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Indice

Una dolce sera mediterranea cadeva su la focense capitale dei Massalioti, or divenuta Marsiglia di Notre-Dame-de-la-Garde, sotto lo scettro imperatorio di Raimondo I. La città incurvata sul duplice suo porto, come sul gemino seno la madre che allatta il suo pargolo, riboccava per le babeliche strade, per le piazze alessandrine di tutte le ciurme, di tutte le pestilenze, di tutte le prostituzioni del mare di levante.

Era in un mese d'estate, verso quell'ora che le stelle irrompono come sprazzi di fuochi artificiali tra le nuvole d'un cielo ancor rosso di tramonto. Grandi mantelli d'azzurrità quasi buia s'avvolgevano intorno ai dirupi medievali dell'isola di Château-d'If; l'antico forte St-Jean dei Cavalieri di Malta, con i suoi terribili occhi semispenti, ancor frugava per l'ombre del mar latino in cerca di galere barbaresche. Un odore drogato e contagioso di cuoio, di spezie, d'olii, di cereali e di bestiame vampava dagli stracarichi magazzini de la Joliette fra i profumi della sera d'estate.

Non più ricordo con esattezza quale fosse il titolo della «revue d'été» che si rappresentava al Variétés-Casino; so che lo sfarzo dei lampioni quasi violetti e gli occhi neri d'una marsigliese giovine, così forte m'attrassero che dietro i suoi passi v'entrai. Aveva la pelle morbida come un guanto di antilope bianca, la sua capigliatura fosca luccicava come argento brunito. Ma era in compagnia d'un vecchio avvenente, le stava presso un giovincello scrupoloso: per me non v'era posto e me ne racconsolai.

Come si chiamava, diamine! quella rivista d'estate? Forse: — «Tout nu... mam'zelle?» — «Soyons Cannebière!...» — «C'est ça qu'est chic!» — «Je m'en f... du progrès, zut!...»

Mi pare che il titolo fosse quest'ultimo, o qualcosa di molto rassomigliante; in ogni modo il Compare, tipo alla Mayol, minacciava di pinguedine; la Comare, ossigenata e custodita in un busto che pareva scenderle sino ai ginocchi, aveva uno sguardo fortemente lesbico; ma c'era una indiavolata e struggente ballerinetta, che faceva la «Gibson girl» con un piedino da stare in tasca, la quale mi piaceva più che tutta Marsiglia; e si dicevano cose un po' forti, un po' estive, un po' sudate, cose piene di Montmartre marsigliese.

Nella poltrona presso la mia v'era un uomo di mezza età, personaggio che m'incuriosiva quanto mai con il suo tipo d'inglese coloniale o di pastore anglicano dalla faccia d'esteta: un Lord Byron da strapazzo che si vesta in sartorie d'abiti fatti e frequenti la ellenica scuola di danza del fratello d'Isadora Duncan. Quella familiarità che dal riso presto nasce fra nomadi, quando come anime dannate si va in cerca di svago per le notturne città forestiere, fece sì che in poco avessimo legato discorso. Durante l'intermezzo gli diedi il mio biglietto da visita, ch'egli lesse con attenzione, poi mi presentò il suo che recava questa dicitura:

le chevalier Aristophane

auteur de revues classiques

ATHÈNES.

Incontrare Aristofane in persona al Variétés-Casino di Marsiglia, non è cosa che cápiti ogni giorno, e fui lietissimo della buona occorrenza. Egli parlava il francese con un lieve accento levantino, ma le sue frasi eran sparse d'un sale attico di piacevolissimo sapore, anzi mi avvenne di riflettere quanta rassomiglianza vi fosse tra la spigliata galloria di linguaggio dei «boulevards» parigini e il greco antico degli anfiteatri d'Atene, che m'aveva, ohimè, fatto sudare i miei buoni anni di liceo. Scendemmo al bar sotterraneo dove mi permisi di offrirgli un ottimo cock-tail Martini; egli fece qualche complimento, ma io lo persuasi a non cambiare le sue dracme, visto che avevo nel taschino molta moneta spicciola.

