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4. LA STORIA DEL MIO MATRIMONIO

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Nella mente di un giovine di famiglia borghese il concetto di vita umana s’associa a quello della carriera e nella prima gioventù la carriera è quella di Napoleone I. Senza che perciò si sogni di diventare imperatore perché si può somigliare a Napoleone restando molto ma molto più in basso. La vita più intensa è raccontata in sintesi dal suono più rudimentale, quello dell’onda del mare, che, dacché si forma, muta ad ogni istante finché non muore! M’aspettavo perciò anch’io di divenire e disfarmi come Napoleone e l’onda.

La mia vita non sapeva fornire che una nota sola senz’alcuna variazione, abbastanza alta e che taluni m’invidiano, ma orribilmente tediosa. I miei amici mi conservarono durante tutta la mia vita la stessa stima e credo che neppur io, dacché son giunto all’età della ragione, abbia mutato di molto il concetto che feci di me stesso.

Può perciò essere che l’idea di sposarmi mi sia venuta per la stanchezza di emettere e sentire quell’unica nota. Chi non l’ha ancora sperimentato crede il matrimonio più importante di quanto non sia. La compagna che si sceglie rinnoverà, peggiorando o migliorando, la propria razza nei figli, ma madre natura che questo vuole e che per via diretta non saprebbe dirigerci, perché in allora ai figli non pensiamo affatto, ci dà a credere che dalla moglie risulterà anche un rinnovamento nostro, ciò ch’è un’illusione curiosa non autorizzata da alcun testo. Infatti si vive poi uno accanto all’altro, immutati, salvo che per una nuova antipatia per chi è tanto dissimile da noi o per un’invidia per chi a noi è superiore.

Il bello si è che la mia avventura matrimoniale esordì con la conoscenza del mio futuro suocero e con l’amicizia e l’ammirazione che gli dedicai prima che avessi saputo ch’egli era il padre di ragazze da marito. Perciò è evidente che non fu una risoluzione quella che mi fece procedere verso la mèta ch’io ignoravo. Trascurai una fanciulla che per un momento avrei creduto facesse al caso mio e restai attaccato al mio futuro suocero. Mi verrebbe voglia di credere anche nel destino.

Il desiderio di novità che c’era nel mio animo veniva soddisfatto da Giovanni Malfenti ch’era tanto differente da me e da tutte le persone di cui io fino ad allora avevo ricercato la compagnia e l’amicizia. Io ero abbastanza cólto essendo passato attraverso due facoltà universitarie eppoi per la mia lunga inerzia, ch’io credo molto istruttiva. Lui, invece, era un grande negoziante, ignorante ed attivo. Ma dalla sua ignoranza gli risultava forza e serenità ed io m’incantavo a guardarlo, invidiandolo.

Il Malfenti aveva allora circa cinquant’anni, una salute ferrea, un corpo enorme alto e grosso del peso di un quintale e più. Le poche idee che gli si movevano nella grossa testa erano svolte da lui con tanta chiarezza, sviscerate con tale assiduità, applicate evolvendole ai tanti nuovi affari di ogni giorno, da divenire sue parti, sue membra, suo carattere. Di tali idee io ero ben povero e m’attaccai a lui per arricchire.

Ero venuto al Tergesteo per consiglio dell’Olivi che mi diceva sarebbe stato un buon esordio alla mia attività commerciale frequentare la Borsa e che da quel luogo avrei anche potuto procurargli delle utili notizie. M’assisi a quel tavolo al quale troneggiava il mio futuro suocero e di là non mi mossi più, sembrandomi di essere arrivato ad una vera cattedra commerciale, quale la cercavo da tanto tempo.

Egli presto s’accorse della mia ammirazione e vi corrispose con un’amicizia che subito mi parve paterna. Che egli avesse saputo subito come le cose sarebbero andate a finire? Quando, entusiasmato dall’esempio della sua grande attività, una sera dichiarai di voler liberarmi dall’Olivi e dirigere io stesso i miei affari, egli me ne sconsigliò e parve persino allarmato dal mio proposito. Potevo dedicarmi al commercio, ma dovevo tenermi sempre solidamente legato all’Olivi ch’egli conosceva.

Era dispostissimo ad istruirmi, ed anzi annotò di propria mano nel mio libretto tre comandamenti ch’egli riteneva bastassero per far prosperare qualunque ditta: 1. Non occorre saper lavorare, ma chi non sa far lavorare gli altri perisce. 2. Non c’è che un solo grande rimorso, quello di non aver saputo fare il proprio interesse. 3. In affari la teoria è utilissima, ma è adoperabile solo quando l’affare è stato liquidato.

Io so questi e tanti altri teoremi a mente, ma a me non giovarono.

Quando io ammiro qualcuno, tento immediatamente di somigliargli. Copiai anche il Malfenti. Volli essere e mi sentii molto astuto. Una volta anzi sognai d’essere più furbo di lui. Mi pareva di aver scoperto un errore nella sua organizzazione commerciale: volli dirglielo subito per conquistarmi la sua stima. Un giorno al tavolo del Tergesteo l’arrestai quando, discutendo di un affare, stava dando della bestia ad un suo interlocutore. L’avvertii ch’io trovavo ch’egli sbagliava di proclamare con tutti la sua furberia. Il vero furbo, in commercio, secondo me, doveva fare in modo di apparire melenso.

Egli mi derise. La fama di furberia era utilissima. Intanto molti venivano a prender consiglio da lui e gli portavano delle notizie fresche mentre lui dava loro dei consigli utilissimi confermati da un’esperienza raccolta dal Medio Evo in poi. Talvolta egli aveva l’opportunità di aver insieme alle notizie anche la possibilità di vendere delle merci. Infine – e qui si mise ad urlare perché gli parve d’aver trovato finalmente l’argomento che doveva convincermi – per vendere o per comperare vantaggiosamente, tutti si rivolgevano al più furbo. Dal melenso non potevano sperare altro fuorché indurlo a sacrificare ogni suo beneficio, ma la sua merce era sempre più cara di quella del furbo, perché egli era stato già truffato al momento dell’acquisto.

Io ero la persona più importante per lui a quel tavolo. Mi confidò suoi segreti commerciali ch’io mai tradii. La sua fiducia era messa benissimo, tant’è vero che poté ingannarmi due volte, quand’ero già divenuto suo genero. La prima volta la sua accortezza mi costò bensì del denaro, ma fu l’Olivi ad esser l’ingannato e perciò io non mi dolsi troppo. L’Olivi m’aveva mandato da lui per averne accortamente delle notizie e le ebbe. Le ebbe tali che non me la perdonò più e quando aprivo la bocca per dargli un’informazione, mi domandava: «Da chi l’avete avuta? Da vostro suocero?». Per difendermi dovetti difendere Giovanni e finii col sentirmi piuttosto l’imbroglione che l’imbrogliato. Un sentimento gradevolissimo.

Ma un’altra volta feci proprio io la parte dell’imbecille, ma neppure allora seppi nutrire del rancore per mio suocero. Egli provocava ora la mia invidia ed ora la mia ilarità. Vedevo nella mia disgrazia l’esatta applicazione dei suoi principii ch’egli giammai m’aveva spiegati tanto bene. Trovò anche il modo di riderne con me, mai confessando di avermi ingannato e asserendo di dover ridere dell’aspetto comico della mia disdetta. Una sola volta egli confessò di avermi giocato quel tiro e ciò fu alle nozze di sua figlia Ada (non con me) dopo di aver bevuto dello sciampagna che turbò quel grosso corpo abbeverato di solito da acqua pura.

Allora egli raccontò il fatto, urlando per vincere l’ilarità che gl’impediva la parola:

– Capita dunque quel decreto! Abbattuto sto facendo il calcolo di quanto mi costi. In quel momento entra mio genero. Mi dichiara che vuol dedicarsi al commercio. «Ecco una bella occasione», gli dico. Egli si precipita sul documento per firmare temendo che l’Olivi potesse arrivare in tempo per impedirglielo e l’affare è fatto. – Poi mi faceva delle grandi lodi: – Conosce i classici a mente. Sa chi ha detto questo e chi ha detto quello. Non sa però leggere un giornale!

Era vero! Se avessi visto quel decreto apparso in luogo poco vistoso dei cinque giornali ch’io giornalmente leggo, non sarei caduto in trappola. Avrei dovuto anche subito intendere quel decreto e vederne le conseguenze ciò che non era tanto facile perché con esso si riduceva il tasso di un dazio per cui la merce di cui si trattava veniva deprezzata.

Il giorno dopo mio suocero smentì le sue confessioni. L’affare in bocca sua riacquistava la fisonomia che aveva avuta prima di quella cena. – Il vino inventa, – diceva egli serenamente e restava acquisito che il decreto in questione era stato pubblicato due giorni dopo la conclusione di quell’affare. Mai egli emise la supposizione che se avessi visto quel decreto avrei potuto fraintenderlo. Io ne fui lusingato, ma non era per gentilezza, ch’egli mi risparmiasse, ma perché pensava che tutti leggendo i giornali ricordino i proprii interessi. Invece io, quando leggo un giornale, mi sento trasformato in opinione pubblica e vedendo la riduzione di un dazio ricordo Cobden e il liberismo. È un pensiero tanto importante che non resta altro posto per ricordare la mia merce.

Una volta però m’avvenne di conquistare la sua ammirazione e proprio per me, come sono e giaccio, ed anzi proprio per le mie qualità peggiori. Possedevamo io e lui da vario tempo delle azioni di una fabbrica di zucchero dalla quale si attendevano miracoli. Invece le azioni ribassavano, tenuemente, ma ogni giorno, e Giovanni, che non intendeva di nuotare contro corrente, si disfece delle sue e mi convinse di vendere le mie. Perfettamente d’accordo, mi proposi di dare quell’ordine di vendita al mio agente e intanto ne presi nota in un libretto che in quel torno di tempo avevo di nuovo istituito. Ma si sa che la tasca non si vede durante il giorno e così per varie sere ebbi la sorpresa di ritrovare nella mia quell’annotazione al momento di coricarmi e troppo tardi perché mi servisse. Una volta gridai dal dispiacere e, per non dover dare troppe spiegazioni a mia moglie le dissi che m’ero morsa la lingua. Un’altra volta, stupito di tanta sbadataggine, mi morsi le mani. «Occhio ai piedi, ora!» disse mia moglie ridendo. Poi non vi furono altri malanni perché vi ero abituato. Guardavo istupidito quel maledetto libretto troppo sottile per farsi percepire durante il giorno con la sua pressione e non ci pensavo più sino alla sera appresso.

Un giorno un improvviso acquazzone mi costrinse di rifugiarmi al Tergesteo. Colà trovai per caso il mio agente il quale mi raccontò che negli ultimi otto giorni il prezzo di quelle azioni s’era quasi raddoppiato.

– Ed io ora vendo! – esclamai trionfalmente.

Corsi da mio suocero il quale già sapeva dell’aumento di prezzo di quelle azioni e si doleva di aver vendute le sue e un po’ meno di avermi indotto a vendere le mie.

– Abbi pazienza! – disse ridendo. – È la prima volta che perdi per aver seguito un mio consiglio.

L’altro affare non era risultato da un suo consiglio ma da una sua proposta ciò che, secondo lui, era molto differente.

Io mi misi a ridere di gusto.

– Ma io non ho mica seguito quel consiglio! – Non mi bastava la fortuna e tentai di farmene un merito. Gli raccontai che le azioni sarebbero state vendute solo la dimane e, assumendo un’aria d’importanza, volli fargli credere che io avessi avuto delle notizie che avevo dimenticato di dargli e che m’avevano indotto a non tener conto del suo consiglio.

Torvo e offeso mi parlò senza guardarmi in faccia. – Quando si ha una mente come la tua non ci si occupa di affari. E quando capita di aver commessa una tale malvagità, non la si confessa. Hai da imparare ancora parecchie cose, tu.

Mi spiacque d’irritarlo. Era tanto più divertente quand’egli danneggiava me. Gli raccontai sinceramente com’erano andate le cose.

– Come vedi è proprio con una mente come la mia che bisogna dedicarsi agli affari.

Subito rabbonito, rise con me:

– Non è un utile quello che ricavi da tale affare; è un indenizzo. Quella tua testa ti costò già tanto, ch’è giusto ti rimborsi di una parte della tua perdita!

