Читать книгу Universi Mondi - Guido Pagliarino - Страница 6
ОглавлениеOsvaldo M., giureconsulto professore di Diritto Internazionale Pubblico, s’era rassegnato all’ineluttabile, dimettersi dall’università, cancellarsi dall’albo degli avvocati e concludere la vita ospite di Casa Tranquilla, clinica residenziale per benestanti afflitti da una delle malattie neuro degenerative Parkinson, Alzheimer o Pick.
Era stato il terzo morbo a colpirlo, piuttosto precocemente non avendo compiuto i sessant’anni. Da alcuni mesi aveva preso a soffrire, a tratti, d’agitazione psicomotoria, ansia e vuoti di memoria e aveva deciso quindi, a un certo punto, di rivolgersi al medico di base. Questi l’aveva indirizzato a un neuropatologo che l’aveva sottoposto a una lunga serie d’analisi, da cui era discesa l’infausta diagnosi. Osvaldo aveva chiesto allo specialista la causa e la natura del proprio male e ne aveva avuto la franca risposta che la patogenesi del morbo era ignota e se ne conosceva solo il quadro anatomopatologico, contrassegnato da un’atrofia dell'area cerebrale fronto-temporale e da presenza di alterazioni neuronali, i corpi di Pick, consistenti in inclusioni intracellulari, neurofilamenti simili a quelli analizzati nella malattia d’Alzheimer, dal quale però la patologia di Pick doveva tenersi distinta. Aveva amaramente saputo che il malato perdeva le capacità espressivo-espositive conservando ancora, per un certo tempo, quelle di lettura e scrittura e poi cascando nella piena demenza. Quanto alle cure, il neuropatologo aveva dovuto deluderlo: qualche speranza di rallentare il processo, sì, ma eventualità di guarigione, nessuna.
Osvaldo viveva in solitudine da anni, a parte una governante e cuciniera durante le ore diurne, non s’era mai formato una famiglia e, figlio unico, era l’unico superstite della propria stirpe. Conosciuta la propria sorte, non avendo alcun congiunto che potesse verificare ch'egli fosse adeguatamente assistito durante le ventiquattr’ore da stipendiati badanti, aveva deciso di ricoverarsi in una clinica neurologica per lungodegenti, il prima possibile, mentr’era ancora lucido. Aveva cercato personalmente sul web e, dopo aver formato una rosa d’indirizzi in prima apparenza più attraenti, s’era informato in loco di persona e aveva deciso per Casa Tranquilla, compiutamente Istituto Clinico Neurologico di Lungodegenza Casa Tranquilla. Aveva nello stesso tempo chiesto e ottenuto il supporto logistico d’un legale di cui si fidava, suo ex allievo e amico, l’avvocato Lamberto N., di ventidue anni più giovane: una volta che Osvaldo fosse stato ospite della clinica, questi vi sarebbe passato a trovarlo periodicamente per controllare che fosse rispettato da tutti come persona e ben trattato per vitto, alloggio, pulizia personale e, soprattutto, che venisse sempre diligentemente seguito medicalmente; inoltre l’amico avrebbe saldato per lui le rette mensili ed eventuali conti extra: Osvaldo era sicuro che il reddito del proprio ingente patrimonio sarebbe stato più che bastante a coprire le spese anche se, per ipotesi, la sua vita fosse stata lunga, a parte che, essendo pur afflitto da tempo da problemi cardiaci, riteneva che tanto lunga, dopotutto, non sarebbe stata. A compenso dell’opera di Lamberto, con testamento notarile Osvaldo l’avrebbe lasciato suo erede universale e gli avrebbe ceduto sùbito, come onorario à forfait anticipato, il proprio grande alloggio di città con quanto comprendeva. I due uomini avevano appuntamento dal notaio Tommaso Q. alle 11 del posdomani.