Durante la rivista, — «Soyons Cannebière!...» «Je m'en f... du progrès, zut!» — si parlò del più e del meno; dopo, nell'uscire, si venne alle confidenze. Volle conoscere la mia patria, il mio mestiere, l'età, l'albergo, l'itinerario, mi domandò cosa facessi a Marsiglia, e così via. Gli narrai con qualche rammarico di essere un pressochè ignoto poeta e romanziere della terza Italia, non già che i miei scritti la cedessero a quelli della celebre Carolina Invernizio, ma insomma perchè il mondo è così fatto e l'Accademia non li vuole. «Servono, caro amico Aristofane, a dilettare gli ozî di qualche impiegato del telegrafo, o ad eccitare l'insonnia delle belle signore afflitte da un marito sonnacchioso e da un amante troppo metodico... Vi sono molti classici nel mio paese, che scrivono divertentissimi romanzi, e la gente seria legge questi. Ma io, caro amico Aristofane, «je m'en f... du progrès, zut!»

«Le chevalier Aristophane» mi prese allora sottobraccio ed ebbe la cortesia di dirmi che mi trovava simpatico.

— In Italia, — mi spiegò, — vengo assai di rado, perchè vi ho molti rappresentanti che tutelano i miei affari e la Società degli Autori mi manda ogni tanto un vaglia, che naturalmente è sempre ben accolto. Non certo per offendervi, ma questa Italia è rimasta un gran paese di zucconi, come al tempo dei Romani, vecchi tangheri. Scusate la franchezza, mio delizioso amico, ma io son nato in Grecia e non so dire che la verità...

— Che mai! avete mille ragioni: laggiù si cammina a passi di lumaca, e solo quando una cosa ha ormai fatto il giro della terra, eccola da noi che tira fuori le corna. Siamo un popolo che impiega cent'anni per acquistare una convinzione, un'ammirazione, un'idea, ma quando la è penetrata nel sangue, nè l'evidenza nè la dinamite non la possono distruggere più.

«Le chevalier Aristophane» mi strinse il braccio, ed ebbe la cortesia di dirmi per la seconda volta che mi trovava simpatico.

— Avete moglie? domandò.

— Neanche per sogno! Faccio l'amore all'ellenica, fuori dalla legge, con molta varietà.

Non so davvero quale significato egli desse a questa parola «varietà», ma mi strinse il braccio con più forza e tre volte mi ripetè: ... simpatico!

La Cannebière infuriava di tanti lumi, di tanta baraonda e strepito e vivacità, che pareva l'immenso viale d'una fiera di zingari scendente verso il mare.

— Torniamo in su, — gli dissi, — torniamo verso la porticciola per dov'escono le attrici del Varietés-Casino; avrei voglia d'invitare a cena la «Gibson girl» col piedino da mettere in tasca.

Il buon greco ebbe un sorriso affabile ma ironico per questa mia concezione tutta latina dell'amore, e mi parve che in quel sorriso ci fosse anche una leggera ombra di gelosia. Nondimeno accondiscese.

Le piccole attrici uscivano con le loro arruffate madri, coi loro protettori dal pugno solido, coi loro moscardini dai cappellucci su le ventitrè; alcuna se n'andava sola, in fretta, onesta; molte occhieggiavano; le più eleganti eran attese da giovini o vecchi nottambuli; altre, in compagnia di comici, s'avviavano loquacemente a mangiare in qualche taverna del porto la drogata «bouillabaisse» o la buona fumosa «choucroute». Ed io non vidi affatto l'indiavolata «Gibson girl» con il piedino da mettere in tasca. Marsiglia quella sera mi rifiutava con ostinatezza il suo color locale.