Non so perché mi fermai tanto a raccontare dei dissidi ch’ebbi con lui e che sono tanto pochi. Io gli volli veramente bene, tant’è vero che ricercai la sua compagnia ad onta che avesse l’abitudine di urlare per pensare più chiaramente. Il mio timpano sapeva sopportare le sue urla. Se le avesse gridate meno, quelle sue teorie immorali sarebbero state più offensive e, se egli fosse stato educato meglio, la sua forza sarebbe sembrata meno importante. E ad onta ch’io fossi tanto differente da lui, credo ch’egli abbia corrisposto al mio con un affetto simile. Lo saprei con maggiore sicurezza se egli non fosse morto tanto presto. Continuò a darmi assiduamente delle lezioni dopo il mio matrimonio e le condì spesso di urla ed insolenze che io accettavo convinto di meritarle.

Sposai sua figlia. Madre natura misteriosa mi diresse e si vedrà con quale violenza imperativa. Adesso io talvolta scruto le faccie dei miei figliuoli e indago se accanto al mento sottile mio, indizio di debolezza, accanto agli occhi di sogno miei, ch’io loro tramandai, non vi sia in loro almeno qualche tratto della forza brutale del nonno ch’io loro elessi.

E alla tomba di mio suocero io piansi ad onta che anche l’ultimo addio che mi diede non sia stato troppo affettuoso. Dal suo letto di morte mi disse che ammirava la mia sfacciata fortuna che mi permetteva di movermi liberamente mentre lui era crocifisso su quel letto. Io, stupito, gli domandai che cosa gli avessi fatto per fargli desiderare di vedermi malato. Ed egli mi rispose proprio così:

– Se dando a te la mia malattia io potessi liberarmene, te la darei subito, magari raddoppiata! Non ho mica le ubbie umanitarie che hai tu!

Non v’era niente di offensivo: egli avrebbe voluto ripetere quell’altro affare col quale gli era riuscito di caricarmi di una merce deprezzata. Poi anche qui c’era stata la carezza perché a me non spiaceva di veder spiegata la mia debolezza con le ubbie umanitarie ch’egli mi attribuiva.

Alla sua tomba come a tutte quelle su cui piansi, il mio dolore fu dedicato anche a quella parte di me stesso che vi era sepolta. Quale diminuzione per me venir privato di quel mio secondo padre, ordinario, ignorante, feroce lottatore che dava risalto alla mia debolezza, la mia cultura, la mia timidezza. Questa è la verità: io sono un timido! Non l’avrei scoperto se non avessi qui studiato Giovanni. Chissà come mi sarei conosciuto meglio se egli avesse continuato a starmi accanto!

Presto m’accorsi che al tavolo del Tergesteo, dove si divertiva a rivelarsi quale era e anche un poco peggiore, Giovanni s’imponeva una riserva: non parlava mai di casa sua o soltanto quando vi era costretto, compostamente e con voce un poco più dolce del solito. Portava un grande rispetto alla sua casa e forse non tutti coloro che sedevano a quel tavolo gli sembravano degni di saperne qualche cosa. Colà appresi soltanto che le sue quattro figliuole avevano tutti i nomi dall’iniziale in a, una cosa praticissima, secondo lui, perché le cose su cui era impressa quell’iniziale potevano passare dall’una all’altra, senz’aver da subire dei mutamenti. Si chiamavano (seppi subito a mente quei nomi): Ada, Augusta, Alberta e Anna. A quel tavolo si disse anche che tutt’e quattro erano belle. Quell’iniziale mi colpì molto più di quanto meritasse. Sognai di quelle quattro fanciulle legate tanto bene insieme dal loro nome. Pareva fossero da consegnarsi in fascio. L’iniziale diceva anche qualche cosa d’altro. Io mi chiamo Zeno ed avevo perciò il sentimento che stessi per prendere moglie lontano dal mio paese.

Fu forse un caso che prima di presentarmi in casa Malfenti io mi fossi liberato da un legame abbastanza antico con una donna che forse avrebbe meritato un trattamento migliore. Ma un caso che dà da pensare. La decisione a tale distacco fu presa per ragione ben lieve. Alla poverina era parso un bel sistema di legarmi meglio a lei, quello di rendermi geloso. Il sospetto invece bastò per indurmi ad abbandonarla definitivamente. Essa non poteva sapere che io allora ero invaso dall’idea del matrimonio e che credevo di non poter contrarlo con lei, solo perché con lei la novità non mi sarebbe sembrata abbastanza grande. Il sospetto ch’essa aveva fatto nascere in me ad arte era una dimostrazione della superiorità del matrimonio nel quale tali sospetti non devono sorgere. Quando quel sospetto di cui sentii presto l’inconsistenza dileguò, ricordai anche ch’essa spendeva troppo. Oggidì, dopo ventiquattr’anni di onesto matrimonio, non sono più di quel parere.

Per essa fu una vera fortuna perché, pochi mesi dopo, fu sposata da persona molto abbiente ed ottenne l’ambito mutamento prima di me. Non appena sposato, me la trovai in casa perché il marito era un amico di mio suocero. C’incontrammo spesso, ma, per molti anni, finché fummo giovani, fra noi regnò il massimo riserbo e mai si fece allusione al passato. L’altro giorno ella mi domandò a bruciapelo, con la sua faccia incorniciata da capelli grigi giovanilmente arrossata:

– Perché mi abbandonaste?

Io fui sincero perché non ebbi il tempo necessario per confezionare una bugia:

– Non lo so più, ma ignoro anche tante altre cose della mia vita.

– A me dispiace, – ella disse e già m’inchinavo al complimento che così mi prometteva. – Nella vecchiaia mi sembrate un uomo molto divertente. – Mi rizzai con uno sforzo. Non era il caso di ringraziare.

Un giorno appresi che la famiglia Malfenti era ritornata in città da un viaggio di piacere abbastanza prolungato seguito al soggiorno estivo in campagna. Non arrivai a fare alcun passo per essere introdotto in quella casa perché Giovanni mi prevenne.

Mi fece vedere la lettera di un suo amico intimo che domandava mie nuove: Era stato mio compagno di studii costui e gli avevo voluto molto bene finché l’avevo creduto destinato a divenire un grande chimico. Ora, invece, di lui non m’importava proprio niente perché s’era trasformato in un grande commerciante in concimi ed io come tale non lo conoscevo affatto. Giovanni m’invitò a casa sua proprio perché ero l’amico di quel suo amico e, – si capisce, – io non protestai affatto.

Quella prima visita io la ricordo come se l’avessi fatta ieri. Era un pomeriggio fosco e freddo d’autunno; e ricordo persino il sollievo che mi derivò dal liberarmi del soprabito nel tepore di quella casa. Stavo proprio per arrivare in porto. Ancora adesso sto ammirando tanta cecità che allora mi pareva chiaroveggenza. Correvo dietro alla salute, alla legittimità. Sta bene che in quell’iniziale a erano racchiuse quattro fanciulle, ma tre di loro sarebbero state eliminate subito e in quanto alla quarta anch’essa avrebbe subito un esame severo. Giudice severissimo sarei stato. Ma intanto non avrei saputo dire le qualità che avrei domandate da lei e quelle che avrei abbominate.

Nel salotto elegante e vasto fornito di mobili in due stili differenti, di cui uno Luigi XIV e l’altro veneziano ricco di oro impresso anche sui cuoi, diviso dai mobili in due parti, come allora si usava, trovai la sola Augusta che leggeva accanto ad una finestra. Mi diede la mano, sapeva il mio nome e arrivò a dirmi ch’ero atteso perché il suo babbo aveva preavvisata la mia visita. Poi corse via a chiamare la madre.

Ecco che delle quattro fanciulle dalla stessa iniziale una ne moriva in quanto mi riguardava. Come avevano fatto a dirla bella? La prima cosa che in lei si osservava era lo strabismo tanto forte che, ripensando a lei dopo di non averla vista per qualche tempo, la personificava tutta. Aveva poi dei capelli non molto abbondanti, biondi, ma di un colore fosco privo di luce e la figura intera non disgraziata, pure un po’ grossa per quell’età. Nei pochi istanti in cui restai solo pensai: «Se le altre tre somigliano a questa!…»

Poco dopo il gruppo delle fanciulle si ridusse a due. Una di esse, ch’entrò con la mamma, non aveva che otto anni. Carina quella bambina dai capelli inanellati, luminosi, lunghi e sciolti sulle spalle! Per la sua faccia pienotta e dolce pareva un’angioletta pensierosa (finché stava zitta) di quel pensiero come se lo figurava Raffaello Sanzio.

Mia suocera… Ecco! Anch’io provo un certo ritegno a parlarne con troppa libertà! Da molti anni io le voglio bene perché è mia madre, ma sto raccontando una vecchia storia nella quale essa non figurò quale mia amica e intendo di non rivolgerle neppure in questo fascicolo, ch’essa mai vedrà, delle parole meno che rispettose. Del resto il suo intervento fu tanto breve che avrei potuto anche dimenticarlo: Un colpetto al momento giusto, non più forte di quanto occorse per farmi perdere il mio equilibrio labile. Forse l’avrei perduto anche senza il suo intervento, eppoi chissà se essa volle proprio quello che avvenne? È tanto bene educata che non può capitarle come al marito di bere troppo per rivelarmi i miei affari. Infatti mai le accadde nulla di simile e perciò io sto raccontando una storia che non conosco bene; non so cioè se sia dovuta alla sua furberia o alla mia bestialità ch’io abbia sposata quella delle sue figliuole ch’io non volevo.

Intanto posso dire che all’epoca di quella mia prima visita mia suocera era tuttavia una bella donna. Era elegante anche per il suo modo di vestire di un lusso poco appariscente. Tutto in lei era mite e intonato.

Avevo così nei miei stessi suoceri un esempio d’integrazione fra marito e moglie quale io la sognavo. Erano stati felicissimi insieme, lui sempre vociando e lei sorridendo di un sorriso che nello stesso tempo voleva dire consenso e compatimento. Essa amava il suo grosso uomo ed egli deve averla conquistata e conservata a furia di buoni affari. Non l’interesse, ma una vera ammirazione la legava a lui, un’ammirazione cui io partecipavo e che perciò facilmente intendevo. Tanta vivacità messa da lui in un ambito tanto ristretto, una gabbia in cui non v’era altro che una merce e due nemici (i due contraenti) ove nascevano e si scoprivano sempre delle nuove combinazioni e relazioni, animava meravigliosamente la vita. Egli le raccontava tutti i suoi affari e lei era tanto bene educata da non dare mai dei consigli perché avrebbe temuto di fuorviarlo. Egli sentiva il bisogno di tale muta assistenza e talvolta correva a casa a monologare nella convinzione di andar a prendere consiglio dalla moglie.

Non fu una sorpresa per me quando appresi ch’egli la tradiva, ch’essa lo sapeva e che non gliene serbava rancore. Io ero sposato da un anno allorché un giorno Giovanni, turbatissimo, mi raccontò che aveva smarrita una lettera di cui molto gl’importava e volle rivedere delle carte che m’aveva consegnate sperando di ritrovarla fra quelle. Invece, pochi giorni appresso, tutto lieto, mi raccontò che l’aveva ritrovata nel proprio portafogli. «Era di una donna?» domandai io, e lui accennò di sì con la testa, vantandosi della sua buona fortuna. Poi io, per difendermi, un giorno in cui m’accusavano di aver perdute delle carte, dissi a mia moglie e a mia suocera che non potevo avere la fortuna del babbo cui le carte ritornavano da sole al portafogli. Mia suocera si mise a ridere tanto di gusto ch’io non dubitai che quella carta non fosse stata rimessa a posto proprio da lei. Evidentemente nella loro relazione ciò non aveva importanza. Ognuno fa all’amore come sa e il loro, secondo me, non ne era il modo più stupido.

La signora m’accolse con grande gentilezza. Si scusò di dover tenere con sé la piccola Anna che aveva il suo quarto d’ora in cui non si poteva lasciarla con altri. La bambina mi guardava studiandomi con gli occhi serii. Quando Augusta ritornò e s’assise su un piccolo sofà posto dirimpetto a quello su cui eravamo io e la signora Malfenti, la piccina andò a coricarsi in grembo alla sorella donde m’osservò per tutto il tempo con una perseveranza che mi divertì finché non seppi quali pensieri si movessero in quella piccola testa.

