni di un falso Giorgio Ofredi, il Livre du Petit Gendelettre, di un supposto Maurice Léon. — Autobiografia, o raccolta epistolaria, Giorgio Ofredi vi si mette in bacheca, espone i quarti del suo cuore pulsante e febricitante; va, per opposte esperienze, dentro il fremito delle carni che spasimano l'amore, alla ricerca dell'idea pura: termina, inerte, apata a sorviversi col bestemiare la libertà e la indipendenza di cui ha troppo abusato, giuocando come un gramatico alessandrino per l'esoterica dei sofismi e tormentandosi, nel pessimismo, ch'egli vuole, non che il mondo gli impone. — Strazio, Maurice Léon, concede a sè stesso la sintesi: «Considerate l'anima mia come la espressione simbolica di questa fine di secolo! — Sono seduto nella mia poltroncina: l'orologio a pendolo, tic-tac, tic-tac, oscilla e canta in ritmo. Muojo, vivo: tic-tac, tic-tac. Tutto muore, tutto vive: io so e non so; gioisco e sofro: oh, sofrire!» Che dice il Faust di Marlowe? «Oh, sofrire; ma saper di non morire ancora!» Quale differenza, quale ritirata di fronte ai diritti della vita! — Un bel mattino lieto e tiepido di primavera il domestico socchiude l'uscio della sua camera; dorme Maurice Léon; per lo meno crede ch'egli dorma. Vi ritorna poco dopo. Volumi sparsi, aperti, sfogliacciati, in terra, sopra il tavolino; si rialzarono le coperte del breve lettino sopra un cadavere insanguinato e sopra l'acciajo lucido di una rivoltella. Maurice Léon si era evaso, più fortunato di Giorgio Ofredi, che volle tentare il disgusto della esperienza: la coraggiosa vigliaccheria gli aveva risolto l'enigma delle idee pure. — Certo di quest'altri due, Alberto Pisani è più sano.

Comunque, se riavvicinate Les Images Sentimentales di Paul Adam, all'Altrieri, dopo di non aver trascurato le definizioni negative dell'Ofredi e del Maurice, voi vi ritroverete davanti autori che si sdoppiano, che projettano le loro diverse fasi, come la luna, sullo schermo bianco delle loro pagine, rinnovandosi: vi si ammirano a loro posta, si calunniano, si umiliano, vi recitano le loro intime tragedie. Poi ironeggiano. Buona ironia! rimane il miglior idealismo preservativo, ricostituente, immunizza; è una ricchezza inesauribile, perchè, coll'usarla, la si riproduce; è un giuocare colla vita, per far sul serio dell'arte; è quanto rimane alle moderne genialità, dopo le messe sanguinose pontificate dalle passioni artificiali, dopo i suicidii delle loro maschere, che sono le modalità della loro coscienza; è quanto appartiene di più suo e di più caro all'artista, questa proposta dei logaritmi della imaginazione, sciorinata davanti all'immusonita praticaccia venale; che se ne turba, se ne spaventa e manda pel gendarme della logica, pel catedrante grigio, occhialuto e feticista. — Or bene, ecco le proposizioni annunziate da Carlo Dossi e che lo rendono più che attuale, per cui non può venire dimenticato e dalle quali l'opera sua attinge prerogative di una semplice e continuativa potestà operante: altri recentemente le completarono; ed lo affrettai a rimetterle d'accordo nel Verso Libero. Ben duro d'orecchio ed incartapecorito di cuore chi, oggi, non le intende; ben povero di mente chi le equivoca.

Maschera completa, Alberto Pisani: Carlo Dossi può schermirsi:[18] «Al diavolo le autobiografie: in esse lui, che si pinge, è troppo occupato a porre in rilievo le sue virtù e i suoi nei, e, poniamo anche, i vizii per dimostrarsi qual'è»: ma tosto soggiunge, per non lasciarci nella illusione di una sopercheria: «in un romanzo, invece, egli si apre ingenuamente ad ogni frase. — Ben sottinteso che chi si ha una pagina innanzi, abbia acuta vista, legga nelle interlinee, facoltà di pochissimi». Facoltà che ebbe ed ha ancora Primo Levi; il quale ha potuto dire[19]: «L'Alberto Pisani non è un romanzo: è qualche cosa di più; — non è neppure un libro: è una vita — Alberto Pisani, essere reale, sarebbe stato possibile prima, in un'epoca che non fosse la nostra? No. Ne si creda ch'egli possa fornire un tipo alla presente gioventù — tutt'altro. Ma ha di particolare il nostro secolo, che, tra la disparata mediocrissima uniformità delle moltitudini, presenta qua e là dei tipi di esistenza originalissimi e che hanno, forse, in sè i germi confusi dell'epoche future». Sono delle anticipazioni.

Alberto Pisani, rappresentazione tragica del giovane italiano in un punto psicologico e critico di storia italiana, quando Italia, riuscita dalle prove della indipendenza, dissanguata ed anemica, ma denutrita e febricitante, desiderava di mangiare a sua fame, di riposare per riparare alle perdite, di pensar poco, di dormire, di ristorarsi alla pratica, interrotta dal meraviglioso poema agito del nostro risorgimento; l'Alberto Pisani che ode, ventenne, le ultime ed allegre cannonate di Porta Pia, che lasciano sussistere in Patria il dualismo e ricompongono, sull'ibrida monarchia, il trasformismo parlamentare; è anche l'ipostasi moderna del Werther, dell'Ortis, del Rolla e deriva il suo dolore dal dissidio, tra la cruda realtà che ci investe, ed i fulgidi ideali che fuggono. Che fa? Come può amare? Chi? Dove esercitare le sue virtù? Ed anche i suoi vizi? — Egli è adolescente; appetisce quanto sogna: il sogno è vero, ma non reale! Quindi?... Colla terzetta insidiosa, che si serbò in tasca dal giorno in cui prese possesso della Casa del Mago, scarica un colpo contro Donna Claudia Salis, rea di amare anche dopo morta non lui, geloso della morte che non annulla l'amore[20]: «poi volge l'arme a sè. Ci ha un terribile istante in cui la paura aggroviglia le vene: ei serra gli occhi; ma il colpo... parte. L'arme piomba fumante, giù dalla tavola, in una cesta di rose; Alberto cade sul desiato corpo di lei, morto».