Proposi ad Aristofane che andassimo a cenare in una leggiadra sciampagneria, là dove rosseggia l'orchestra boema e le tersicori ospitali siedono alla vostra tavola per pesare con tutta la lor sete, con tutta la loro voracità sul conto elegante che poi vi porge un impassibile maggiordomo.

— Delizioso amico, — disse Aristofane, — accetto volentieri tutto quello che vi piacerà d'offrirmi e tutti gli spassi che vorrete proporre per lo svago di questa notte che rubo a Morfeo. Domattina di buon'ora m'imbarco per la Grecia e in forza d'una vecchia usanza preferisco non coricarmi affatto che interrompere un sonno ben avviato verso il mattino.

— Che mai? lascerete così presto Marsiglia, quand'io mi ripromettevo di godere lungamente la buona sorte ch'ebbi d'incontrarvi?

— Benchè immortale, nulla mi scampa dalle traversìe della fierissima vita! Gli Dei non mi consentono più lunga dimora in questa lieta Francia che ha risolta con tanta grazia la seccatura di dover vivere! Anch'io debbo tornarmene a quel mio paese classico, dove ormai cápita su per giù tutto quello che del vostro dicevate, con l'aggravante che voialtri avete il buon senso d'andare lenti ma di sapere che siete lumache, mentre noi, sin dal tempo di Salamina e delle Termopili, chiamiamo epopea una rissa fra due villaggi, scriviamo dieci poemi per eternare la storia d'una burlesca infedeltà, e creiamo un Olimpo immortale con qualche vinattiere ubbriaco nonchè un paio di nude veneri da lupanare!... Quando Platone venne fuori con la panzana dell'anima, nessuno si aspettava che l'idea facesse tanta strada; quando si condannò alla cicuta quello scostumato blaterone di Socrate, nessuno s'immaginava che la nostra Atene, piccola e pettegola città di provincia, ne avesse a patire tutta l'infamia che ne patì; Anacreonte, nel creare il suo repertorio alla Fragson, manco dubitava d'essere ancora in voga verso i tempi vostri; Saffo, nel fare come la marchesa di B....... in letto e come la Comtesse de Noailles al tavolino, sperava per un delitto e per l'altro un poco più di discrezione storica; le trecento guardie civiche massacrate alle Termopili meritavano, è ben vero, tutte le punizioni più feroci, tranne quella d'essere cantate in rima undecima dal vostro bardo Felice Cavallotti, e il borgomastro Pericle non si sognava mai che la sua mantenuta gli rimarrebbe sul dosso per tutta l'immortalità... Vi annoio forse?

— Tutt'altro, caro amico! Sono anzi del vostro parere in un modo che oltrepassa ogni dire.

— Allora non vi farò mistero di niente... Io stesso, io stesso, quando scrivevo, per esempio, quelle due piccole riviste che si chiaman le Rane e le Nuvole, certo non spingevo la mia più vanagloriosa fede oltre la speranza che mi tenessero il cartello per un paio di stagioni su gli anfiteatri d'Atene. Vi potrei dire la stessa cosa di Sofocle, che si dava al genere serio, come degli altri, a voi noti quanto a me, che racimolavano alla meglio da tutto il teatro ellenico e forestiero quel guazzabuglio di cose che basta per trarne fuori un dramma, una commedia, un «vaudeville», una «pochade», un «lever-de-rideau» e così via. L'immortalità ci è venuta addosso come l'acqua a ciel sereno, e vi giuro per la barba di Giove che se oggi mi provassi con la stessa penna a scrivere qualcosa di duraturo, certo non vi riuscirei!

Volli adulare la sua bizzarra modestia.

