Читать книгу Dopo il divorzio - Grazia Deledda - Страница 4
PARTE PRIMA
III
ОглавлениеLe Era viaggiavano sotto il gran sole di luglio. Dovevano scendere la valle, percorrerne il fondo, risalirla e poi ascendere le montagne violacee che chiudevano l'orizzonte, ove i picchi selvaggi svanivano nel cielo reso d'una chiarezza cinerea dai vapori estivi.
Era un triste viaggio. Le due donne cavalcavano su uno stesso cavallo, mansueto e melanconico; dei compagni di viaggio chi precedeva e chi seguiva, sbandati, oppressi dal caldo, dal silenzio, dal dolore. Essi soffrivano per la condanna di Costantino, quasi quanto le due donne; tacevano rispettando l'angoscia muta di Giovanna, e se osavano parlare, la loro voce si smarriva senza vibrazioni, nel gran silenzio dell'ora e del paesaggio. Cammina cammina, la valle scendeva giù verso un torrente essiccato, per sentieri non precipitosi ma selvaggi, tracciati appena su chine inaridite, fra roccie, macchie polverose, stoppie gialle e melanconiche. Alberi strani, selvaggi e solitari come eremiti, sorgevano a grandi intervalli, muti e immobili su sfondi di una lucentezza desolante: la loro ombra cadeva per terra come l'ombra di una nuvola solitaria, smarrita, spaventata dalla luce immensa che interrompeva. E qualche strido di uccello selvatico sorgeva da quell'ombra, ed anche quel grido, prima acuto, pareva poi affievolirsi, vinto dal silenzio che interrompeva.
I grandi fiori dei cardi, d'un violetto vivo, le campanelle rosee dei vilucchi, le stelle color lilla delle malve, sfidanti il sole, accrescevano il senso di desolazione della valle. E giù e su serpeggiavano lunghe, infinite muriccie di pietra coperte di musco secco giallastro, saettate dal sole: campi di frumento non ancora mietuto, le cui spighe gialle parevano mazzi di spine, chiudevano la tacita lontananza. E cammina, cammina, Giovanna sentiva ardere la sua testa sotto il fazzolettone di lana bruciata dal sole, e lagrime silenziose le rigavano il volto. Ella sforzavasi di non farsi sentire a piangere da sua madre, che stava a cavalcioni in sella, mentre ella sedeva sulla groppa del cavallo – ma zia Bachisia vedeva, zia Bachisia udiva anche a spalle voltate, e oramai non ne poteva più.
– Senti, anima mia, – disse ad un tratto, mentre attraversavano il fondo della valle, fra grandi macchie di oleandri fioriti, – non potresti fare la carità di finirla? Perchè piangi? Non lo sapevi forse da molti e molti mesi?
Invece di finirla, Giovanna singhiozzò forte: allora zia Bachisia vedendo che i compagni di viaggio erano tutti lontani, si sfogò con voce bassa, rauca, che a Giovanna arrivava come da lontano, sfumata nel gran silenzio del luogo.
– Non lo sapevi tu, anima mia? possibile che tu sia così sciocca? Ha egli sì o no ammazzato l'avoltojo crudele? Sì, egli lo ha ammazzato…
– Egli non ha mai detto ciò – osservò Giovanna.
– Mancava soltanto che egli fosse così matto da dirlo, anche! Guarda un po', anima mia, mancava ciò soltanto! D'altronde io ero certa che egli, un giorno o l'altro, avrebbe schiacciato l'avoltojo come si schiaccia la vespa che ci ha punto. Tu dici che Costantino è un buon cristiano? Anima mia, ora tu sai un po' cosa sia l'odio. Ammazzeresti tu, sì o no, gli uomini che hanno condannato Costantino? Ebbene, egli ha ammazzato l'avoltojo, ed io lo compatisco, fino a un certo punto, perchè io conosco il cuore umano. Ma non gli ho perdonato, e non gli perdonerò mai la sua imprudenza. Ah, questo no, per amor di Dio! Egli aveva moglie e figlio, egli doveva far la cosa con prudenza, se voleva farla. E ora basta, e ora finiscila. Tu sei giovine, Giovanna, anima mia; figurati che egli sia morto.