Su tali malinconici pensieri, poco prima dell’ora di pranzo Osvaldo passò, per una porta interna, dal proprio appartamento alla sala d’attesa del suo studio professionale: sotto i precedenti possessori s’era trattato d’un solo, grande alloggio occupante tutto il secondo piano, con due ingressi dalle scale, l’uno per proprietari e ospiti, l’altro per fornitori; il secondo era divenuto l’accesso allo studio legale. La zona lavoro era composta da tre stanze, il salone-studio vero e proprio, l’anticamera-sala d’attesa e l’ufficio delle due impiegate. Non c’era dentro nessuno, sebbene fosse giorno lavorativo, poiché Osvaldo aveva liquidato le collaboratrici, come aveva fatto d’altronde con la propria governante-cuoca, prendendo i pasti nei giorni seguenti in un vicino ristorante. Entrò nel salone che costituiva il suo studio, colmo di riviste giuridiche, dossier di lavoro e saggi legali tra i quali spiccavano i suoi, rilegati in pelle rossa; erano infilati rispettivamente, da sinistra a destra entrando, in tre scaffalature in legno noce chiaro ricoprenti altrettante pareti; lungo la quarta, cui era centrale la porta fra studio e sala d’attesa, erano appese, quattro per parte, otto stampe sovrastanti gli schienali di altrettante seggiole imbottite; al centro del salone, di rimpetto alla porta, imperava un ampio tavolo uso scrittoio coperto di fascicoli e carte, dietro cui s’ergeva un seggiolone professionale; tutta la mobilia era dorata e antica, in stile Luigi XV. L’avvocato aveva intenzione di sedersi per l’ultima volta alla propria scrivania, guardarsi un poco attorno, mollemente, e dare così una sorta d’addio ufficiale alla sua vita professionale, per non pensarci oltre e mai più accedere all’area di lavoro negli ultimi, mesti giorni che avrebbe trascorsi in casa.
Aveva fatto un paio di passi nel salone quando avvertì, allarmandosene, un intorpidimento alle mani e ai piedi che, presto, invase il corpo. S’arrestò rimanendo fisso sul posto. La scarsa sensibilità corporea divenne molesto formicolio e poi quasi un bruciore. Gli formicolava anche il cuoio capelluto. Iniziarono a prudergli, dentro, il cerebro e il muscolo cardiaco. Ragionò allibito: Sto per rimbambirmi del tutto e mi sta pure venendo un infarto. Pochi secondi dopo tuttavia, il bruciante formicolio prese a diminuire e, quanto prima, scemò ovunque; ma altra pena lo colpì e più gravemente: una sorta di gran manaccia invisibile gli strinse forte il cervello mentre sentì il cuore riscaldarsi fin al bruciore: “Muoio!” sbraitò.
“Non muore affatto, avvocato!” esclamò una voce sconosciuta lasciandolo esterrefatto, una voce dal tono melodioso, simile al timbro muliebre d’un potente contralto.
“Chi diav…!” non si contenne lui nonostante il tono tranquillo della voce, e si voltò di scatto per scoprire una presenza alle spalle: nessuno.
“Abbia un attimo di pazienza, il dolore sta per finire”, seguitò la voce.
La sofferenza smise ed egli si sentì fisicamente bene, anzi molto bene; però sul momento non si soffermò su questo, si guardò affannato attorno e lanciò anche un’occhiata al di sotto del tavolo: nessuno. Chi aveva parlato doveva essere al di là della porta. Un ladro? Osvaldo non provava più sbigottimento, adesso, ma ira: afferrò dal piano della scrivania un piccolo ma ponderoso fermacarte in bronzo, statuetta secentesca raffigurante un cavallo e cavaliere, con base anche più pesante della figura, e uscì d’impeto nella sala d’attesa: nessuno. Entrò nella camera che fino a giorni prima aveva osservato al lavoro le sue impiegate: nessuno. Tornò sui propri passi, ripassò per la sala d’aspetto e s’infilò nel primo vano della propria abitazione, un disimpegno: nessuno anche qui. Non andò oltre, ché la voce non era sonata lontana dallo studio. Meccanicamente posò il pesante fermacarte sopra un tavolino al suo fianco, un po’ troppo energicamente contro una statuetta di Capodimonte, damina e cavaliere settecenteschi, che ne restò scalfita alla base. Nemmeno s’accorse del danno e rientrò nella sala d’attesa, strepitando: “Il mio cervello è fuso! Sento voci che non ci sono!” e continuando a ragionare a mente: Il medico non m’aveva detto di possibili allucinazioni schizofreniche.
La voce da contralto risuonò un'altra volta, quieta come prima: “Il suo cervello non è fuso, avvocato, lei non sta immaginando”: queste parole, ripercosse da soffitto e muri, si riverberarono nella stanza ch’era priva d’arredi a parte otto sedie per i clienti lungo due pareti e un attaccapanni e un portaombrelli presso la porta sul pianerottolo, e al padron di casa quelle parole sembrarono d’oltretomba. Soffrì un sobbalzo al cuore e i battiti dell’organo accelerarono.