— No, caro amico, — m'interruppe, — non insistete! Ve lo assicura Aristofane, che se n'intende! Le cose immortali sono quegli uovi di gallina che per avventura vengono depositati su la china dell'immortalità: rotolano giù con un andare sempre più veloce, e non trovano il sasso che li scocci. Ma io vi assicuro che nell'Atene Palladia vivevano per lo meno dieci uomini di vero genio, che nessuno allora nè dopo immortalò; mentre ai tempi nostri quel buon Sofocle era l'autore delle madri nobili ed Euripide spassava tutt'al più i borghesi arricchiti e qualche isterica vaporosa «bas-bleu». Io me la son cavata un poco meglio in grazia d'averne dette di cotte e di crude, senza peli su la lingua e con un certo brio, sul conto di quelli che andavano per la maggiore; — ma scrivevo un greco che ai tempi nostri era tenuto per mezzo dialetto e i critici serii non degnavano parlare delle mie commedie. Io me n'infischiavo altamente, visto che il mio scopo era la cassetta, e gl'impresarii, con le riviste d'Aristofane facevano quattrini, mentre col teatro classico d'allora gli anfiteatri andavano diserti più che oggi, nell'Atene di Francia, la ben affrescata sala dell'Odéon! Perchè, vedete, l'arte, come la religione, come la moda, come il codice, come le usanze, come tutto insomma, non ha ragione d'essere fuori dal suo tempo, ed è infinitamente bestiale chiamar oggi capolavoro la commedia o la poesia d'un greco, quando non potete più collocarla se non in mezzo ad un mondo artificiale e non avete più se non i vostri pregiudizî storici per estimarne in modo grottesco le bellezze apparenti. L'arte è un'essenza viva che finisce con il suo tempo, e voi, quando mettete le mani fra cose di migliaia d'anni fa, rimovete solo dei cadaveri o per lo meno delle mummie assai ben conservate.

— Saprete nondimeno, — gli osservai, — che c'è nell'uomo il gusto dell'esumazione.

— Senza dubbio, e v'è un altro vizio nell'uomo più condannevole ancora: quello di non voler ammettere a nessun patto che lui stesso e tutte le sue cose debbano essere transitorie. Perciò va in cerca dell'assoluto, nell'arte come nella metafisica, e piglia certi gamberi che chiamerò, per dirla con gli ottimi berlinesi, gamberi colossali! — Ma è lontana, mi sembra, la vostra sciampagneria!

— Nient'affatto; ci siamo passati dinanzi tre o quattro volte nel passeggiare, ma ho preferito non avvedermene perchè la vostra conversazione mi distrae.

«Le chevalier Aristophane» mi riprese il braccio che m'aveva abbandonato, e per la quarta volta ebbe la cortesia di trovarmi simpatico.

— Dunque, a parer vostro, — feci, — i soli buoni giudici dell'opera d'arte sono i contemporanei.

— I contemporanei no, perchè tutti i contemporanei, di tutte l'epoche e di tutti i luoghi della terra, sono un branco di assolute bestie; buoni giudici sono quelle minoranze d'intelletti geniali che vivono nello stesso tempo dei creatori d'opere d'arte o in epoche appena successive; ma non sono quasi mai costoro quelli che riescono a far prevalere la lor opinione, perchè nel mondo, checchè si dica, prevale sempre l'opinione delle maggioranze, ossia dei mediocri. E forse, al di sopra di questi giudici eletti, v'è per l'opera d'arte la consacrazione della sensibilità popolare, la quale non comprende ma sente. Questa sensibilità è passeggera e delebile come la folla passionale che la genera, ed a vero dire quando svanisce l'anima sua, svanisce la bellezza intrinseca dell'opera d'arte. Il resto è un'eco; il resto sono quelle piante fiorite, quelle vivande sontuose che gli Egizî mettevan negl'ipogei per profumare e per dar da mangiare ai morti. Sicuro... e se le pappavano i sacerdoti!

— Caro Cavaliere, non posso dirvi altro che una cosa: le vostre parole mi sembrano pronunziate in modo chiaro da una persona oscura che ábiti entro di me. Vi ringrazio del buon ammaestramento, il quale m'insegnerà d'oggi in avanti a guardare con occhio più limpido sui valori delle cose.