La conversazione non fu subito molto divertente. La signora, come tutte le persone bene educate, era abbastanza noiosa ad un primo incontro. Mi domandava anche troppe notizie dell’amico che si fingeva m’avesse introdotto in quella casa e di cui io non ricordavo neppure il nome di battesimo.

Entrarono finalmente Ada e Alberta. Respirai: erano belle ambedue e portavano in quel salotto la luce che fino ad allora vi aveva mancato. Ambedue brune e alte e slanciate, ma molto differenti l’una dall’altra. Non era una scelta difficile quella che avevo da fare. Alberta aveva allora non più di diciasett’anni. Come la madre essa aveva – benché bruna – la pelle rosea e trasparente, ciò che aumentava l’infantilità del suo aspetto. Ada, invece, era già una donna con i suoi occhi serii in una faccia che per essere meglio nivea era un poco azzurra e la sua capigliatura ricca, ricciuta, ma accomodata con grazia e severità.

È difficile di scoprire le origini miti di un sentimento divenuto poi tanto violento, ma io sono certo che da me mancò il cosidetto coup de foudre per Ada. Quel colpo di fulmine, però, fu sostituito dalla convinzione ch’ebbi immediatamente che quella donna fosse quella di cui abbisognavo e che doveva addurmi alla salute morale e fisica per la santa monogamia. Quando vi ripenso resto sorpreso che sia mancato quel colpo di fulmine e che vi sia stata invece quella convinzione. È noto che noi uomini non cerchiamo nella moglie le qualità che adoriamo e disprezziamo nell’amante. Sembra dunque ch’io non abbia subito vista tutta la grazia e tutta la bellezza di Ada e che mi sia invece incantato ad ammirare altre qualità ch’io le attribuii di serietà e anche di energia, insomma, un po’ mitigate, le qualità ch’io amavo nel padre suo. Visto che poi credetti (come credo ancora) di non essermi sbagliato e che tali qualità Ada da fanciulla avesse possedute, posso ritenermi un buon osservatore ma un buon osservatore alquanto cieco. Quella prima volta io guardai Ada con un solo desiderio: quello di innamorarmene perché bisognava passare per di là per sposarla. Mi vi accinsi con quell’energia ch’io sempre dedico alle mie pratiche igieniche. Non so dire quando vi riuscii; forse già nel tempo relativamente piccolo di quella prima visita.

Giovanni doveva aver parlato molto di me alle figliuole sue. Esse sapevano, fra altro, ch’ero passato nei miei studii dalla facoltà di legge a quella di chimica per ritornare – pur troppo! – alla prima. Cercai di spiegare: era certo che quando ci si rinchiudeva in una facoltà, la parte maggiore dello scibile restava coperta dall’ignoranza. E dicevo:

– Se ora su di me non incombesse la serietà della vita, – e non dissi che tale serietà io la sentivo da poco tempo, dacché avevo risolto di sposarmi – io sarei passato ancora di facoltà in facoltà.

Poi, per far ridere, dissi ch’era curioso ch’io abbandonassi una facoltà proprio al momento di dare gli esami.

– Era un caso – dicevo col sorriso di chi vuol far credere che stia dicendo una bugia. E invece era vero ch’io avevo cambiato di studii nelle più varie stagioni.

Partii così alla conquista di Ada e continuai sempre nello sforzo di farla ridere di me e alle spalle mie dimenticando ch’io l’avevo prescelta per la sua serietà. Io sono un po’ bizzarro, ma a lei dovetti apparire veramente squilibrato. Non tutta la colpa è mia e lo si vede dal fatto che Augusta e Alberta, ch’io non avevo prescelte, mi giudicarono altrimenti. Ma Ada, che proprio allora era tanto seria da girare intorno i begli occhi alla ricerca dell’uomo ch’essa avrebbe ammesso nel suo nido, era incapace di amare la persona che la faceva ridere. Rideva, rideva a lungo, troppo a lungo e il suo riso copriva di un aspetto ridicolo la persona che l’aveva provocato. La sua era una vera inferiorità e doveva finire col danneggiarla, ma danneggiò prima me. Se avessi saputo tacere a tempo forse le cose sarebbero andate altrimenti. Intanto le avrei lasciato il tempo perché parlasse lei, mi si rivelasse e potessi guardarmene.

Le quattro fanciulle erano sedute sul piccolo sofà sul quale stavano a stento ad onta che Anna sedesse sulle ginocchia di Augusta. Erano belle così insieme. Lo constatai con un’intima soddisfazione vedendo ch’ero avviato magnificamente all’ammirazione e all’amore. Veramente belle! Il colore sbiadito di Augusta serviva a dare rilievo al color bruno delle capigliature delle altre.

Io avevo parlato dell’Università e Alberta, che stava facendo il penultimo anno del ginnasio, raccontò dei suoi studii. Si lamentò che il latino le riusciva molto difficile. Dissi di non meravigliarmene perché era una lingua che non faceva per le donne, tanto ch’io pensavo che già dagli antichi romani le donne avessero parlato l’italiano. Invece per me – asserii – il latino aveva rappresentata la materia prediletta. Poco dopo però commisi la leggerezza di fare una citazione latina che Alberta dovette correggermi. Un vero infortunio! Io non vi diedi importanza e avvertii Alberta che quando essa avesse avuto dietro di sé una diecina di semestri d’Università, anche lei avrebbe dovuto guardarsi dal fare citazioni latine.

Ada che recentemente era stata col padre per qualche mese in Inghilterra, raccontò che in quel paese molte fanciulle sapevano il latino. Poi sempre con la sua voce seria, aliena da ogni musicalità, un po’ più bassa di quella che si sarebbe aspettata dalla sua gentile personcina, raccontò che le donne in Inghilterra erano tutt’altra cosa che da noi. S’associavano per scopi di beneficenza, religiosi o anche economici. Ada veniva spinta a parlare dalle sorelle che volevano riudire quelle cose che apparivano meravigliose a fanciulle della nostra città in quell’epoca. E, per compiacerle, Ada raccontò di quelle donne presidentesse, giornaliste, segretarie e propagandiste politiche che salivano il pulpito per parlare a centinaia di persone senz’arrossire e senza confondersi quando venivano interrotte o vedevano confutati i loro argomenti. Diceva semplicemente, con poco colore, senz’alcuna intenzione di far meravigliare o ridere.

Io amavo la sua parola semplice, io, che come aprivo la bocca svisavo cose o persone perché altrimenti mi sarebbe sembrato inutile di parlare. Senz’essere un oratore, avevo la malattia della parola. La parola doveva essere un avvenimento a sé per me e perciò non poteva essere imprigionata da nessun altro avvenimento.

Ma io avevo uno speciale odio per la perfida Albione e lo manifestai senza temere di offendere Ada che del resto non aveva manifestato né odio né amore per l’Inghilterra. Io vi avevo trascorso alcuni mesi, ma non vi avevo conosciuto alcun inglese di buona società visto che avevo smarrite in viaggio alcune lettere di presentazione ottenute da amici d’affari di mio padre. A Londra perciò avevo praticato solo alcune famiglie francesi ed italiane e finito col pensare che tutte le persone dabbene in quella città provenissero dal continente. La mia conoscenza dell’inglese era molto limitata. Con l’aiuto degli amici potei tuttavia intendere qualche cosa della vita di quegl’isolani e sopra tutto fui informato della loro antipatia per tutti i non inglesi.

Descrissi alle fanciulle il sentimento poco gradevole che mi veniva dal soggiorno in mezzo a nemici. Avrei però resistito e sopportata l’Inghilterra per quei sei mesi che mio padre e l’Olivi volevano infliggermi acciocché studiassi il commercio inglese (in cui intanto non m’imbattei mai perché pare si faccia in luoghi reconditi) se non mi fosse toccata un’avventura sgradevole. Ero andato da un libraio a cercare un vocabolario. In quel negozio, sul banco, riposava sdraiato un grosso, magnifico gatto àngora che proprio attirava le carezze sul soffice pelo. Ebbene! Solo perché dolcemente l’accarezzai, esso proditoriamente m’assaltò e mi graffiò malamente le mani. Da quel momento non seppi più sopportare l’Inghilterra e il giorno appresso mi trovavo a Parigi.

Augusta, Alberta e anche la signora Malfenti risero di cuore. Ada invece era stupita e credeva di avere frainteso. Era stato almeno il libraio stesso che m’aveva offeso e graffiato? Dovetti ripetermi, ciò ch’è noioso perché si ripete male.

Alberta, la dotta, volle aiutarmi:

– Anche gli antichi si lasciavano dirigere nelle loro decisioni dai movimenti degli animali.

Non accettai l’aiuto. Il gatto inglese non s’era mica atteggiato ad oracolo; aveva agito da fato!

Ada, coi grandi occhi spalancati, volle delle altre spiegazioni:

– E il gatto rappresentò per voi l’intero popolo inglese?

Com’ero sfortunato! Per quanto vera, quell’avventura a me era parsa istruttiva e interessante come se a scopi precisi fosse stata inventata. Per intenderla non bastava ricordare che in Italia dove conosco ed amo tanta gente, l’azione di quel gatto non avrebbe potuto assurgere a tale importanza? Ma io non dissi questo e dissi invece:

– È certo che nessun gatto italiano sarebbe capace di una tale azione.

Ada rise a lungo, molto a lungo. Mi parve persino troppo grande il mio successo perché m’immiserii e immiserii la mia avventura con ulteriori spiegazioni:

– Lo stesso libraio fu stupito del contegno del gatto che con tutti gli altri si comportava bene. L’avventura toccò a me perché ero io o forse perché ero italiano. It was really disgusting e dovetti fuggire.

Qui avvenne qualche cosa che pur avrebbe dovuto avvisarmi e salvarmi. La piccola Anna che fino ad allora era rimasta immota ad osservarmi, a gran voce si diede ad esprimere il sentimento di Ada. Gridò:

– È vero ch’è pazzo, pazzo del tutto?

La signora Malfenti la minacciò:

– Vuoi stare zitta? Non ti vergogni d’ingerirti nei discorsi dei grandi?

La minaccia fece peggio. Anna gridò:

– È pazzo! Parla coi gatti! Bisognerebbe procurarsi subito delle corde per legarlo!

Augusta, rossa dal dispiacere, si alzò e la portò via ammonendola e domandandomi nello stesso tempo scusa. Ma ancora alla porta la piccola vipera poté fissarmi negli occhi, farmi una brutta smorfia e gridarmi.

– Vedrai che ti legheranno!

Ero stato assaltato tanto impensatamente che non subito seppi trovare il modo di difendermi. Mi sentii però sollevato all’accorgermi che anche Ada era dispiacente di veder dare espressione a quel modo al suo proprio sentimento. L’impertinenza della piccina ci riavvicinava.

Raccontai ridendo di cuore ch’io a casa possedevo un certificato regolarmente bollato che attestava in tutte le forme la mia sanità di mente. Così appresero del tiro che avevo giocato al mio vecchio padre. Proposi di produrre quel certificato alla piccola Annuccia.

Quando accennai di andarmene non me lo permisero. Volevano che prima dimenticassi i graffi inflittimi da quell’altro gatto. Mi trattennero con loro, offrendomi una tazza di tè.

È certo ch’io oscuramente sentii subito che per esser gradito da Ada avrei dovuto essere un po’ differente di quanto ero; pensai che mi sarebbe stato facile di divenire quale essa mi voleva. Si continuò a parlare della morte di mio padre e a me parve che rivelando il grande dolore che tuttavia mi pesava, la seria Ada avrebbe potuto sentirlo con me. Ma subito, nello sforzo di somigliarle, perdetti la mia naturalezza e perciò da lei – come si vide subito – m’allontanai. Dissi che il dolore per una simile perdita era tale che se io avessi avuto dei figliuoli avrei cercato di fare in modo che m’amassero meno per risparmiare loro più tardi di soffrire tanto per la mia dipartita. Fui un poco imbarazzato quando mi domandarono in qual modo mi sarei comportato per raggiungere tale scopo. Maltrattarli e picchiarli? Alberta, ridendo, disse:

– Il mezzo più sicuro sarebbe di ucciderli.