La voce estranea continuò placidamente: “Lei mi sente davvero, avvocato, attraverso un dispositivo, chiamiamolo telefonino, va bene? posizionato sul viva voce, che è in quest’ambiente, sulla sedia più vicina alla porta del suo studio; e la prima volta appunto nello studio l’apparecchio s’era solidificato, precisamente sulla sua scrivania, lei però non l’aveva scorto perché era apparso fra carte; così, un momento fa l’ho ritrasferito qui nella sala d’aspetto e ora, avvocato, non può non vederlo: oltretutto, stavolta l’ho ricomposto in tinta rossoviva e non più bianca.”
Solidificato Apparso? Ritrasferito? Ricomposto? si meravigliò Osvaldo. Vide che una sorta di telefonino c’era davvero su quella seggiola. Gli s’approssimò. Non lo toccò, solo l’osservò. Notò non trattarsi d’un moderno apparecchio intelligente multimediale ma d’un modello di dimensioni minori di quelle d’uno smartphone e d’apparenza arcaica, di quelli utili solo a conversare e a scambiare messaggini. Si fece più vicino e vide che non figurava alcuna scritta sul cellulare e ch’esso non aveva tasti né schermo, come se l’apparecchio fosse stato creato solo per ricevere.
Si disse ad alta voce: “Non credo alla magia e non hanno ancor inventato il teletrasporto, dunque sono davvero divenuto schizofrenico e ‘sto telefonino è solo nella mia testa.”
“Si sbaglia, sa?” incalzò la voce eufonica provenendo chiaramente dall’apparecchietto.
Osvaldo rispose come se quelle parole fossero state reali, senza però crederlo davvero: “Dunque è stato inventato il teletrasporto, non è così?”
“Sì, da un pezzo.”
“Ah, ecco, signor… o signora…”
“Io sono maschio e mi chiamo Ornulatinval Tamagonemistralin Rutillinainon, ma per lei, avvocato, solo Or come mi si rivolgono gli amici: possiamo darci del tu?”
Osvaldo stette al gioco che, secondo lui, il malandato suo cervello gli presentava: “Sì, grazie, e io sono Osvaldo.”
“Caro Osvaldo, è un onore chiamare per nome un’autorità mondiale del diritto come te; ma se permetti, ora verrei al dunque, anzi prima verrei a quel dunque che certamente t’interessa di più, poi al dunque che interessa noi.”
“Ah, ecco; e voi sareste…?”
“Aspetta, per favore. Intanto, la cosa che più interessa te è senz’altro questa, che ti abbiamo guarito completamente, grazie a certi raggi terapeutici che ti abbiamo indirizzato per teletrasporto. Ora hai il fisico sanissimo d’un dodicenne, non solo gli organi ma pure i muscoli e le ossa, e se, supponiamo, tu provassi a fare cento piegamenti, non ti sarebbe impossibile. Comunque te lo confermeranno le nuove analisi ospedaliere cui vorrai sottoporti, dato che oggi e nei giorni seguenti continuerai a sentirti meravigliosamente bene: i medici si sbalordiranno del tuo ristabilimento, quelli non credenti parleranno di remissione spontanea, gli altri penseranno a un miracolo; invece, semplicemente, le nostre scienze sono molto avanti rispetto alle vostre, e intendo non solo quelle fisiche ma anche le scienze sociali; e pure l’etica: epistemologia, scienze ed etica sono improntate appieno a ciò che vostri pensatori chiamano umanesimo sapienziale-scientifico. Scopo dei nostri intellettuali è sempre e solo il bene della persona che mai è considerata uno strumento ma sempre e solo fine primario della ricerca: non come accade, purtroppo per voi, sulla vostra Terra dove, tante volte, l’epistemologia, la scienza e la tecnica sono state e sono antiumaniste. Basti pensare a cose come lo Zyklon B Gas e le V1 e V2 del vostro Hitler o agli attuali esperimenti su feti umani.”
Osvaldo, ormai non più precisamente sicuro di star subendo un’allucinazione, rivolto al telefonino disse: “Chi mi assicura che sono davvero guarito? Chi mi dice che il mio cervello non mi stia dando illusioni consolatorie?”