— E sopratutto a riderne, amico mio!... perchè il valore delle cose non è che un immenso riso contenuto, un'immensa ironia repressa, tanto più grande quanto più il valore è grande. I valori?... oh, che fiabe! L'uomo ha sempre lasciato passare senza porvi mente le cose più belle che gli furon dette; ma invece, anche per la bellezza come per la ragione, ha costruito un sistema metrico decimale, con che si diverte a far somme, sottrazioni, radici cubiche, logaritmi, e si sollazza quanto mai vedendo che queste operazioni riescono, cioè che i risultati sono immutabilmente uguali... Avrei bisogno, se non vi disturba, d'entrare un momento in questo piccolo chiosco.

L'attesi. E passavano tre vispe Marsigliesi dall'accento e dal passo di tamburine, le quali parlavano coi loro tre amici di belle cose vedute al Casino de la Plage. Un odore aspro di pescheria, di conchiglieria marina, feriva terribilmente l'aria dalle prossime botteghe di pescivendoli chiuse; un dragone, quasi nuotante nelle due fisarmoniche de' suoi stivali, trascinava la sciabola sferragliante, che tosto o tardi vedrà il sangue degli Usseri della Morte; intanto angustiava una grossa baldracca, la quale non voleva cedere sul prezzo.

— Ebbene, Cavaliere, alla buon'ora!... Non mi avete ancor detto cosa vi richiama sì presto in Grecia.

— Bisognerebbe vi confidassi apertamente il mestiere che faccio in questo ventesimo secolo cristiano, ed avrei un certo ritegno a dirvelo se non mi foste tanto simpatico... Ecco qui: siccome v'è su la terra una cosa che non muta mai, si chiami dracma o «vingt sous», bisogna per forza riuscire a guadagnarsene, vi pare?

— A chi lo dite, Cavaliere!

— Dunque se dessi oggi commedie sotto il mio nome certo mi fischierebbero, poichè l'immortalità, per sua propria natura, è cosa che appartiene solamente ai morti. Sicchè scrivo per gli altri, mi faccio ben pagare, ma non firmo. Voi saprete forse che a Parigi, ed anche altrove, quasi tutti fanno così. Ma io lavoro per Parigi. Ho una mezza dozzina d'autori molto in voga i quali hanno la bontà di servirsi alla mia ditta. Vado a Parigi regolarmente una volta ogni sei mesi, faccio il giro della clientela e sento cosa desiderano. De Flers et Caillavet, poniamo, vogliono una «pochade»... («il Re», vi avverto, l'ho scritto io;) ma tralasciamo i nomi ch'è meglio! Dunque X, poniamo, vuole una rivista per l'Alhambra, Y un'altra per la Cigale, Z una «revuette» per il Théâtre Michel, e così via... Si chiacchiera un poco insieme, ci si accorda sul genere, sui denari che posso far spendere per la messa in scena, sul prezzo che mi si pagherà, e quand'ho la cartella piena di commissioni prendo il piroscafo a Marsiglia e faccio per così dire vela verso il Pireo. Laggiù, poco fuori d'Atene, ho quattro palmi di terra, una bella casetta di campagna, un giardino rustico, una vigna che matura sotto il clima dolce, ho qualcos'altro che non vi dico... e là tranquillamente lavoro. Vi avverto, caso mai v'occorresse, che scrivo anche drammi, tragedie, commedie sentimentali e borghesi.

— Ah, per bacco! datemi il vostro indirizzo, caro Cavaliere, perchè non si sa mai!

— Indirizzate pure ad Atene dove tengo un «pied-à-terre»; il portinaio mi manda la corrispondenza in campagna. Per voi sono disposto a prezzi di favore, data la grande simpatia che m'ispirate.

E mi riprese il braccio.