Vedevo che Ada era animata dal desiderio di non spiacermi. Perciò esitava; ma ogni suo sforzo non poteva condurla oltre l’esitazione. Poi disse che vedeva ch’era per bontà ch’io pensavo di organizzare così la vita dei miei figliuoli, ma che non le pareva giusto di vivere per prepararsi alla morte. M’ostinai e asserii che la morte era la vera organizzatrice della vita. Io sempre alla morte pensavo e perciò non avevo che un solo dolore: La certezza di dover morire. Tutte le altre cose divenivano tanto poco importanti che per esse non avevo che un lieto sorriso o un riso altrettanto lieto. M’ero lasciato trascinare a dire delle cose ch’erano meno vere, specie trovandomi con lei, una parte della mia vita già tanto importante. In verità io credo di averle parlato così per il desiderio di farle sapere ch’io ero un uomo tanto lieto. Spesso la lietezza m’aveva favorito con le donne.

Pensierosa ed esitante, essa mi confessò che non amava uno stato d’animo simile. Diminuendo il valore della vita, si rendeva questa anche più pericolante di quanto madre natura avesse voluto. Veramente ella m’aveva detto che non facevo per lei, ma ero tuttavia riuscito a renderla esitante e pensierosa e mi parve un successo.

Alberta citò un filosofo antico che doveva somigliarmi nell’interpretazione della vita e Augusta disse che il riso era una gran bella cosa. Anche suo padre ne era ricco.

– Perché gli piacciono i buoni affari – disse la signora Malfenti ridendo.

Interruppi finalmente quella visita memoranda.

Non v’è niente di più difficile a questo mondo che di fare un matrimonio proprio come si vuole. Lo si vede dal caso mio ove la decisione di sposarmi aveva preceduto di tanto la scelta della fidanzata. Perché non andai a vedere tante e tante ragazze prima di sceglierne una? No! Pareva proprio mi fosse spiaciuto di vedere troppe donne e non volli faticare. Scelta la fanciulla, avrei anche potuto esaminarla un po’ meglio e accertarmi almeno ch’essa sarebbe stata disposta di venirmi incontro a mezza strada come si usa nei romanzi d’amore a conclusione felice. Io, invece, elessi la fanciulla dalla voce tanto grave e dalla capigliatura un po’ ribelle, ma assettata severamente e pensai che, tanto seria, non avrebbe rifiutato un uomo intelligente, non brutto, ricco e di buona famiglia come ero io. Già alle prime parole che scambiammo sentii qualche stonatura, ma la stonatura è la via all’unisono. Devo anzi confessare che pensai: «Ella deve rimanere quale è, poiché così mi piace e sarò io che mi cambierò se essa lo vorrà». In complesso ero ben modesto perché è certamente più facile di mutare sé stesso che non di rieducare altri.

Dopo brevissimo tempo la famiglia Malfenti divenne il centro della mia vita. Ogni sera la passavo con Giovanni che, dopo che m’aveva introdotto in casa sua, s’era fatto con me anche più affabile e intimo. Fu tale affabilità che mi rese invadente. Dapprima feci visita alle sue signore una volta alla settimana, poi più volte e finii coll’andare in casa sua ogni giorno a passarci varie ore del pomeriggio. Per insediarmi in quella casa non mancarono pretesti ed io credo di non sbagliare asserendo che mi fossero anche offerti. Portai talvolta con me il mio violino e passai qualche poco di musica con Augusta, la sola che in quella casa sonasse il piano. Era male che Ada non sonasse, poi era male che io sonassi tanto male il violino e malissimo che Augusta non fosse una grande musicista. Di ogni sonata io ero obbligato di eliminare qualche periodo perché troppo difficile, col pretesto non vero di non aver toccato il violino da troppo tempo. Il pianista è quasi sempre superiore al dilettante violinista e Augusta aveva una tecnica discreta, ma io, che sonavo tanto peggio di lei, non sapevo dirmene contento e pensavo: «Se sapessi sonare come lei, come sonerei meglio!» Intanto ch’io giudicavo Augusta, gli altri giudicavano me e, come appresi più tardi, non favorevolmente. Poi Augusta avrebbe volentieri ripetute le nostre sonate, ma io m’accorsi che Ada vi si annoiava e perciò finsi più volte di aver dimenticato il violino a casa. Augusta allora non ne parlò più.

Purtroppo io non vivevo solo con Ada le ore che passavo in quella casa. Essa ben presto m’accompagnò il giorno intero. Era la donna da me prescelta, era perciò già mia ed io l’adornai di tutti i sogni perché il premio della vita m’apparisse più bello. L’adornai, le prestai tutte le tante qualità di cui sentivo il bisogno e che a me mancavano, perché essa doveva divenire oltre che la mia compagna anche la mia seconda madre che m’avrebbe addotto a una vita intera, virile, di lotta, e di vittoria.

Nei miei sogni anche fisicamente l’abellii prima di consegnarla ad altri. In realtà io nella mia vita corsi dietro a molte donne e molte di esse si lasciarono anche raggiungere. Nel sogno le raggiunsi tutte. Naturalmente non le abbellisco alterandone i tratti, ma faccio come un mio amico, pittore delicatissimo, che quando ritratta delle donne belle, pensa intensamente anche a qualche altra bella cosa per esempio a della porcellana finissima. Un sogno pericoloso perché può conferire nuovo potere alle donne di cui si sognò e che rivedendo alla luce reale conservano qualche cosa delle frutta, dei fiori e della porcellana da cui furono vestite.

M’è difficile di raccontare della mia corte ad Ada. Vi fu poi una lunga epoca della mia vita in cui io mi sforzai di dimenticare la stupida avventura che proprio mi faceva vergognare di quella vergogna che fa gridare e protestare. «Non sono io che fui tanto bestia!». E chi allora? Ma la protesta conferisce pure un po’ di sollievo ed io vi insistetti. Meno male se avessi agito a quel modo un dieci anni prima, a vent’anni! Ma esser stato punito di tanta bestialità solo perché avevo deciso di sposarmi, mi pare proprio ingiusto. Io che già ero passato per ogni specie di avventure condotte sempre con uno spirito intraprendente che arrivava alla sfacciataggine, ecco ch’ero ridivenuto il ragazzetto timido che tenta di toccar la mano dell’amata magari senza ch’essa se ne avveda, eppoi adora quella parte del proprio corpo ch’ebbe l’onore di simile contatto. Questa ch’è stata la più pura avventura della mia vita, anche oggi che son vecchio io la ricordo quale la più turpe. Era fuori di posto, fuori di tempo quella roba, come se un ragazzo di dieci anni si fosse attaccato al petto della balia. Che schifo!

Come spiegare poi la mia lunga esitazione di parlare chiaro e dire alla fanciulla: Risolviti! Mi vuoi o non mi vuoi? Io andavo a quella casa arrivandovi dai miei sogni; contavo gli scalini che mi conducevano a quel primo piano dicendomi che se erano dispari ciò avrebbe provato ch’essa m’amava ed erano sempre dispari essendovene quarantatré. Arrivavo a lei accompagnato da tanta sicurezza e finivo col parlare di tutt’altra cosa. Ada non aveva ancora trovata l’occasione di significarmi il suo disdegno ed io tacevo! Anch’io al posto di Ada avrei accolto quel giovinetto di trent’anni a calci nel sedere!

Devo dire che in certo rapporto io non somigliavo esattamente al ventenne innamorato il quale tace aspettando che l’amata gli si getti al collo. Non m’aspettavo niente di simile. Io avrei parlato, ma più tardi. Se non procedevo, ciò era dovuto ai dubbii su me stesso. Io m’aspettavo di divenire più nobile, più forte, più degno della mia divina fanciulla. Ciò poteva avvenire da un giorno all’altro. Perché non aspettare?

Mi vergogno anche di non essermi accorto a tempo ch’ero avviato ad un fiasco simile. Avevo da fare con una fanciulla delle più semplici e fu a forza di sognarne ch’essa m’apparì quale una civetta delle più consumate. Ingiusto quell’enorme mio rancore quand’essa riuscì a farmi vedere ch’essa di me non ne voleva sapere. Ma io avevo mescolato tanto intimamente la realtà ai sogni che non riuscivo a convincermi ch’essa mai m’avesse baciato.

È proprio un indizio di scarsa virilità quello di fraintendere le donne. Prima non avevo sbagliato mai e devo credere di essermi ingannato sul conto di Ada per avere da bel principio falsati i miei rapporti con lei. A lei m’ero avvicinato non per conquistarla ma per sposarla ciò ch’è una via insolita dell’amore, una via ben larga, una via ben comoda, ma che conduce non alla mèta per quanto ben vicino ad essa. All’amore cui così si giunge manca la caratteristica principale: l’assoggettamento della femmina. Così il maschio si prepara alla sua parte in una grande inerzia che può estendersi a tutti i suoi sensi, anche a quelli della vista e dell’udito.

Io portai giornalmente dei fiori a tutt’e tre le fanciulle e a tutt’e tre regalai le mie bizzarrie e, sopra tutto, con una leggerezza incredibile, giornalmente feci loro la mia autobiografia.

A tutti avviene di ricordarsi con più fervore del passato quando il presente acquista un’importanza maggiore. Dicesi anzi che i moribondi, nell’ultima febbre, rivedano tutta la loro vita. Il mio passato m’afferrava ora con la violenza dell’ultimo addio perché io avevo il sentimento di allontanarmene di molto. E parlai sempre di questo passato alle tre fanciulle, incoraggiato dall’attenzione intensa di Augusta e di Alberta che, forse, copriva la disattenzione di Ada di cui non sono sicuro. Augusta, con la sua indole dolce, facilmente si commoveva e Alberta stava a sentire le mie descrizioni di scapigliatura studentesca con le guancie arrossate dal desiderio di poter in avvenire passare anch’essa per avventure simili.

Molto tempo dopo appresi da Augusta che nessuna delle tre fanciulle aveva creduto che le mie storielle fossero vere. Ad Augusta apparvero perciò più preziose perché, inventate da me, le sembrava fossero più mie che se il destino me le avesse inflitte. Ad Alberta quella parte in cui non credette fu tuttavia gradevole perché vi scorse degli ottimi suggerimenti. La sola che si fosse indignata delle mie bugie fu la seria Ada. Coi miei sforzi a me toccava come a quel tiratore cui era riuscito di colpire il centro del bersaglio, però di quello posto accanto al suo.

Eppure in gran parte quelle storielle erano vere. Non so più dire in quanta parte perché avendole raccontate a tante altre donne prima che alle figlie del Malfenti, esse, senza ch’io lo volessi, si alterarono per divenire più espressive. Erano vere dal momento che io non avrei più saputo raccontarle altrimenti. Oggidì non m’importa di provarne la verità. Non vorrei disingannare Augusta che ama crederle di mia invenzione. In quanto ad Ada io credo che ormai ella abbia cambiato di parere e le ritenga vere.

Il mio totale insuccesso con Ada si manifestò proprio nel momento in cui giudicavo di dover finalmente parlar chiaro. Ne accolsi l’evidenza con sorpresa e dapprima con incredulità. Non era stata detta da lei una sola parola che avesse manifestata la sua avversione per me ed io intanto chiusi gli occhi per non vedere quei piccoli atti che non mi significavano una grande simpatia. Eppoi io stesso non avevo detta la parola necessaria e potevo persino figurarmi che Ada non sapesse ch’io ero là pronto per sposarla e potesse credere che io – lo studente bizzarro e poco virtuoso – volessi tutt’altra cosa.

Il malinteso si prolungava sempre a causa di quelle mie intenzioni troppo decisamente matrimoniali. Vero è che oramai desideravo tutta Ada cui avevo continuato a levigare assiduamente le guancie, a impicciolire le mani e i piedi e ad isveltire e affinare la taglia. La desideravo quale moglie e quale amante. Ma è decisivo il modo con cui si avvicina per la prima volta una donna.

Ora avvenne che per ben tre volte consecutive, in quella casa fossi ricevuto dalle altre due fanciulle. L’assenza di Ada fu scusata la prima volta con una visita doverosa, la seconda con un malessere e la terza non mi si disse alcuna scusa finché io, allarmato, non lo domandai. Allora Augusta, a cui per caso m’ero rivolto, non rispose. Rispose per lei Alberta ch’essa aveva guardata come per invocarne l’assistenza: Ada era andata da una zia.