– Ah, egli non è morto! – disse Giovanna con disperazione.
– Ebbene, allora appiccati. Ecco, vedi là quell'albero? Va e appiccati là. Ma non tormentarmi oltre! – esclamò zia Bachisia, alzando la voce. – Sei stata sempre il mio tormento. Se tu avessi sposato Brontu Dejas avresti fatto bene. No, tu hai voluto quel mendicante. Ebbene, ora va e appiccati.
Giovanna non rispose. In fondo anch'ella credeva Costantino colpevole, ma da molto tempo lo aveva perdonato; davanti al suo dolore non esisteva che la condanna, e non sapeva capacitarsi come semplici uomini potessero così disporre della vita d'un loro simile. Ah, come ella odiava la loro misteriosa potenza! La odiava come odiava i fantasmi terribili, mai visti ma spesso sentiti, che popolavano le notti di tempesta.
E cammina cammina, si risalì la valle, si cominciò a salir le montagne; il sole calava, l'orizzonte si apriva, il cielo intenerivasi, il paesaggio perdeva la sua crudele desolazione. Lunghe ombre calavano dalle cime, stendendosi come tappeti sulle basse macchie cenerognole dove fioriva ancora qualche rosa canina: spiravano soffi di vento, pieni di odori selvatici. L'anima si consolava in quell'improvviso refrigerio di ombra e di frescura. Un compagno di viaggio s'avvicinò alle due donne e cominciò a raccontare una storiella di non so quali avventure strane capitate una volta, in quelle vicinanze, ad un suo amico: e ad un certo punto la storiella diventò così amena che Giovanna sorrise vagamente.
E cammina cammina, venne il tramonto, e dall'alto delle montagne si vide il mare, steso come una fascia di vapori azzurrognoli nel chiaro orizzonte. Al di là delle brughiere, formate di macchie così potenti che resistono ai pazzi venti invernali ed alle saette del solleone, sugli altipiani melanconici, sorgenti come isole sconosciute in un mare di luce e di solitudine, sta il paesello delle Era, Orlei, nido di gente bella, forte e selvatica, dedita alla pastorizia e alla coltivazione del grano e del miele. I pascoli verdi, intersecati di roccie, in primavera folti di asfodelo e fragranti di menta e di timo, e i campi di frumento raggiungono e circondano il piccolo gruppo delle casette costrutte di pietra schistosa, lucente come argento brunito; e grandi alberi ombreggiano qua e là quel nido di quaglia posato fra il grano: in lontananza si vedono verdi linee di tamerice, foreste di timo e di corbezzoli, e gli sfondi infiniti dell'altipiano, stesi sotto un cielo chiaro di una dolcezza e d'una tristezza indicibili. A destra, su questo stesso cielo, posano, come immense sfingi, azzurre al mattino, color lilla al meriggio, e violacee o bronzine alla sera, le montagne solitarie, rigate di foreste, animate da aquile e da avoltoj.
Le Era giunsero al paese verso sera, quando appunto monte Bellu, il colosso delle sfingi, svaporava violaceo sul cielo cinereo. Il paesello era già deserto e silenzioso; sul selciato rozzo delle strade il passo dei cavalli risuonava come pioggia di pietre.
I compagni di viaggio si sbandarono di qua e di là, e le due donne arrivarono sole davanti alla loro casetta che sorgeva in una spianata sopra lo stradale. Un'altra casa, tinta di bianco, la sovrastava. Un gran mandorlo, rasente ad un tratto di muriccio a secco che partiva dalla cantonata di casa Era, sporgevasi sul sottostante stradale, al di là del quale cominciavano i campi.
Qua e là sulla spianata, sotto il mandorlo, davanti alla casetta scura delle Era e davanti alla casa bianca dei Dejas, posavano grosse pietre che servivano da sedili. La spianata, così, era un gran cortile comune a tutto il vicinato.