“Tu non soffri affatto di percezioni illusorie e, come ti ho detto, le analisi mediche te lo proveranno: non solo sei guarito, ma hai le cellule ottime d’un ragazzino! La salute è il compenso anticipato per l’opera professionale che intendiamo chiederti. Quanto a noi, i purkilatronalarcolmintranikiani, siamo antropomorfi come voi, pur se… hm… con qualche differenza; e si può forse dire che siamo tanto terrestri come voi, quanto extraterrestri, perché il nostro pianeta Purkilatronalarcolmintranik, che per semplicità tu puoi chiamare Alterterra, è identico alla Terra, cioè ha gli stessi mari e continenti e la stessa vetustà geologica, ruota sul proprio asse in un giorno di pari durata del vostro e rivoluziona attorno a una stella identica al vostro Sole in 365 giorni e 6 ore; però i due pianeti esistono non sulla stessa stringa del creato ma sopra due, talmente vicine fra loro da essere pressoché coincidenti.”
Malgrado una certa perplessità che ancor subiva, Osvaldo restò coinvolto e rispose a tono: “Ricordo una trasmissione televisiva dove si parlava di teoria supersimmetrica delle stringhe. Vi si diceva che certi astrofisici congetturano che tutto ciò ch’esiste sia espressione diretta d’una, non meglio definita, energia vibratoria, cioè suppongono vibrazioni di super sottili e super simmetriche stringhe o fili che, benché dotati di dimensione, sarebbero talmente fini e brevi che non si riuscirebbe a vederli nemmeno con strumenti miliardi di volte più potenti dei migliori. Avevo pensato a qualcosa come gli universi paralleli della fantascienza.”
“Si può chiamarli così, volendo. Forse avevano anche detto che la teoria delle stringhe o fili richiede, per poter essere dimostrata, la congettura di almeno sei dimensioni oltre a quella del tempo e alle tre spaziali e, secondo alcuni vostri ricercatori, pure d’una settima dimensione...”
“…sì, mi ricordo…”
“…ma si tratta d’un numero enormemente più elevato. Comunque nessuno dei vostri studiosi, al momento, ha fornito prova delle multidimensioni, benché esse siano reali, come sto di fatto dimostrandoti con la mia inframmettenza interdimensionale.”
Osvaldo aveva finalmente la sensazione di non esser vittima d’allucinazioni ma di muoversi nella realtà, fors’anche perché l’ipotesi d’essere guarito era troppo affascinante per negare senz’altro fiducia a quella voce misteriosa. Indirizzò verso il telefonino: “Mi hai detto che voi vorreste il mio aiuto. Ne sarei disposto, ma in che modo?”
“Nel patrocinare una causa per noi presso…”
“…stavo per cancellarmi dall’albo e ritirarmi in una casa di cura”, lo interruppe.
“Lo sappiamo, prima di contattarti ci siamo ben informati su di te; però potresti rinunciarci, no? Dopotutto adesso sei sanissimo.”
“Ecco… mah, supponiamo di sì; e di quale causa si tratterebbe? Sarebbe in sede civile o penale? Io sono civilista.”
“Sappiamo anche questo. Il procedimento, come stavo per dirti, sarebbe presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia.”
“Ah! effettivamente vi svolsi già diverse cause di diritto internazionale pubblico; ma, scusa, voi a che titolo sareste soggetti di diritto internazionale?”
“Siamo uno Stato, lo Stato Unico di Krallumpntalvinstrinil, che si stende sull’intero nostro pianeta. Il processo sarebbe in sede civile, non penale; benché il vostro mondo ci consideri, del tutto ingiustamente, efferati criminali, non lo siamo e nemmeno abbiamo mai avuto denunce penali: è la voce popolare a colpevolizzarci da millenni, a causa di racconti prima orali e poi scritti e, più recentemente, di film, che hanno tutti alimentato la maligna voce che noi si faccia violenza a voi esseri umani, addirittura che amiamo mangiarvi, con predilezione per la carne tenera dei vostri bambini e ragazzini.”
Sul volto d’Osvaldo apparve un’espressione di gran sconcerto.