A me mancò il fiato. Era evidente che Ada mi evitava. Il giorno prima ancora io avevo sopportata la sua assenza ed avevo anzi prolungata la mia visita sperando ch’essa pur avrebbe finito coll’apparire. Quel giorno, invece, restai ancora per qualche istante, incapace di aprir bocca, eppoi protestando un improvviso male di testa m’alzai per andarmene. Curioso che quella prima volta il più forte sentimento che sentissi allo scontrarmi nella resistenza di Ada fosse di collera e sdegno! Pensai anche di appellarmi a Giovanni per mettere la fanciulla all’ordine. Un uomo che vuole sposarsi è anche capace di azioni simili, ripetizioni di quelle dei suoi antenati.

Quella terza assenza di Ada doveva divenire anche più significativa. Il caso volle ch’io scoprissi ch’essa si trovava in casa, ma rinchiusa nella sua stanza.

Devo prima di tutto dire che in quella casa v’era un’altra persona ch’io non ero riuscito a conquistare: la piccola Anna. Dinanzi agli altri essa non m’aggrediva più, perché l’avevano redarguita duramente. Anzi qualche volta anch’essa s’era accompagnata alle sorelle ed era stata a sentire le mie storielle. Quando però me ne andavo, essa mi raggiungeva alla soglia, gentilmente mi pregava di chinarmi a lei, si rizzava sulle punte dei piedini e quando arrivava a far addirittura aderire la boccuccia al mio orecchio, mi diceva abbassando la voce in modo da non poter essere udita che da me:

– Ma tu sei pazzo, veramente pazzo!

Il bello si è che dinanzi agli altri la sorniona mi dava del lei. Se c’era presente la signora Malfenti, essa subito si rifugiava nelle sue braccia, e la madre l’accarezzava dicendo:

– Come la mia piccola Anna s’è fatta gentile! Nevvero?

Non protestavo e la gentile Anna mi diede ancora spesso allo stesso modo del pazzo. Io accoglievo la sua dichiarazione con un sorriso vile che avrebbe potuto sembrare di ringraziamento. Speravo che la bambina non avesse il coraggio di raccontare delle sue aggressioni agli adulti e mi dispiaceva di far sapere ad Ada quale giudizio facesse di me la sua sorellina. Quella bambina finì realmente coll’imbarazzarmi. Se, quando parlavo con gli altri, il mio occhio s’incontrava nel suo, subito dovevo trovare il modo di guardare altrove ed era difficile di farlo con naturalezza. Certo arrossivo. Mi pareva che quell’innocente col suo giudizio potesse danneggiarmi. Le portai dei doni, ma non valsero ad ammansarla. Essa dovette accorgersi del suo potere e della mia debolezza e, in presenza degli altri, mi guardava indagatrice, insolente. Credo che tutti abbiamo nella nostra coscienza come nel nostro corpo dei punti delicati e coperti cui non volentieri si pensa. Non si sa neppure che cosa sieno, ma si sa che vi sono. Io stornavo il mio occhio da quello infantile che voleva frugarmi.

Ma quel giorno in cui solo e abbattuto uscivo da quella casa e ch’essa mi raggiunse per farmi chinare a sentire il solito complimento, mi piegai a lei con tale faccia stravolta di vero pazzo e tesi verso di lei con tanta minaccia le mani contratte ad artigli, ch’essa corse via piangendo ed urlando.

Così arrivai a vedere Ada anche quel giorno perché fu lei che accorse a quei gridi. La piccina raccontò singhiozzando ch’io l’avevo minacciata duramente perché essa m’aveva dato del pazzo:

– Perché egli è un pazzo ed io voglio dirglielo. Cosa c’è di male?

Non stetti a sentire la bambina, stupito di vedere che Ada si trovava in casa. Le sue sorelle avevano dunque mentito, anzi la sola Alberta cui Augusta ne aveva passato l’incarico esimendosene essa stessa! Per un istante fui esattamente nel giusto indovinando tutto. Dissi ad Ada:

– Ho piacere di vederla. Credevo si trovasse da tre giorni da sua zia.

Ella non mi rispose perché dapprima si piegò sulla bambina piangente. Quell’indugio di ottenere le spiegazioni cui credevo di aver diritto mi fece salire veemente il sangue alla testa. Non trovavo parole. Feci un altro passo per avvicinarmi alla porta d’uscita e se Ada non avesse parlato, io me ne sarei andato e non sarei ritornato mai più. Nell’ira mi pareva cosa facilissima quella rinunzia ad un sogno che aveva oramai durato tanto a lungo.

Ma intanto essa, rossa, si volse a me e disse ch’era rientrata da pochi istanti non avendo trovata la zia in casa.

Bastò per calmarmi. Com’era cara, così maternamente piegata sulla bambina che continuava ad urlare! Il suo corpo era tanto flessibile che pareva divenuto più piccolo per accostarsi meglio alla piccina. Mi indugiai ad ammirarla considerandola di nuovo mia.

Mi sentii tanto sereno che volli far dimenticare il risentimento che poco prima avevo manifestato e fui gentilissimo con Ada ed anche con Anna. Dissi ridendo di cuore:

– Mi dà tanto spesso del pazzo che volli farle vedere la vera faccia e l’atteggiamento del pazzo. Voglia scusarmi! Anche tu, povera Annuccia, non aver paura perché io sono un pazzo buono.

Anche Ada fu molto, ma molto gentile. Redarguì la piccina che continuava a singhiozzare e mi domandò scusa per essa. Se avessi avuta la fortuna che Anna nell’ira fosse corsa via, io avrei parlato. Avrei detta una frase che forse si trova anche in qualche grammatica di lingue straniere, bell’e fatta per facilitare la vita a chi non conosca la lingua del paese ove soggiorna: «Posso domandare la sua mano a suo padre?». Era la prima volta ch’io volevo sposarmi e mi trovavo perciò in un paese del tutto sconosciuto. Fino ad allora avevo trattato altrimenti con le donne con cui avevo avuto a fare. Le avevo assaltate mettendo loro prima di tutto addosso le mani.

Ma non arrivai a dire neppure quelle poche parole. Dovevano pur stendersi su un certo spazio di tempo! Dovevano esser accompagnate da un’espressione supplice della faccia, difficile a foggiarsi immediatamente dopo la mia lotta con Anna ed anche con Ada, e dal fondo del corridoio s’avanzava già la signora Malfenti richiamata dalle strida della bambina.

Stesi la mano ad Ada, che mi porse subito cordialmente la sua e le dissi:

– Arrivederci domani. Mi scusi con la signora.

Esitai però di lasciar andare quella mano che riposava fiduciosa nella mia. Sentivo che, andandomene allora, rinunziavo ad un’occasione unica con quella fanciulla tutt’intenta ad usarmi delle cortesie per indennizzarmi delle villanie della sorella. Seguii l’ispirazione del momento, mi chinai sulla sua mano e la sfiorai con le mie labbra. Indi apersi la porta e uscii lesto lesto dopo di aver visto che Ada, che fino ad allora m’aveva abbandonata la destra mentre con la sinistra sosteneva Anna che s’aggrappava alla sua gonna, stupita si guardava la manina che aveva subito il contatto delle mie labbra, quasi avesse voluto vedere se ci fosse stato scritto qualche cosa. Non credo che la signora Malfenti avesse scorto il mio atto.

Mi arrestai per un istante sulle scale, stupito io stesso del mio atto assolutamente non premeditato. V’era ancora la possibilità di ritornare a quella porta che avevo chiusa dietro di me, suonare il campanello e domandar di poter dire ad Ada quelle parole ch’essa sulla propria mano aveva cercato invano? Non mi parve! Avrei mancato di dignità dimostrando troppa impazienza. Eppoi avendola prevenuta che sarei ritornato le avevo preannunziate le mie spiegazioni. Non dipendeva ora che da lei di averle, procurandomi l’opportunità di dargliele. Ecco che avevo finalmente cessato di raccontare delle storie a tre fanciulle e avevo invece baciata la mano ad una sola di esse.

Ma il resto della giornata fu piuttosto sgradevole. Ero inquieto e ansioso. Io andavo dicendomi che la mia inquietudine provenisse solo dall’impazienza di veder chiarita quell’avventura. Mi figuravo che se Ada m’avesse rifiutato, io avrei potuto con tutta calma correre in cerca di altre donne. Tutto il mio attaccamento per lei proveniva da una mia libera risoluzione che ora avrebbe potuto essere annullata da un’altra che la cancellasse! Non compresi allora che per il momento a questo mondo non v’erano altre donne per me e che abbisognavo proprio di Ada.

Anche la notte che seguì mi sembrò lunghissima; la passai quasi del tutto insonne. Dopo la morte di mio padre, io avevo abbandonate le mie abitudini di nottambulo e ora, dacché avevo risolto di sposarmi, sarebbe stato strano di ritornarvi. M’ero perciò coricato di buon’ora col desiderio del sonno che fa passare tanto presto il tempo.

Di giorno io avevo accolte con la più cieca fiducia le spiegazioni di Ada su quelle sue tre assenze dal suo salotto nelle ore in cui io vi era, fiducia dovuta alla mia salda convinzione che la donna seria ch’io avevo scelta non sapesse mentire. Ma nella notte tale fiducia diminuì. Dubitavo che non fossi stato io ad informarla che Alberta – quando Augusta aveva rifiutato di parlare – aveva addotta a sua scusa quella visita alla zia. Non ricordavo bene le parole che le avevo dirette con la testa in fiamme, ma credevo di esser certo di averle riferita quella scusa. Peccato! Se non l’avessi fatto, forse lei, per scusarsi, avrebbe inventato qualche cosa di diverso e io, avendola còlta in bugia, avrei già avuto il chiarimento che anelavo.

Qui avrei pur potuto accorgermi dell’importanza che Ada aveva oramai per me, perché per quietarmi io andavo dicendomi che se essa non m’avesse voluto, avrei rinunziato per sempre al matrimonio. Il suo rifiuto avrebbe dunque mutata la mia vita. E continuavo a sognare confortandomi nel pensiero che forse quel rifiuto sarebbe stato una fortuna per me. Ricordavo quel filosofo greco che prevedeva il pentimento tanto per chi si sposava quanto per chi restava celibe. Insomma non avevo ancora perduta la capacità di ridere della mia avventura; la sola capacità che mi mancasse era quella di dormire.

Presi sonno che già albeggiava. Quando mi destai era tanto tardi che poche ore ancora mi dividevano da quella in cui la visita in casa Malfenti m’era permessa. Perciò non vi sarebbe stato più bisogno di fantasticare e raccogliere degli altri indizii che mi chiarissero l’animo di Ada. Ma è difficile di trattenere il proprio pensiero dall’occuparsi di un argomento che troppo c’importa. L’uomo sarebbe un animale più fortunato se sapesse farlo. In mezzo alle cure della mia persona che quel giorno esagerai, io non pensai ad altro: Avevo fatto bene baciando la mano di Ada o avevo fatto male di non baciarla anche sulle labbra?

Proprio quella mattina ebbi un’idea che credo m’abbia fortemente danneggiato privandomi di quel poco d’iniziativa virile che quel mio curioso stato d’adolescenza m’avrebbe concesso. Un dubbio doloroso: e se Ada m’avesse sposato solo perché indottavi dai genitori, senz’amarmi ed anzi avendo una vera avversione per me? Perché certamente tutti in quella famiglia, cioè Giovanni, la signora Malfenti, Augusta e Alberta mi volevano bene; potevo dubitare della sola Ada. Sull’orizzonte si delineava proprio il solito romanzo popolare della giovinetta costretta dalla famiglia ad un matrimonio odioso. Ma io non l’avrei permesso. Ecco la nuova ragione per cui dovevo parlare con Ada, anzi con la sola Ada. Non sarebbe bastato di dirigerle la frase fatta che avevo preparata. Guardandola negli occhi le avrei domandato: «Mi ami tu?» E se essa m’avesse detto di sì, io l’avrei serrata fra le mie braccia per sentirne vibrare la sincerità.

Così mi parve d’essermi preparato a tutto. Invece dovetti accorgermi d’esser arrivato a quella specie d’esame dimenticando di rivedere proprio quelle pagine di testo di cui mi sarebbe stato imposto di parlare.