Appena arrivata, Giovanna si lasciò scivolare dal cavallo, e indolenzita e curva andò verso una donna, una parente alla quale aveva lasciato in custodia la casa ed il bimbo, che le veniva incontro col piccino fra le braccia. Glielo tolse, se lo strinse fra le braccia, e ricominciò a piangere, nascondendo il viso sulla piccola spalla del bambino. Ora il suo pianto era calmo, d'una disperazione profonda: le pareva che il dolore sino allora provato fosse nulla in confronto al dolore che provava ora. Il bambino, di appena cinque mesi, con un visetto un po' ruvido e due piccoli occhi violacei lucenti, con una cuffia dura, rossa, circondata di frangie che nascondevano la piccola fronte, aveva riconosciuto la madre, e le aveva afferrato forte forte un lembo del fazzoletto, scuotendo i piedini e facendo:
– Ah, aah, aaah…
– Malthinu mio, Malthineddu mio, mio solo bene in terra, il tuo babbo è morto… – disse Giovanna piangendo.
La parente capì che Costantino era stato condannato a gravissima pena e cominciò a piangere anche essa. Zia Bachisia sopravvenne, spinse Giovanna entro casa e pregò la parente d'aiutarla a scaricare il cavallo; diceva con voce bassa:
– Siete pazze, davvero. C'è bisogno di pianger così, davanti a quella casa bianca? Vedo la testa d'uccello di comare Malthina. Ah, essa sarà contenta del nostro male…
– No, – disse la parente, – essa è venuta più volte ad informarsi di Costantino e si è mostrata dolente: mi disse d'aver sognato che l'avevano condannato ai lavori forzati.
– Ah, è il dolore del cane rabbioso: eh, io la conosco la vipera velenosa, essa non può perdonarci. D'altronde, – soggiunse, avviandosi verso la porta con la bisaccia sulle spalle, – essa ha ragione; e non ce la possiamo perdonare neppure noi.
Zia Martina Dejas era la proprietaria della casa bianca e madre di quel Brontu Dejas che aveva già chiesto la mano di Giovanna ottenendone un rifiuto. Era molto benestante, ma avara, e zia Bachisia s'ingannava assai credendosi odiata da lei, perchè la vecchia Dejas era rimasta indifferente al rifiuto.
– Ecco, – disse zia Bachisia, quando il cavallo fu scaricato, – fammi ancora un piacere, Maria Chicca, va e riconducile il cavallo; e diglielo pure che Costantino è stato gettato per ventisette anni in reclusione: poi osserva il viso che fa.
La parente prese subito la briglia del cavallo che era stato preso a nolo dai Dejas, e andò verso la casa bianca. Questa casa, che i Dejas avevano acquistato pochi anni prima all'asta, espropriata ad un mercante fallito, era grande e comoda, preceduta da un portico quasi signorile, dove zia Martina lasciava passeggiare i majaletti e le galline. Non era una casa per pastori selvatici come i Dejas, e il rozzo arredamento delle stanze, composto di letti di legno, altissimi e duri, di arche rozzamente scolpite, di sgabelli e sedie pesanti, lo dimostrava.
Zia Martina stava nel portico, e filava ancora (ella sapeva filare anche al buio) quando Maria Chicca le ricondusse il cavallo. La casa era completamente deserta, perchè Brontu ed i servi erano in campagna, e zia Martina non aveva domestiche. Ella aveva altri figliuoli e figliuole maritate, coi quali viveva in continuo dissidio a causa della sua avarizia. Quando in casa c'era molto lavoro chiamava persone del vicinato, spesso anche Giovanna e sua madre, compensandole malamente con derrate avariate. Queste persone erano tanto povere che si contentavano di tutto.
– Ebbene, come è andata? – chiese, deponendo il fuso e la piccola conocchia sul sedile del portico. Aveva una voce sottile e nasale, due occhi rotondi, chiari, vicini, su un naso finissimo e aquilino, e la bocca ancora fresca e rossa. – Tu piangi, Maria Chicca? Ho visto tornare le due povere donne, ma non ho osato avvicinarmi, perchè stanotte ho sognato che l'avevano condannato ai lavori forzati.