“Invece, proprio all’incontrario, la nostra specie è mite e la difesa dei deboli è per noi uno dei sommi precetti. Da sempre pratichiamo la carità verso ogni prossimo, come vuole il Creatore dell’esistente. Noi non abbiamo mai commesso quello che certi vostri testi sacri chiamano il peccato originale.”
“Sareste angeli?”
“No, io non sono un messaggero divino se non, forse, nel senso assai umile che, come i miei simili, testimonio con la mia vita la verità e la giustizia: vedrai, Osvaldo, che saprò dimostrarti con certezza che siamo creature benigne; ma intanto, rientra per favore nel tuo studio, e magari prénditi dietro il telefonino interdimensionale. Sulla tua scrivania è stato teletrasportato un computer portatile: è enormemente più potente e sofisticato dei vostri migliori notebook anche se di simile apparenza, s’apre come un computer terrestre e il collegamento è wireless, però interdimensionale. Quando l’aprirai, vi troverai ogni dato che ci riguarda, informazioni che ti serviranno per difendere la nostra causa: te ne illustrerò di preciso il funzionamento fra breve. Siamo certi che riuscirai a farci riconoscere dal tuo mondo come le persone giuste e miti che siamo, cancellando così le infamanti accuse che la tua specie ci lancia.” In tono enfatico la voce armoniosa soggiunse: “Osvaldo, difendendoci farai valere la verità! Proprio come il Creatore pretende da tutte le creature dotate di ragione.” Tornò all’intonazione pacata: “Qualora ti fosse utile, potremmo teletrasportarti anche i testi stampati dei file, ma sarebbero migliaia di volumi e non so se…”
“…ma no, troppo ingombro! I file andranno benissimo”, rispose Osvaldo accogliendo implicitamente la proposta. Rientrò nel salone col telefonino rosso in mano e soggiunse: “Beh, non l’avevo ancor detto: accetto di rappresentarvi.”
“Bene. Allora consideriamolo come contratto concluso; e adesso io, quale rappresentante legale della mia specie, posso finalmente mostrarmi e pure spiegarti bene di che si tratti; t’avverto però che ti potresti spaventare, ché per voi terrestri il nostro aspetto è mostruoso, come d’altronde lo è il vostro per noi, in verità, e… non sai quanto”: dal cellulare sortì una sorta di risatina divertita.
Le labbra d’Osvaldo si tesero in un’espressione parimenti allegra. Disse curioso: “Forse siete di colore verdino? O grigio? Forse avete grandi occhi neri e…”
“…capisco a chi ti riferisci: no, quegli altri figli del Creatore vivono su stringhe diverse dalla tua e dalla mia; e ai vostri occhi, non sono così mostruosi quanto noi. Adesso mi teletrasporto e mi vedrai; ma, mi raccomando, non spaventarti, l’apparenza inganna, come voi dite, il bene può apparire male come, al contrario, satana si traveste a volte da angelo di luce, come scriveva il vostro Paolo di Tarso nella sua neotestamentaria Seconda Lettera ai Corinzi: 'Questi tali sono falsi apostoli, operai fraudolenti, che si mascherano da apostoli di Cristo. Ciò non fa meraviglia, perché anche satana si maschera da angelo di luce. Non è perciò gran cosa se anche i suoi ministri si mascherano da ministri di giustizia; ma la loro fine sarà secondo le loro opere'” Senza soluzione di continuità, a un quattro metri da Osvaldo l’autore della voce cominciò a comparire, diafano, poi semitrasparente e, alla fine, solida forma umanoide: i suoi occhi erano dotati di notevole bellezza, grandi e luminosi, ma l’allibito Osvaldo, cacciando un grido, notò solo il resto della sua figura, simile a quelle descritte da fiabe e racconti fantasy per rappresentare… gli orchi! L’alieno, alto più di due metri, aveva pelle paonazza butterata d’apparenza rettiliare, naso prognato, enorme bocca senza labbra, dieci brevi corna verdognole su tutta la fronte, testa calva, collo largo, organi dell'udito ampi attaccati in alto ai lati del cranio, simili in forma alle orecchie dell’elefante indiano, mani grandi, a cinque dita come le nostre, e piedi altrettanto grandi calzati in stivaletti in tinta amaranto; l’essere indossava un perizoma turchino da cui si pronunciava, anteriormente in basso, un rigonfiamento cui doveva esser causa un sottostante sesso maschile; era nudo per il resto e a vista non aveva peli.