— Non sono alieno, — dissi, dopo averci fatto su un pensiero, — non sono alieno dal tentare il teatro a mia volta, oggi sopratutto che non v'è persona ben educata la quale non si creda in obbligo di far qualcosa per le scene. Conosco perfino un ex-analfabeta il quale vi si esercita, sicchè mi potrei forse concedere questo lusso anch'io, dal momento che con la roba scritta son, oserei dire, in una certa familiarità...

— Non avrete che comandare per trovarmi sempre ai vostri ordini. Vediamo un po', cosa piace a casa vostra?

— Ah... tutto! piace tutto! Purchè ci sia pensiero, molto pensiero, un'esagerazione di pensiero... Negli altri paesi il teatro è teatro, da noi è pensiero. Infatti «la Presidentessa» ebbe un esito enorme.

— Non faccio per vantarmi, caro amico, ma anche «la Presidentessa» è roba mia!

— Felicitazioni! e vi prego di crederle sincere, perchè io considero «la Presidentessa» come un esponente necessario del teatro moderno.

— Oh, questi son nonnulla che fabbrico per Parigi. Ne ho venduti a bizzeffe. Proseguite, vi prego, sul teatro italiano.

— Ebbene, vi ho già risposto: in Italia si traversa un'epoca di pensiero, il teatro è riproduzione della vita, quindi le platee sono addirittura sitibonde di pensiero... Figuratevi, per darvi un esempio, che da noi si rappresenta Ibsen, specchio di semplicità, come si metterebbero in scena gli oracoli della Sibilla cumana! È delizioso... e poi si rabbrividisce! Dunque, se ci possiamo intendere sul prezzo, io v'affido subito la commissione: vi prego solo di non seminarvi un ingegno che sia di troppo superiore alle mie forze, altrimenti ognuno potrebbe comprendere che non è cosa mia.

— Sentite, il prezzo per voi sarà questo: un terzo dei vostri diritti d'autore. Vi conviene?

— A meraviglia. Dunque mi fido a voi; scrivetemi quel che vi pare e piace, con l'avvertenza che amerei fare qualcosa di nuovo. Mandatemi, per esempio, un... cinquecento grammi di roba scritta, io vedrò poi secondo il momento se mi convenga di chiamarla dramma, tragedia, commedia, farsa...

— E perchè non rivista? Da voi, ch'io sappia, se ne fanno meno che altrove: sopratutto non si fa il mio tipo «articolo di Parigi». E con quel tanto d'aristofanesco che vi potrei cacciar dentro io, si rischia d'avere un bel successo.

— Buona l'idea! mi piace! Vada per la rivista, ma per l'amor del cielo trovate il mezzo di riattaccarla in un modo o nell'altro alla inevitabile tradizione... Che so io? per esempio alla tradizione della nostra Commedia dell'Arte, perchè in Italia, come vi ho detto, senza la tradizione, è tempo perso, non si conclude nulla.

— E siamo intesi! adesso lasciate fare a me. Caso mai non vi piacesse, me la rimandate, io la smercio altrove e per voi ne scrivo un'altra. Fra persone di mondo, il mezzo per intendersi c'è sempre! Solo abbiate la cortesia di ripetermi bene il vostro nome, perchè nel leggere il biglietto da visita ho avuta quasi la reminiscenza d'un casato che non mi tornasse nuovo.

Poi ebbe un lampo:

— Ma voi, — disse, — fate proprio il romanziere, non è vero?

— Sì.

— E scrivete anche romanzi?

— Sì.

— Ossia delle storie per lo più d'amore, che posson anche trattare di qualsiasi altro argomento, purchè si chiamino romanzi?

— Sì.

— È quello che volevo dire!... Io vi conosco, io vi ho letto, io vi trovo molto molto simpatico!

— Toh!...

— E dico: molto!

— Mi pare impossibile che abbiate letto i miei romanzi condannati all'ostracismo da tutta la critica più erudita e meglio pensante!