Fui ricevuto dalla sola signora Malfenti che mi fece accomodare in un angolo del grande salotto e si mise subito a chiacchierare vivacemente impedendomi persino di domandare delle notizie delle fanciulle. Ero perciò alquanto distratto e mi ripetevo la lezione per non dimenticarla al momento buono. Tutt’ad un tratto fui richiamato all’attenzione come da uno squillo di tromba. La signora stava elaborando un preambolo. M’assicurava dell’amicizia sua e del marito e dell’affetto di tutta la famiglia loro, compresavi la piccola Anna. Ci conoscevamo da tanto tempo. Ci eravamo visti giornalmente da quattro mesi.

– Cinque! – corressi io che ne avevo fatto il calcolo nella notte, ricordando che la mia prima visita era stata fatta d’autunno e che ora ci trovavamo in piena primavera.

– Sì! Cinque! – disse la signora pensandoci su come se avesse voluto rivedere il mio calcolo. Poi, con aria di rimprovero: – A me sembra che voi compromettiate Augusta.

– Augusta? – domandai io credendo di aver sentito male.

– Sì! – confermò la signora. – Voi la lusingate e la compromettete.

Ingenuamente rivelai il mio sentimento.

– Ma io l’Augusta non la vedo mai.

Essa ebbe un gesto di sorpresa e (o mi parve?) di sorpresa dolorosa.

Io intanto tentavo di pensare intensamente per arrivare presto a spiegare quello che mi sembrava un equivoco di cui però subito intesi l’importanza. Mi rivedevo in pensiero, visita per visita, durante quei cinque mesi, intento a spiare Ada. Avevo suonato con Augusta e, infatti, talvolta avevo parlato più con lei, che mi stava a sentire, che non con Ada, ma solo perché essa spiegasse ad Ada le mie storie accompagnate dalla sua approvazione. Dovevo parlare chiaramente con la signora e dirle delle mie mire su Ada? Ma poco prima io avevo risolto di parlare con la sola Ada e d’indagarne l’animo. Forse se avessi parlato chiaramente con la signora Malfenti, le cose sarebbero andate altrimenti e cioè non potendo sposare Ada non avrei sposata neppure Augusta. Lasciandomi dirigere dalla risoluzione presa prima ch’io avessi veduta la signora Malfenti e, sentite le cose sorprendenti ch’essa m’aveva dette, tacqui.

Pensavo intensamente, ma perciò con un po’ di confusione. Volevo intendere, volevo indovinare e presto. Si vedono meno bene le cose quando si spalancano troppo gli occhi. Intravvidi la possibilità che volessero buttarmi fuori di casa. Mi parve di poter escluderla. Io ero innocente, visto che non facevo la corte ad Augusta ch’essi volevano proteggere. Ma forse m’attribuivano delle intenzioni su Augusta per non compromettere Ada. E perché proteggere a quel modo Ada, che non era più una fanciullina? Io ero certo di non averla afferrata per le chiome che in sogno. In realtà non avevo che sfiorata la sua mano con le mie labbra. Non volevo mi si interdicesse l’accesso a quella casa, perché prima di abbandonarla volevo parlare con Ada. Perciò con voce tremante domandai:

– Mi dica Lei, signora, quello che debbo fare per non spiacere a nessuno.

Essa esitò. Io avrei preferito di aver da fare con Giovanni che pensava urlando. Poi, risoluta, ma con uno sforzo di apparire cortese che si manifestava evidente nel suono della voce, disse:

– Dovrebbe per qualche tempo venir meno frequentemente da noi; dunque non ogni giorno, ma due o tre volte alla settimana.

È certo che se mi avesse detto rudemente di andarmene e di non ritornare più, io, sempre diretto dal mio proposito, avrei supplicato che mi si tollerasse in quella casa, almeno per uno o due giorni ancora, per chiarire i miei rapporti con Ada. Invece le sue parole, più miti di quanto avessi temuto, mi diedero il coraggio di manifestare il mio risentimento:

– Ma se lei lo desidera, io in questa casa non riporrò più piede!

Venne quello che avevo sperato. Essa protestò, riparlò della stima di tutti loro e mi supplicò di non essere adirato con lei. Ed io mi dimostrai magnanimo, le promisi tutto quello ch’essa volle e cioè di astenermi dal venire in quella casa per un quattro o cinque giorni, di ritornarvi poi con una certa regolarità ogni settimana due o tre volte e, sopra tutto, di non tenerle rancore.

Fatte tali promesse, volli dar segno di tenerle e mi levai per allontanarmi. La signora protestò ridendo:

– Con me non c’è poi compromissione di sorta e può rimanere.

E poiché io pregavo di lasciarmi andare per un impegno di cui solo allora m’ero ricordato, mentre era vero che non vedevo l’ora di essere solo per riflettere meglio alla straordinaria avventura che mi toccava, la signora mi pregò addirittura di rimanere dicendo che così le avrei data la prova di non essere adirato con lei. Perciò rimasi, sottoposto continuamente alla tortura di ascoltare il vuoto cicaleccio cui la signora ora s’abbandonava sulle mode femminili ch’essa non voleva seguire, sul teatro e anche sul tempo tanto secco con cui la primavera s’annunziava.

Poco dopo fui contento d’essere rimasto perché m’avvidi che avevo bisogno di un ulteriore chiarimento. Senz’alcun riguardo interruppi la signora, di cui non sentivo più le parole, per domandarle:

– E tutti in famiglia sapranno che lei m’ha invitato a tenermi lontano da questa casa?

Parve dapprima ch’essa neppure avesse ricordato il nostro patto. Poi protestò:

– Lontano da questa casa? Ma solo per qualche giorno, intendiamoci. Io non ne dirò a nessuno, neppure a mio marito ed anzi le sarei grata se anche lei volesse usare la stessa discrezione.

Anche questo promisi, promisi anche che se mi fosse stata chiesta una spiegazione perché non mi si vedesse più tanto di spesso, avrei addotti dei pretesti varii. Per il momento prestai fede alle parole della signora e mi figurai che Ada potesse essere stupita e addolorata dalla mia improvvisa assenza. Un’immagine gradevolissima!

Poi rimasi ancora, sempre aspettando che qualche altra ispirazione venisse a dirigermi ulteriormente, mentre la signora parlava dei prezzi dei commestibili nell’ultimo tempo divenuti onerosissimi.

Invece di altre ispirazioni, capitò la zia Rosina, una sorella di Giovanni, più vecchia di lui, ma di lui molto meno intelligente. Aveva però qualche tratto della sua fisonomia morale bastevole a caratterizzarla quale sua sorella. Prima di tutto la stessa coscienza dei proprii diritti e dei doveri altrui alquanto comica, perché priva di qualsiasi arma per imporsi, eppoi anche il vizio di alzare presto la voce. Essa credeva di aver tanti diritti nella casa del fratello che – come appresi poi – per lungo tempo considerò la signora Malfenti quale un’intrusa. Era nubile e viveva con un’unica serva di cui parlava sempre come della sua più grande nemica. Quando morì raccomandò a mia moglie di sorvegliare la casa finché la serva che l’aveva assistita non se ne fosse andata. Tutti in casa di Giovanni la sopportavano temendo la sua aggressività.

Ancora non me ne andai. Zia Rosina prediligeva Ada fra le nipoti. Mi venne il desiderio di conquistarmene l’amicizia anch’io e cercai una frase amabile a indirizzarle. Mi ricordai oscuramente che l’ultima volta in cui l’avevo vista (cioè intravvista, perché allora non avevo sentito il bisogno di guardarla) le nipoti, non appena essa se ne era andata, avevano osservato che non aveva una buona cera. Anzi una di esse aveva detto:

– Si sarà guastato il sangue per qualche rabbia con la serva!

Trovai quello che cercavo. Guardando affettuosamente il faccione grinzoso della vecchia signora, le dissi:

– La trovo molto rimessa, signora.

Non avessi mai detta quella frase. Mi guardò stupita e protestò:

– Io sono sempre uguale. Da quando mi sarei rimessa?

Voleva sapere quando l’avessi vista l’ultima volta. Non ricordavo esattamente quella data e dovetti ricordarle che avevamo passato un intero pomeriggio insieme, seduti in quello stesso salotto con le tre signorine, ma non dalla parte dove eravamo allora, dall’altra. Io m’ero proposto di dimostrarle dell’interessamento, ma le spiegazioni ch’essa esigeva lo facevano durare troppo a lungo. La mia falsità mi pesava producendomi un vero dolore.

La signora Malfenti intervenne sorridendo:

– Ma lei non voleva mica dire che zia Rosina è ingrassata?

Diavolo! Là stava la ragione del risentimento di zia Rosina ch’era molto grossa come il fratello e sperava tuttavia di dimagrire.

– Ingrassata! Mai più! Io volevo parlare solo della cera migliore della signora.

Tentavo di conservare un aspetto affettuoso e dovevo invece trattenermi per non dirle un’insolenza.

Zia Rosina non parve soddisfatta neppur allora. Essa non era mai stata male nell’ultimo tempo e non capiva perché avesse dovuto apparire malata. E la signora Malfenti le diede ragione:

– Anzi, è una sua caratteristica di non mutare di cera – disse rivolta a me. – Non le pare?

A me pareva. Era anzi evidente. Me ne andai subito. Porsi con grande cordialità la mano a zia Rosina sperando di rabbonirla, ma essa mi concedette la sua guardando altrove.

Non appena ebbi varcata la soglia di quella casa il mio stato d’animo mutò. Che liberazione! Non avevo più da studiare le intenzioni della signora Malfenti né di forzarmi di piacere alla zia Rosina. Credo in verità che se non ci fosse stato il rude intervento di zia Rosina, quella politicona della signora Malfenti avrebbe raggiunto perfettamente il suo scopo ed io mi sarei allontanato da quella casa tutto contento di essere stato trattato bene. Corsi saltellando giù per le scale. Zia Rosina era stata quasi un commento della signora Malfenti. La signora Malfenti m’aveva proposto di restar lontano dalla sua casa per qualche giorno. Troppo buona la cara signora! Io l’avrei compiaciuta al di là delle sue aspettative e non m’avrebbe rivisto mai più! M’avevano torturato, lei, la zia ed anche Ada! Con quale diritto? Perché avevo voluto sposarmi? Ma io non ci pensavo più! Com’era bella la libertà!

Per un buon quarto d’ora corsi per le vie accompagnato da tanto sentimento. Poi sentii il bisogno di una libertà ancora maggiore. Dovevo trovare il modo di segnare in modo definitivo la mia volontà di non rimettere più il piede in quella casa. Scartai l’idea di scrivere una lettera con la quale mi sarei congedato. L’abbandono diveniva più sdegnoso ancora se non ne comunicavo l’intenzione. Avrei semplicemente dimenticato di vedere Giovanni e tutta la sua famiglia.

Trovai l’atto discreto e gentile e perciò un po’ ironico col quale avrei segnata la mia volontà. Corsi da un fioraio e scelsi un magnifico mazzo di fiori che indirizzai alla signora Malfenti accompagnato dal mio biglietto da visita sul quale non scrissi altro che la data. Non occorreva altro. Era una data che non avrei dimenticata più e non l’avrebbero dimenticata forse neppure Ada e sua madre: 5 Maggio, anniversario della morte di Napoleone.

Provvidi in fretta a quell’invio. Era importantissimo che giungesse il giorno stesso.

Ma poi? Tutto era fatto, tutto, perché non c’era più nulla da fare! Ada restava segregata da me con tutta la sua famiglia ed io dovevo vivere senza fare più nulla, in attesa che qualcuno di loro fosse venuto a cercarmi e darmi l’occasione di fare o dire qualche cosa d’altro.

Corsi al mio studio per riflettere e per rinchiudermi. Se avessi ceduto alla mia dolorosa impazienza, subito sarei ritornato di corsa a quella casa a rischio di arrivarvi prima del mio mazzo di fiori. I pretesti non potevano mancare. Potevo anche averci dimenticato il mio ombrello!

Non volli fare una cosa simile. Con l’invio di quel mazzo di fiori io avevo assunta una bellissima attitudine che bisognava conservare. Dovevo ora stare fermo, perché la prossima mossa toccava a loro.