Osvaldo, essendo ormai in ottima salute mentale oltre che fisica, e per di più essendo da sempre culturalmente curiosissimo, ritrovò rapidamente l’autocontrollo.
L’anomalo visitatore considerò: “Era inevitabile un sussulto da parte tua. Mi spiace, anche se vedo che ti stai già rasserenando.”
“Sì, sto bene, è stato solo un momento; e sono curiosissimo.”
“T’illustrerò subito le cose; ma dopo esserci messi comodi su due seggiole, eh?”
“In verità starei meglio in piedi, emozionato come sono” e Osvaldo posò il cellulare rosso sul piano della scrivania accanto al portatile alieno, ch’era dello stesso colore ed era sistemato esattamente davanti al seggiolone.
“Come vuoi ma, se permetti, invece io mi siedo: credimi, essere teletrasportato fra dimensioni diverse stancherebbe qualunque internauta”; e senz’attendere il permesso del padrone di casa, s’accomodò sopra una delle due sedie più vicine alla porta, quella a sinistra uscendo.
Contrariamente a quant’aveva detto, anche Osvaldo s’accomodò, ma sul proprio seggiolone, davanti al notebook rosso. Pronto a dar ascolto alle parole del singolare ospite, trattenendo un naturale turbamento lo guardò, non rivolgendo tuttavia lo sguardo al volto ma al petto.
Coltane comunque l’attenzione, l’orco attaccò: “T’illustrerò l’uso del nostro computer, ma prima ti spiego meglio la situazione: Sappi che in passato noi non avevamo ancora il controllo dei passaggi interdimensionali, ma in certo modo essi già avvenivano, e fin dai tempi più antichi; si trattava però d’apparizioni per cause naturali, a nostra insaputa, di nostre figure, intendo non di purkilatronalarcolmintranikiani corporei ma solo di loro forme illusorie, diafane; tuttavia tali immagini erano più che bastevoli a terrorizzare i terrestri che le vedevano, anche perché le civiltà della Terra erano prescientifiche. Avrai forse capito che s’era trattato d’un fenomeno analogo a quello dei vostri cosiddetti fantasmi, che voi credete ectoplasmi di persone ormai defunte mentre, in realtà, sono immagini proiettate attraverso varchi, nel caso passaggi intertemporali e non interdimensionali, cioè che uniscono il vostro passato al vostro presente facendovi intravedere in trasparenza persone e scene del tempo che fu: ecco perché sorsero sulla Terra leggende sui fantasmi e poi ne furono scritti racconti e quindi girate pellicole: soprattutto sugli spettri scozzesi, dato che molti di quei varchi temporali sono nella vostra Scozia. Fin verso l’inizio del vostro XX secolo non avevamo avuto cognizione dei buchi interdimensionali e nemmeno di quelli temporali, non avendo ancor conquistato la tecnologia che finalmente, a quel punto, ci aveva permesso di scoprire quegl’ingressi e poi, a partire dall’epoca corrispondente all’inizio del vostro terzo millennio, anche d’eseguire in modo controllato traslazioni alla e dalla vostra Terra, nonché nel passato del nostro Purkilatronalarcolmintranik: accessi concreti, come quello che ho appena fatto, non più solo passaggi di nostre immagini fantasmatiche. Quanto alla Terra, potemmo studiare la vostra civiltà e, dopo aver conosciuto molti altri fatti, tempo fa venimmo a sapere del terrore suscitatovi nei millenni da nostre figure traslate sul vostro mondo attraverso i buchi interdimensionali e apprendemmo che le improvvise nostre apparizioni non solo avevano terrorizzato persone, come d’altro canto avevano fatto i vostri domestici spettri, ma avevano fatto sorgere leggende anche su di noi, gli orchi cattivi, leggende per le quali, diciamolo pure, aveva giocato molto anche la vostra fertile immaginazione; e avevamo pur inteso che, come per i vostri fantasmi, dalle leggende erano derivate opere letterarie e quindi pellicole sugli orchi che mangiano esseri umani! Leggende, letteratura e filmografia assolutamente infamanti per noi, e ciò opprime insopportabilmente il nostro assoluto senso di verità e di giustizia: senz’alcuna vanteria, credilo di cuore, noi siamo creature di spirito angelico, anche se non siamo angeli. Potrai accertarti della nostra perfetta condotta morale dai file inseriti nel computer ma, più ancora, dato che potresti pensare a semplici falsi, tu potrai appurarlo di persona passando, accompagnato da me, nel nostro mondo e visitandolo: il personal che hai in dotazione è anche una macchina per il trasporto interdimensionale. Più avanti ti spiegherò come mettere in atto tale funzione, per ora non toccare assolutamente i tasti viola: mi raccomando.”