— Eppure così è! Uno almeno l'ho letto; ora vi spiego. Non conoscete voi per caso un certo signor... un certo signor...

Sebbene la strada fosse per intorno deserta e non si vedesse in qua dai cento metri che la goffa ombra d'una guardia municipale, Aristofane s'avvolse tuttavia di misteriosa cautela e mi soffiò quel nome nell'orecchio, a voce sì piana che quasi non l'udii.

Rispetto quindi gli scrupoli dell'ateniese.

— Questo amabile vostro poeta, — illustrò l'immortale, — ha scritto e scrive molte bellissime tragedie greche. Lo conoscete voi?

— Certamente lo conosco, mio caro cavaliere!

— Bene, tanto per illuminarvi, sappiate che tutte le sue tragedie le ho scritte io!

— Oh, guarda che bel caso!

— Proprio; ma statemi a sentire. Qualche tempo fa, mi arriva un suo telegramma: «Urge dramma greco terribile poco prezzo entro venti giorni.» Per la barba di Saturno! avevo proprio su le spalle tutta la nuova stagione parigina, e rispondo: «Impossibile. Tempo insufficiente. Tragedie greche esaurite. Complimenti.»

Il giorno dopo ricevo altro telegramma: «Provvedete indefettibilmente ( — questo avverbio lo avrà pagato come due parole), ovvero perdete cliente.»

Daimon! daimon! in commercio non si scherza! Mi misi le mani tra i capelli e telegrafai «Avretela. Scrissi al mio libraio d'Atene che mi mandasse tutta la più recente produzione libraria dei cinque continenti, in special modo quella dove si parlasse d'adulterio sotto tutte le forme più peregrine, e di delitto in ogni maniera più efferata, ossia quegl'ingredienti che sono ancor oggi, come al tempo degli Atridi, lo specifico infallibile dell'arte.

Dopo aver scartati cinque o sei libercoli per signorine, cinque o sei Tempietti di Venere per Aspasie morfinomani, la mano mi cadde sul vostro romanzo, che m'impensierì per il suo titolo. Pensai: — Un romanzo che si chiama «La vita comincia domani» deve trattar di cose decrepite come la terra! Mi misi a sfogliarlo... e, per Ercole, ero a cavallo! Ecco la tragedia greca bell'e fatta, e fatta in modo che, con tre o quattro tagli della mia forbice classica, una spolveratura di quelle sapienti spezierie che sono il mio segreto di fabbrica, la tragedia riesca magari a cavarsela meglio che le altre. Detto fatto, in quindici giorni la tragedia era pronta e navigava su Francia. Egli fu assai lieto, mi pagò profumatamente, accompagnando il vaglia con una lunga e bella sua lettera, nella quale mi felicitava d'aver improvvisato con sì grande prestezza una irta e sonora tragedia greco-moderna, che andrebbe ad illustrarsi del suo nome verso i teatri di due popoli. E il poverello non sapeva, com'io non seppi fino ad oggi, di dovere a voi, proprio a voi, simpatico italioto, l'ultima e la più sciagurata fra tutte le tragedie greche! Sì, perchè io non vi adulo, caro amico: il vostro romanzo è una cosa disinvolta... ma fetida.

— Séguito ad essere sempre più della vostra opinione.

— Tanto fetida e tanto disinvolta, che può darsi un giorno o l'altro mi scriviate un bel libro.

— Ne sono certo anch'io.

— Un bel libro, con il quale forse non andrete alla gloria, a meno che non troviate la china dell'uovo di gallina, ma che insomma vi darà la soddisfazione intima dell'uomo fortemente allegro, il quale, con tutta licenza, abbia fatta una risata madornale e villana e libera su la faccia al mondo intero! Perchè questo, e nient'altro, è la vera arte: una risata.

— Per l'appunto, Cavaliere; una volta non pensavo così, ma ora sono di questo parere anch'io. Dunque, per concludere: posso contare su la rivista? e per quando?