Se non Werther, che ha fatto la scuola e la moda, Ortis così: romanticismo; una sosta. La geniale ebefrenia interveniva colle tombe e Giulio Pinchetti, giovane non ancora venticinquenne ed apollineo poeta, autenticava l'Alberto Pisani. Oggi chi lo ricorda?[21] «Ventenne, era già disgustato di tutto e non credeva che alla tomba. Pareva quasi che una voce arcana gli susurrasse nell'anima: fuggi dalla terra, ti si vuole nell'infinito. Tre egli amò tuttavia fortemente: sua madre, un amico e una fanciulla». E vi è pur oggi l'amico che lo piange e lo richiede ancora, — Niccolò Sardi, letterato di robusto stile foscoliano e generoso italiano provato dalle palle apostoliche di Monterotondo, per cui trascina la gamba inerte e spezzata da piombo antiboino, — vi è il ligure mazziniano che ha per me aperto il forziere delle sue memorie e lo stipo del suo archivio, sì da concedermi le lettere di Pinchetti, che avvalorano di lagrime e di sangue La Vita di Alberto Pisani. In quelle aveva spremuto la sua angoscia e la sua follia l'adolescente poeta lariano: «Ho[22] bisogno della fede e la tua, o Niccolò, è vergine e schietta. Grazie, amico, la tua memoria mi scende dolcemente nel cuore e la confondo colle mie melanconiche speranze, colle mie dolorose reminiscenze. La morte della povera Lisa mi ha reso questo cuore più gentile, ma nel medesimo punto più addolorato; e tu sei capace di sentir questo dolore. La memoria della santa morta mi tormenta tuttodì, ora coll'aspetto del rimorso, ora di una disperata ricordanza; con quella della speranza non posso».

Brevemente lo soccorreva la poesia:

«Quell'acre voluttà della canzone

Che in mostra lieta sol pietà sospira,

O allegra poesia,

Di qual fonte tu sgorghi e quanto ria!»[23].

Alberto Pisani e Giulio Pinchetti brancolano nel buio demenziale; si fanno tetro il mondo, pessimi li uomini; si credono cattivi. Pensano di loro stessi[24]: «Vedo il lento suicidio di quest'anima mia, un tempo così profumata di poesia; vedo sfogliarsi ad una ad una le rose che mi facevano bella la giovanile speranza; mi accorgo del lento calare dell'anima e dello spirito nella maremma della materia e non mi commuovo più: per me tutto è un corollario della umanità. Non trovo in me più quasi la forza di lottare: mi lascio trascinare dalla corrente, che va via infaticata e mi guiderà inonorato alla fossa, vedovo di gioja e di rimpianto cittadino. Ho spoetizzato la mia vita e non trovo che un filtro di vapori; non ho più fede; per me, le emozioni sono un vero onanismo di fantasia; il cuore non caccia più il suo inno spontaneo, primaticcio, prepotente». — [25]«Ho bisogno di cuore, di cuore, di cuore! Pace! E sta tutto in questa parola che sospira dall'anima mia! Ed io potrei vivere sino a trentasette anni, a cinquanta... c'è da divenir pazzo!» — Si ch'egli eleva il dolore a divinità indiscussa[26]; «L'anima mia non ha che una sola potenza: il dolore — che una sola fede: il dolore; — che una sola speranza: la morte». La volle, l'ottenne; col suo gesto reale confermò l'Alberto Pisani; ed a mezzo il giugno 1870, faceva getto della propria vita e ne dava le ragioni: parole, d'oltre il silenzio, sacre: «L'opera che sto per compiere e che, quando leggerete questa mia, sarà già compita, è dolorosa, terribile, snaturata; ma è necessaria per me. — Non mi venite però, colla solita bestemmia dei linfatici a dirmi: «fosti vile, che non hai saputo lottare». Il mio dolore non fu chiassoso, non mandò gemiti. — Mi pare di andare a morte come andrei ad una festa». Amara festa della pace perpetua ed oscura: Alfredo de Musset, per quella cripta sollecitata e precoce aveva, da tempo, inscritto l'epigrafe: «Tout ce qui était, n'est plus; tout ce qui sera, ne pas encore. Ne cherchez pas ailleurs le sècret de nos maux». Sull'amico cadavere, Felice Cavallotti si chinava bisbigliandogli:

«Dormi, povero martire!

Dormi! questa è la calma

Che agognavi».

Stia, così, più eloquente che non ci fosse in vita, mitingaio: non tacerà mai con diverso dolore di letteratura, colli altri carnefici di loro stessi per incompatibilità di carattere col mondo che pure avevano amato e sposato. Ma, se tra i superstiti, che ressero allo scomparire delle illusioni disincantate, si affaccia Carlo Dossi; se il suo delirio erotico si amareggia e si avvelena di disgusto, erompe e si esaspera La Desinenza in A[27]; «Un'oncia di sangue di meno, un libro di più».

L'ora topica di Carlo Dossi

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