“No, no, me ne guardo bene; e… mi dicevi ch’io dovrei aiutarvi…”
“…intenterai per noi un procedimento in sede civile presso la Corte dell’Aia e, grazie a tutta la documentazione che abbiamo inserito nel computer e a quanto raccoglierai di persona sul nostro pianeta, tu, luminare del diritto qual sei, otterrai sicuramente una sentenza che ci riabiliterà di fronte al vostro mondo.”
“È entusiasmante, mai avrei pensato… Altro che ritirarmi! e avverto dentro una forza…”
“Ovvio, sei di nuovo in perfetta salute.”
“Non mi sono mai sentito così motivato, così desideroso d’approfondire, così… così tutto. Ah, già! devo disdire l’appuntamento…” - guardò l’orologio da polso - “…no, è ormai un quarto all’una, gl’impiegati staranno andando a pranzo.”
“…gl’impiegati?”
“Gl’impiegati d’un notaio con cui ho appuntamento per dopodomani, incontro che intendo disdire; ma lo farò questo pomeriggio. Sono così eccitato che non ho fame: che ne diresti di cominciare a illustrarmi l’uso del tuo computer? Ah, ma forse hai fame tu.”
“Mangerò poi; dopotutto, l’attesa aumenta l’appetito” e gli sorrise amabilmente.
L’espressione che ne sortì, su quel volto mostruoso, apparve tuttavia a Osvaldo solamente ridicola: a fatica gli riuscì di frenare una risata; poi disse all’orco, con vera simpatia nonostante la bruttezza del suo ospite: “Grazie. Vorrei proprio mettermi all’opera fin da adesso… amico”: guardò finalmente negli occhi l’alieno e scoprì ch’esprimevano una tal luce di bontà quale, molto raramente, aveva colto sui propri simili.
Il posdomani, nello studio del notaio Tommaso Q., questi e Lamberto N. stavano attendendo l’arrivo d’Osvaldo, ormai impazientemente essendo trascorsa una trentina di minuti dall’ora dell’appuntamento.
“Non avrà trovato parcheggio”, suppose il notaio: “Qui in zona non è facile.”
Lamberto senza dir nulla telefonò all’amico. Ne sentì squillare il cellulare, a lungo, inutilmente. Riattaccò.
Ribadì il notaio: “Starà ancor cercando parcheggio e non potrà rispondere perché è alla guida.”
“No, non guida più, da qualche mese si muove in taxi”, chiarì l’avvocato. Attese un altro paio di minuti e riprovò a telefonare: stessa cosa, squilli a vuoto. Ben sapendo della cagionevole salute dell’amico, si preoccupò. Ritenne bene non attendere oltre: si scusò col notaio e si congedò, aggiungendo che avrebbe fissato telefonicamente un nuovo appuntamento. Si diresse di filato al domicilio d’Osvaldo. Il palazzo aveva custode e dunque il portone era aperto, Lamberto salì direttamente al secondo piano. Suonò per due volte il campanello dell’abitazione poi per due volte quello dello studio. Niente. Riprovò a chiamare l’amico al cellulare: ancora nessuna risposta. A quel punto telefonò al 113. Manifestò al centralinista il timore che il professor Osvaldo M., cagionevole di salute, giacesse svenuto chiuso in casa, solo. Ne comunicò l’indirizzo, gli promisero di venire sùbito. Scese sulla via ad attenderli. Dopo una ventina di minuti giunsero tre poliziotti sulla loro pantera biancazzurra e, dietro, due pompieri sopra una camionetta rossa. A parte una guardia, rimasta presso le macchine, tutti salirono al piano. I vigili del fuoco forzarono con un piede di porco la prima delle due porte sul pianerottolo. Il gruppo accedé, ispezionò le varie stanze dell’abitazione, passò alla zona studio e fu Lamberto, entrato per primo nel salone, a fare la tremenda scoperta: il suo amico e maestro giaceva a terra spolpato.