— Verso il mezzo inverno, ma non prima, caro amico, perchè ho commissioni fin sopra i capelli.

— Non ho premura, purchè venga bene.

— Ci penserò per mare; su l'acqua infinita le idee s'allargano. E ditemi, visto che avete l'uso di scriver romanzi i quali si prestano mirabilmente a foggiarsi da tragedie greche o magari da tele per melodrammi, poichè la ricetta è la stessa, non ne avreste qualche altro da mandarmi, caso mai mi trovassi a corto di materia per qualcuno della mia clientela?

— Per bacco, altrochè! Ne ho un paio d'altri, dai quali si potrebbe cavare a maraviglia una cosetta, per esempio, mistica, ovvero un paio di scene terrificanti per il teatro del Grand Guignol... Insomma io ve li mando, voi vedrete con la vostra esperienza se c'è qualcosa da fare, e cosa c'è.

— Non vi dispiace mica, è vero, che vi adoperi le vostre coserelle?

— A me? che diamine! anzi ve ne sono gratissimo! Purchè le diate, beninteso, a un autore di grido, essendochè voi capirete bene che «à tout seigneur tout honneur!» e che quando per esempio si ha un'amante, la quale ad ogni prezzo debba renderci cornuti, nel rammarico inevitabile della scornatura fa sempre un certo piacere che almeno se ne vada in letto con una persona pulita. Vi pare?

— Sarà benissimo, poichè lo dite. Per conto mio, la donna vada in letto con chi vuole, non mi fa nè caldo nè freddo... Io sono rimasto greco in amore, greco d'ambo i lati, greco in ogni senso... e la donna, vi assicuro, la donna per l'amore non è che un palliativo!

— Oh, Cavaliere garbato e faceto, quali cose andate mai dicendo!

— Le cose d'Aristofane, delizioso amico mio, ch'eran vere al tempo d'Aristofane, e sembrami talvolta che vogliano tornar vere anche oggidì! Non vi pare lunga e dolce questa notte d'estate?... Non vorreste narrarmi da presso, imprimere nella mia memoria, insinuarmi nell'anima un vostro romanzo vissuto?... E non è questa la fiera colonia focense, la primitiva e robusta Massalia che portò ai barbari, dall'ellenico mare, il nostro costume gentile?...

— Cavaliere anacreontico e scherzevole, sono doluto assai di non potervi compiacere! Io sono rimasto profondamente barbaro, barbaro d'ambo i lati, barbaro in ogni senso... e la donna, vi assicuro, la donna per l'amore sarà un palliativo, sta bene... ma è ancora l'unico!

— Oh, divina babbuaggine di questi moderni, che hanno portato la retorica persin nell'amore!... Vedo pur troppo che c'è fra di noi tale opposizione di principii, che il mio buon senso mi dice: — «Aristofane, compatisci quest'onagro e non insistere!» — Così entriamo, se volete, nella maledetta sciampagneria!

Vi rimanemmo sino al mattino, celiando e trastullandoci con le carezzose danzatrici, attente quanto mai al rilucere delle mie piccole monete d'oro. Aristofane, da buon greco, non ne trasse fuori manco una. Poi verso l'alba ce n'andammo per separate strade, Aristofane con un agile ballerinetto che non professava i miei costumi barbari, io con la sorellina di costui, una brunetta di Montpellier, che forse non li professava manco lei.

L'orribile vetturino, panciuto e con la faccia vinosa, schioccava di frusta gridando lazzi alle pescivendole mattiniere; su la città marittima nasceva un giorno quasi biondo: il Prado si avventava contro il mare indolente con un grande ringiovanire de' suoi alberi antichi.

Ora, verso il mezzo inverno, Aristofane mi ha mandata la rivista... Ho pensato meglio di non farla rappresentare, ma invece la pubblico tal quale.

G. d. V.

27 Febbraio 1914.

Il Cavaliere dello Spirito Santo: Storia d'una giornata

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