– Me lo avete già detto, zia Malthina. Ah, no, lo hanno condannato a ventisette anni…
Zia Martina parve contrariata, non perchè odiasse Costantino, ma perchè credeva infallibilmente ai suoi sogni. Prese la briglia del cavallo, e disse:
– Se posso vado dalle Era questa sera stessa, ma non so se potrò andarci perchè aspetto un uomo, già servo di Basilio Ledda, che deve entrare al mio servizio. Egli è stato testimonio; credo però sia già tornato da Nuoro.
– Credo, – disse l'altra andandosene; e appena rientrata dalle parenti cominciò a raccontare che zia Martina era dolentissima, che aveva sognato la condanna di Costantino ai lavori forzati, e che Giacobbe Dejas (questo Dejas povero era cugino in secondo grado dei Dejas ricchi) doveva entrare al servizio dei vicini.
Giovanna allattava il bambino, guardandolo con dolore, e non sollevò neppure il capo; zia Bachisia invece volle sapere molte cose: se la vecchia Dejas era sola, se filava, se filava al buio, ecc.
– Senti dunque – disse poi a Giovanna – ella verrà forse stasera.
Giovanna non rispose, non si mosse.
– Non odi dunque, anima mia? – gridò la madre stizzita. – Verrà stassera.
– Chi? – domandò Giovanna, come uscendo da un sogno.
– Malthina Dejas.
– Ebbene, che essa vada al diavolo!
– Chi deve andare al diavolo? – domandò dalla porta una voce sonora. Era Isidoro Pane, un vecchio pescatore di sanguisughe, parente delle Era, che veniva a far le sue condoglianze. Alto, con una lunga barba giallastra, occhi azzurri, un rosario d'osso alla cintura, un lungo bastone e un involto in cima al bastone, zio Isidoro sembrava un pellegrino: era il più povero ed il più savio e tranquillo degli abitanti di Orlei. Quando voleva imprecare diceva: —
– Che tu possa diventare pescatore di sanguisughe!
Egli era stato grande amico di Costantino, col quale tante volte aveva cantato in chiesa le laudi sacre; ed anzi le Era lo avevano designato come testimonio di difesa, perchè nessuno meglio di lui poteva dire le buone qualità dell'accusato; ma era stato scartato. Che mai contava, davanti alla giustizia grande e potente, un povero pescatore di sanguisughe?
Appena lo vide, Giovanna s'intenerì e ricominciò a singhiozzare.
– Sia fatta la volontà di Dio, – disse Isidoro, poggiando al muro il suo bastone. – Abbi pazienza, Giovanna Era, non disperare di Dio…
– Voi sapete? – chiese Giovanna.
– Ho saputo. Ebbene? Egli è innocente, e ti dico che sebbene oggi l'abbiano condannato, domani può risultare la sua innocenza.
– Ah, zio Isidoro, – disse Giovanna, scuotendo il capo, – non credo più alla vostra fiducia. Ci ho creduto fino a ieri, ma ora non posso crederci più.
– Tu non sei buona cristiana; questi sono gli insegnamenti di Bachisia Era…
Zia Bachisia, che vedeva di mal occhio il pescatore, e temeva sempre che egli le lasciasse in casa dei brutti insetti, si volse adirata, e stava per ingiuriarlo, quando entrò un altro uomo, poi delle donne, poi altri uomini ancora.
In breve la casetta fu piena di gente, e Giovanna, sebbene si sentisse stanca anche di piangere, credè suo dovere singultare e strillare disperatamente.
Zia Bachisia attendeva la ricca vicina, ma costei non venne: venne invece Giacobbe Dejas, quel tal servo che doveva contrattare con zia Martina. Egli era un allegro uomo sulla cinquantina, di aspetto comune, piuttosto basso e scarno, sbarbato, senza sopracciglia e senza capelli, con due piccoli occhi obliqui molto furbi e d'un colore incerto tra il verde e il giallo. Da venti anni servo di Basilio Ledda, aveva testimoniato in favore di Costantino raccontando i maltrattamenti che Basilio usava al nipote, e come il vecchio avaro, che malmenava anche i servi e le donne, il giorno prima di morire avesse bastonato e preso a calci lui, Giacobbe Dejas.