Il raccoglimento ch’io mi procurai nel mio studiolo e da cui m’aspettavo un sollievo, chiarì solo le ragioni della mia disperazione che s’esasperò fino alle lagrime. Io amavo Ada! Non sapevo ancora se quel verbo fosse proprio e continuai l’analisi. Io la volevo non solo mia, ma anche mia moglie. Lei, con quella sua faccia marmorea sul corpo acerbo, eppoi ancora lei con la sua serietà, tale da non intendere il mio spirito che non le avrei insegnato, ma cui avrei rinunziato per sempre, lei che m’avrebbe insegnata una vita d’intelligenza e di lavoro. Io la volevo tutta e tutto volevo da lei. Finii col conchiudere che il verbo fosse proprio quello: Io amavo Ada.

Mi parve di aver pensata una cosa molto importante che poteva guidarmi. Via le esitazioni! Non importava più di sapere se ella mi amasse. Bisognava tentare di ottenerla e non occorreva più parlare con lei se Giovanni poteva disporne. Prontamente bisognava chiarire tutto per arrivare subito alla felicità o altrimenti dimenticare tutto e guarire. Perché avevo da soffrire tanto nell’attesa? Quando avessi saputo – e potevo saperlo solo da Giovanni – che io definitivamente avevo perduta Ada, almeno non avrei più dovuto lottare col tempo che sarebbe continuato a trascorrere lentamente senza ch’io sentissi il bisogno di sospingerlo. Una cosa definitiva è sempre calma perché staccata dal tempo.

Corsi subito in cerca di Giovanni. Furono due le corse. Una verso il suo ufficio situato in quella via che noi continuiamo a dire delle Case Nuove, perché così facevano i nostri antenati. Alte vecchie case che offuscano una via tanto vicina alla riva del mare poco frequentata all’ora del tramonto, e dove potei procedere rapido. Non pensai, camminando, che a preparare più brevemente che fosse possibile la frase che dovevo dirigergli. Bastava dirgli la mia determinazione di sposare sua figlia. Non avevo né da conquiderlo né da convincerlo. Quell’uomo d’affari avrebbe saputa la risposta da darmi non appena intesa la mia domanda. Mi preoccupava tuttavia la quistione se in un’occasione simile avrei dovuto parlare in lingua o in dialetto.

Ma Giovanni aveva già abbandonato l’ufficio e s’era recato al Tergesteo. Mi vi avviai. Più lentamente perché sapevo che alla Borsa dovevo attendere più tempo per potergli parlare da solo a solo. Poi, giunto in via Cavana, dovetti rallentare per la folla che ostruiva la stretta via. E fu proprio battendomi per passare traverso a quella folla, che ebbi finalmente come in una visione la chiarezza che da tante ore cercavo. I Malfenti volevano ch’io sposassi Augusta e non volevano ch’io sposassi Ada e ciò per la semplice ragione che Augusta era innamorata di me e Ada niente affatto. Niente affatto perché altrimenti non sarebbero intervenuti a dividerci. M’avevano detto ch’io compromettevo Augusta, ma era invece lei che si comprometteva amandomi. Compresi tutto in quel momento, con viva chiarezza, come se qualcuno della famiglia me l’avesse detto. E indovinai anche che Ada era d’accordo ch’io fossi allontanato da quella casa. Essa non m’amava e non m’avrebbe amato almeno finché la sorella sua m’avesse amato. Nell’affollata via Cavana avevo dunque pensato più dirittamente che nel mio studio solitario.

Oggidì, quando ritorno al ricordo di quei cinque giorni memorandi che mi condussero al matrimonio, mi stupisce il fatto che il mio animo non si sia mitigato all’apprendere che la povera Augusta mi amava. Io, ormai scacciato da casa Malfenti, amavo Ada irosamente. Perché non mi diede alcuna soddisfazione la visione chiara che la signora Malfenti m’aveva allontanato invano, perché io in quella casa rimanevo, e vicinissimo ad Ada, cioè nel cuore di Augusta? A me pareva invece una nuova offesa l’invito della signora Malfenti di non compromettere Augusta e cioè di sposarla. Per la brutta fanciulla che m’amava, avevo tutto il disdegno che non ammettevo avesse per me la sua bella sorella, che io amavo.

Accelerai ancora il passo, ma deviai e mi diressi verso casa mia. Non avevo più bisogno di parlare con Giovanni perché sapevo ormai chiaramente come condurmi; con un’evidenza tanto disperante che forse finalmente m’avrebbe data la pace staccandomi dal tempo troppo lento. Era anche pericoloso parlarne con quel maleducato di Giovanni. La signora Malfenti aveva parlato in modo ch’io non l’avevo intesa che là in via Cavana. Il marito era capace di comportarsi altrimenti. Forse m’avrebbe detto addirittura: «Perché vuoi sposare Ada? Vediamo! Non faresti meglio di sposare Augusta?». Perché egli aveva un assioma che ricordavo e che avrebbe potuto guidarlo in questo caso: «Devi sempre spiegare chiaramente l’affare al tuo avversario perché allora appena sarai sicuro d’intenderlo meglio di lui!». E allora? Ne sarebbe conseguita un’aperta rottura. Solo allora il tempo avrebbe potuto camminare come voleva, perché io non avrei più avuta alcuna ragione d’ingerirmene: sarei arrivato al punto fermo!

Ricordai anche un altro assioma di Giovanni e mi vi attaccai perché mi procurava una grande speranza. Seppi restarvi attaccato per cinque giorni, per quei cinque giorni che convertirono la mia passione in malattia. Giovanni soleva dire che non bisogna aver fretta di arrivare alla liquidazione di un affare quando da questa liquidazione non si può attendersi un vantaggio: ogni affare arriva prima o poi da sé alla liquidazione, come lo prova il fatto che la storia del mondo è tanto lunga e che tanto pochi affari sono rimasti in sospeso. Finché non si è proceduti alla sua liquidazione, ogni affare può ancora evolversi vantaggiosamente.

Non ricordai che v’erano altri assiomi di Giovanni che dicevano il contrario e m’attaccai a quello. Già a qualche cosa dovevo pur attaccarmi. Feci il proposito ferreo di non movermi finché non avessi appreso che qualche cosa di nuovo avesse fatto evolvere il mio affare in mio favore. E ne ebbi tale danno che forse per questo, in seguito, nessun mio proposito m’accompagnò per tanto tempo.

Non appena fatto il proposito, ricevetti un biglietto dalla signora Malfenti. Ne riconobbi la scrittura sulla busta e, prima di aprirlo, mi lusingai fosse bastato quel mio proposito ferreo, perché essa si pentisse di avermi maltrattato e mi corresse dietro. Quando trovai che non conteneva che le lettere p. r. che significavano il ringraziamento per i fiori che le avevo inviati, mi disperai, mi gettai sul mio letto e ficcai i denti nel guanciale quasi per inchiodarmivi e impedirmi di correr via a rompere il mio proposito. Quanta ironica serenità risultava da quelle iniziali! Ben maggiore di quella espressa dalla data ch’io avevo apposta al mio biglietto e che significava già un proposito e forse anche un rimprovero. Remember aveva detto Carlo I. prima che gli tagliassero il collo e doveva aver pensata la data di quel giorno! Anch’io avevo esortata la mia avversaria a ricordare e temere!

Furono cinque giorni e cinque notti terribili ed io ne sorvegliai le albe e i tramonti che significavano fine e principio e avvicinavano l’ora della mia libertà, la libertà di battermi di nuovo per il mio amore.

Mi preparavo a quella lotta. Oramai sapevo come la mia fanciulla voleva io fossi fatto. M’è facile di ricordarmi dei propositi che feci allora, prima di tutto perché ne feci d’identici in epoca più recente, eppoi perché li annotai su un foglio di carta che conservo tuttora. Mi proponevo di diventare più serio. Ciò significava allora di non raccontare quelle barzellette che facevano ridere e mi diffamavano, facendomi anche amare dalla brutta Augusta e disprezzare dalla mia Ada. Poi v’era il proponimento di essere ogni mattina alle otto nel mio ufficio che non vedevo da tanto tempo, non per discutere sui miei diritti con l’Olivi, ma per lavorare con lui e poter assumere a suo tempo la direzione dei miei affari. Ciò doveva essere attuato in un’epoca più tranquilla di quella, come dovevo anche cessar di fumare più tardi, cioè quando avessi riavuta la mia libertà, perché non bisognava peggiorare quell’orribile intervallo. Ad Ada spettava un marito perfetto. Perciò v’erano anche varii proponimenti di dedicarmi a letture serie, eppoi di passare ogni giorno una mezz’oretta sulla pedana e di cavalcare un paio di volte alla settimana. Le ventiquattr’ore della giornata non erano troppe.

Durante quei giorni di segregazione la gelosia più amara fu la mia compagna di tutte le ore. Era un proposito eroico quello di voler correggersi di ogni difetto per prepararsi a conquistare Ada dopo qualche settimana. Ma intanto? Intanto ch’io m’assoggettavo alla più dura constrizione, si sarebbero tenuti tranquilli gli altri maschi della città e non avrebbero cercato di portarmi via la mia donna? Fra di loro v’era certamente qualcuno che non aveva bisogno di tanto esercizio per essere gradito. Io sapevo, io credevo di sapere che quando Ada avesse trovato chi faceva al caso suo, avrebbe subito consentito senza attendere di innamorarsi. Quando in quei giorni io m’imbattevo in un maschio ben vestito, sano e sereno, l’odiavo, perché mi pareva facesse al caso di Ada. Di quei giorni, la cosa che meglio ricordo è la gelosia che s’era abbassata come una nebbia sulla mia vita.

Dell’atroce dubbio di vedermi portar via Ada in quei giorni non si può ridere, ormai che si sa come le cose andarono a finire. Quando ripenso a quei giorni di passione sento un’ammirazione grande per la profetica anima mia.

Varie volte, di notte, passai sotto alle finestre di quella casa. Lassù apparentemente continuavano a divertirsi come quando c’ero stato anch’io. Alla mezzanotte o poco prima, nel salotto si spegnevano i lumi. Scappavo pel timore di essere scorto da qualche visitatore che allora doveva lasciare la casa.

Ma ogni ora di quei giorni fu affannosa anche per l’impazienza. Perché nessuno domandava di me? Perché non si moveva Giovanni? Non doveva egli meravigliarsi di non vedermi né a casa sua né al Tergesteo? Dunque era d’accordo anche lui ch’io fossi stato allontanato? Interrompevo spesso le mie passeggiate di giorno e di notte per correre a casa ad accertarmi che nessuno fosse venuto a domandare di me. Non sapevo andare a letto nel dubbio, e destavo per interrogarla la povera Maria. Restavo per ore ad aspettare in casa, nel luogo ove ero più facilmente raggiungibile. Ma nessuno domandò di me ed è certo che se non mi fossi risolto a movermi io, sarei tuttavia celibe.

Una sera andai a giocare al club. Era da molti anni che non mi vi facevo vedere per rispetto ad una promessa fatta a mio padre. Mi pareva che la promessa non potesse più valere poiché mio padre non poteva aver previste tali mie dolorose circostanze e l’urgente mia necessità di procurarmi uno svago. Dapprima guadagnai con una fortuna che mi dolse perché mi parve un indennizzo della mia sfortuna in amore. Poi perdetti e mi dolse ancora perché mi parve di soggiacere al giuoco com’ero soggiaciuto all’amore. Ebbi presto disgusto del giuoco: non era degno di me e neppure di Ada. Tanto puro mi rendeva quell’amore!

Di quei giorni so anche che i sogni d’amore erano stati annientati da quella realtà tanto rude. Il sogno era oramai tutt’altra cosa. Sognavo la vittoria invece che l’amore. Il mio sonno fu una volta abbellito da una visita di Ada. Era vestita di sposa e veniva con me all’altare, ma quando fummo lasciati soli non facemmo all’amore, neppure allora. Ero suo marito e avevo acquistato il diritto di domandarle: «Come hai potuto permettere ch’io fossi trattato così?» Di altro diritto non mi premeva.

Trovo in un mio cassetto degli abbozzi di lettere ad Ada, a Giovanni e alla signora Malfenti. Sono di quei giorni. Alla signora Malfenti scrivevo una lettera semplice con la quale prendevo congedo prima d’intraprendere un lungo viaggio. Non ricordo però di aver avuto una tale intenzione: non potevo lasciare la città quando non ero ancora certo che nessuno sarebbe venuto a cercarmi. Quale sventura se fossero venuti e non m’avessero trovato! Nessuna di quelle lettere è stata inviata. Credo anzi le avessi scritte solo per mettere in carta i miei pensieri.