– Malthina Dejas ti aspetta, – gli disse zia Bachisia. – Va.
– Che il diavolo le scortichi il naso, io ci andrò, – rispose Giacobbe, – ma ho paura di cadere dalla padella nella brace. Essa è avara più di quanto lo fosse colui.
– Se essa paga, non devi giudicare le sue azioni, – disse una voce sonora.
– Ah, siete lì, zio Isidoro, – disse Giacobbe con voce di scherzo sprezzante. – Ebbene, come vanno i vostri affari? Son ben punte le vostre gambe?
Isidoro si guardò le gambe avvolte in istracci (egli le immergeva nell'acqua stagnante, le sanguisughe vi si attaccavano, e così egli le pescava), poi rispose con dolcezza:
– Questo non deve importarti. Ma non sta bene che tu imprechi la donna della quale mangerai il pane.
– Io mangerò il mio pane, non il suo. Ma questi sono affari nostri. Ebbene, Giovanna, fa coraggio, che diavolo! Ricordi la storiella che ti ho raccontato mentre tornavamo da Nuoro? Fa da savia, via, per questo marmocchio. No, Costantino non morrà in reclusione, te lo dico io. Dammi il bambino.
E si chinò, ma visto che il bambino dormiva, si rialzò e mise un dito sulle labbra.
– Zia Bachisia, – disse (egli dava del voi e dello zio anche ai più giovani di lui), – fatemi il piacere, mandate a letto vostra figlia. Essa non ne può più. Brava gente, – disse poi agli astanti, – facciamo una cosa, andiamocene via.
A poco a poco tutti se ne andarono. Allora zia Bachisia prese lo sgabello dove erasi seduto Isidoro Pane, lo portò fuori e lo pulì: poi rientrò e dovette scuoter Giovanna, caduta in una specie di sonno, per farla andare a letto. La giovine spalancò gli occhi rossi e vitrei, e s'alzò, col bimbo fra le braccia.
– Va a letto, – le impose la madre.
Ella guardò la porta e mormorò:
– Ah, egli non torna; egli non tornerà mai più. Mi pareva di aspettarlo…
– Va a letto, va a letto… – disse la madre, con voce viepiù rauca.
La spinse, prese il vecchio lume d'ottone, aprì l'uscio. La casetta era composta della cucina col solito focolare di pietra nel mezzo ed il forno in un angolo, e due stanze miseramente arredate. Il letto di Giovanna era di legno, alto e duro con una coperta di percalle rosso. Zia Bachisia prese il piccolo Martino, che pianse un pochino senza svegliarsi, e lo depose sul letto, cullandolo con le mani finchè Giovanna si fu coricata.
E quando Giovanna si fu coricata, a testa nuda, con le belle treccie annodate intorno al capo come una antica romana, la madre la coprì con cura e uscì via. Appena uscita lei, la giovine rigettò la coperta e cominciò a lamentarsi incoscientemente. Era rotta dal dolore e dalla stanchezza, aveva sonno ma non poteva addormentarsi completamente: visioni confuse le passavano per la mente; e quasi non bastasse la sua angoscia morale, sentiva, a intervalli, acutissimi dolori ai denti e alle tempia. Ogni volta che questo spasimo l'assaltava, le pareva che le venisse addosso un'ondata d'acqua bollente, causandole un terrore indefinibile. Fu una notte orribile, orribile.
Dalla stanzetta attigua, di cui lasciò l'uscio aperto, zia Bachisia udiva Giovanna lamentarsi e delirare, rivolgendo a Costantino parole d'amore insensato, e minacciando di morte i giurati che l'avevano condannato.
Zia Bachisia vegliava, aveva la mente lucida, la visione netta di tutto ciò che era accaduto e che doveva accadere; e s'arrabbiava contro il dolore di Giovanna, ma nello stesso tempo anch'essa finalmente piangeva.