Da molti anni io mi consideravo malato, ma di una malattia che faceva soffrire piuttosto gli altri che me stesso. Fu allora che conobbi la malattia «dolente», una quantità di sensazioni fisiche sgradevoli che mi resero tanto infelice.

S’iniziarono così. Alla una di notte circa, incapace di prendere sonno, mi levai e camminai nella mite notte finché non giunsi ad un caffè di sobborgo nel quale non ero mai stato e dove perciò non avrei trovato alcun conoscente, ciò che mi era molto gradito perché volevo continuarvi una discussione con la signora Malfenti, cominciata a letto e nella quale non volevo che nessuno si frammettesse. La signora Malfenti m’aveva fatti dei rimproveri nuovi. Diceva ch’io avevo tentato di «giocar di pedina» con le sue figliuole. Intanto se avevo tentato una cosa simile l’avevo certamente fatto con la sola Ada. Mi venivano i sudori freddi al pensare che forse in casa Malfenti oramai mi si movessero dei rimproveri simili. L’assente ha sempre torto e potevano aver approfittato della mia lontananza per associarsi ai miei danni. Nella viva luce del caffè mi difendevo meglio. Certo talvolta io avrei voluto toccare col mio piede quello di Ada ed una volta anzi m’era parso di averlo raggiunto, lei consenziente. Poi però risultò che avevo premuto il piede di legno del tavolo e quello non poteva aver parlato.

Fingevo di pigliar interesse al gioco del biliardo. Un signore, appoggiato ad una gruccia, s’avvicinò e venne a sedere proprio accanto a me. Ordinò una spremuta e poiché il cameriere aspettava anche i miei ordini, per distrazione ordinai una spremuta anche per me ad onta ch’io non possa soffrire il sapore del limone. Intanto la gruccia appoggiata al sofà su cui sedevamo, scivolò a terra ed io mi chinai a raccoglierla con un movimento quasi istintivo.

– Oh, Zeno! – fece il povero zoppo riconoscendomi nel momento in cui voleva ringraziarmi.

– Tullio! – esclamai io sorpreso e tendendogli la mano. Eravamo stati compagni di scuola e non ci eravamo visti da molti anni. Sapevo di lui che, finite le scuole medie, era entrato in una banca, dove occupava un buon posto.

Ero tuttavia tanto distratto che bruscamente gli domandai come fosse avvenuto ch’egli aveva la gamba destra troppo corta così da aver bisogno della gruccia.

Di buonissimo umore, egli mi raccontò che sei mesi prima s’era ammalato di reumatismi che avevano finito col danneggiargli la gamba.

M’affrettai di suggerirgli molte cure. È il vero modo per poter simulare senza grande sforzo una viva partecipazione Egli le aveva fatte tutte. Allora suggerii ancora:

– E perché a quest’ora non sei ancora a letto? A me non pare che ti possa far bene di esporti all’aria notturna.

Egli scherzò bonariamente: riteneva che neppure a me l’aria notturna potesse giovare e riteneva che chi non soffriva di reumatismi, finché aveva vita, poteva ancora procurarseli. Il diritto di andare a letto alle ore piccole era ammesso persino dalla costituzione austriaca. Del resto, contrariamente all’opinione generale, il caldo e il freddo non avevano a che fare coi reumatismi. Egli aveva studiata la sua malattia ed anzi non faceva altro a questo mondo che studiarne le cause e i rimedi. Più che per la cura aveva avuto bisogno di un lungo permesso dalla banca per poter approfondirsi in quello studio. Poi mi raccontò che stava facendo una cura strana. Mangiava ogni giorno una quantità enorme di limoni. Quel giorno ne aveva ingoiati una trentina, ma sperava con l’esercizio di arrivare a sopportarne anche di più. Mi confidò che i limoni secondo lui erano buoni anche per molte altre malattie. Dacché li prendeva sentiva meno fastidio per il fumare esagerato, al quale anche lui era condannato.

Io ebbi un brivido alla visione di tanto acido, ma, subito dopo, una visione un po’ più lieta della vita: i limoni non mi piacevano, ma se mi avessero data la libertà di fare quello che dovevo o volevo senz’averne danno e liberandomi da ogni altra costrizione, ne avrei ingoiati altrettanti anch’io. È libertà completa quella di poter fare ciò che si vuole a patto di fare anche qualche cosa che piaccia meno. La vera schiavitù è la condanna all’astensione: Tantalo e non Ercole.

Poi Tullio finse anche lui di essere ansioso di mie notizie. Io ero ben deciso di non raccontargli del mio amore infelice, ma abbisognavo di uno sfogo. Parlai con tale esagerazione dei miei mali (così li registrai e sono sicuro ch’erano lievi) che finii con l’avere le lagrime agli occhi, mentre Tullio andava sentendosi sempre meglio credendomi più malato di lui.

Mi domandò se lavoravo. Tutti in città dicevano ch’io non facevo niente ed io temevo egli avesse da invidiarmi mentre in quell’istante avevo l’assoluto bisogno di essere commiserato. Mentii! Gli raccontai che lavoravo nel mio ufficio, non molto, ma giornalmente almeno per sei ore e che poi gli affari molto imbrogliati ereditati da mio padre e da mia madre mi davano da fare per altre sei ore.

– Dodici ore! – commentò Tullio, e con un sorriso soddisfatto, mi concedette quello che ambivo, la sua commiserazione: – Non sei mica da invidiare, tu!

La conclusione era esatta ed io ne fui tanto commosso che dovetti lottare per non lasciar trapelare le lagrime. Mi sentii più infelice che mai e, in quel morbido stato di compassione di me stesso, si capisce io sia stato esposto a delle lesioni.

Tullio s’era rimesso a parlare della sua malattia ch’era anche la sua principale distrazione. Aveva studiato l’anatomia della gamba e del piede. Mi raccontò ridendo che quando si cammina con passo rapido, il tempo in cui si svolge un passo non supera il mezzo secondo e che in quel mezzo secondo si movevano nientemeno che cinquantaquattro muscoli. Trasecolai e subito corsi col pensiero alle mie gambe a cercarvi la macchina mostruosa. Io credo di avercela trovata. Naturalmente non riscontrai i cinquantaquattro ordigni, ma una complicazione enorme che perdette il suo ordine dacché io vi ficcai la mia attenzione.

Uscii da quel caffè zoppicando e per alcuni giorni zoppicai sempre. Il camminare era per me divenuto un lavoro pesante, e anche lievemente doloroso. A quel groviglio di congegni pareva mancasse ormai l’olio e che, movendosi, si ledessero a vicenda. Pochi giorni appresso, fui colto da un male più grave di cui dirò e che diminuì il primo. Ma ancora oggidì, che ne scrivo, se qualcuno mi guarda quando mi movo, i cinquantaquattro movimenti s’imbarazzano ed io sono in procinto di cadere.

Anche questa lesione io la devo ad Ada. Molti animali diventano preda dei cacciatori o di altri animali quando sono in amore. Io fui allora preda della malattia e sono certo che se avessi appreso della macchina mostruosa in altro momento, non ne avrei avuto alcun danno.

Qualche segno su un foglio di carta che conservai, mi ricorda un’altra strana avventura di quei giorni. Oltre all’annotazione di un’ultima sigaretta accompagnata dall’espressione della fiducia di poter guarire della malattia dei cinquantaquattro movimenti, v’è un tentativo di poesia… su una mosca. Se non sapessi altrimenti, crederei che quei versi provengano da una signorina dabbene che dà del tu agl’insetti di cui canta, ma visto che sono stati stesi da me, devo credere che poiché io sono passato per di là, tutti possano capitare dappertutto.

Ecco come quei versi nacquero. A tarda notte ero ritornato a casa e invece che coricarmi m’ero recato nel mio studiolo ove avevo acceso il gas. Alla luce una mosca si mise a tormentarmi. Riuscii a darle un colpo, lieve però per non insudiciarmi. La dimenticai, ma poi la rividi in mezzo al tavolo come lentamente si rimetteva. Era ferma, eretta e pareva più alta di prima perché una delle sue zampine era stata anchilosata e non poteva flettersi. Con le due zampine posteriori si lisciava assiduamente le ali. Tentò di moversi, ma si ribaltò sulla schiena. Si rizzò e ritornò ostinata al suo assiduo lavoro.

Scrissi allora quei versi, stupito di aver scoperto che quel piccolo organismo pervaso da tanto dolore, fosse diretto nel suo sforzo immane da due errori: prima di tutto lisciando con tanta ostinazione le ali che non erano lese, l’insetto rivelava di non sapere da quale organo venisse il suo dolore; poi l’assiduità del suo sforzo dimostrava che c’era nella sua minuscola mente la fede fondamentale che la salute spetti a tutti e che debba certamente ritornare quando ci ha lasciato. Erano errori che si possono facilmente scusare in un insetto che non vive che la vita di una sola stagione, e non ha tempo di far dell’esperienza.

Ma venne la domenica. Scadeva il quinto giorno dalla mia ultima visita in casa Malfenti. Io, che lavoro tanto poco, conservai sempre un grande rispetto per il giorno festivo che divide la vita in periodi brevi che la rendono più sopportabile. Quel giorno festivo chiudeva anche una mia settimana faticosa e me ne competeva la gioia. Io non cambiai per nulla i miei piani ma per quel giorno non dovevano valere ed io avrei rivista Ada. Non avrei compromessi quei piani con alcuna parola, ma dovevo rivederla perché c’era anche la possibilità che l’affare si fosse già cambiato in mio favore ed allora sarebbe stato un bel danno di continuar a soffrire senza scopo.

Perciò, a mezzodì, con la fretta che le mie povere gambe mi concedevano, corsi in città e sulla via che sapevo la signora Malfenti e le figliuole dovevano percorrere al ritorno dalla messa. Era una festa piena di sole e, camminando, pensai che forse in città m’aspettava la novità attesa, l’amore di Ada!

Non fu così, ma per un altro istante n’ebbi l’illusione. La fortuna mi favorì in modo incredibile. M’imbattei faccia a faccia in Ada, nella sola Ada. Mi mancò il passo e il fiato. Che fare? Il mio proponimento avrebbe voluto che mi tirassi in disparte e la lasciassi passare con un saluto misurato. Ma nella mia mente ci fu un po’ di confusione perché prima c’erano stati altri proponimenti tra cui uno che ricordavo secondo il quale avrei dovuto parlarle chiaro e apprendere dalla sua bocca il mio destino. Non mi trassi in disparte e quand’ella mi salutò come se ci fossimo lasciati cinque minuti prima, io m’accompagnai a lei.

Ella mi aveva detto:

– Buon giorno, signor Cosini! Ho un po’ fretta.

Ed io:

– Mi permette di accompagnarla per un tratto?

Ella accettò sorridendo. Ma dunque avrei dovuto parlarle? Ella aggiunse che andava direttamente a casa sua, perciò compresi che non avevo a disposizione che cinque minuti per parlare ed anche di quel tempo ne perdetti una parte a calcolare se sarebbe bastato per le cose importanti che dovevo dirle. Meglio non dirle che non dirle interamente. Mi confondeva anche il fatto che allora nella nostra città, per una fanciulla, era già un’azione compromettente quella di lasciarsi accompagnare sulla via da un giovanotto. Ella me lo permetteva. Non potevo già accontentarmi? Intanto la guardavo, tentando di sentir di nuovo intero il mio amore annebbiatosi nell’ira e nel dubbio. Riavrei almeno i miei sogni? Ella m’appariva piccola e grande nello stesso tempo, nell’armonia delle sue linee. I sogni ritornavano in folla anche accanto a lei, reale. Era il mio modo di desiderare e vi ritornai con gioia intensa. Spariva dal mio animo qualunque traccia d’ira o di rancore.

Ma dietro di noi si sentì un’invocazione esitante:

– Se permette, signorina!

Mi volsi indignato. Chi osava interrompere le spiegazioni che non avevo ancora iniziate? Un signorino imberbe, bruno e pallido, la guardava con occhi ansiosi. A mia volta guardai Ada nella folle speranza ch’essa invocasse il mio aiuto. Sarebbe bastato un suo segno ed io mi sarei gettato su quell’individuo a domandargli ragione della sua audacia. E magari avesse insistito. I miei mali sarebbero stati guariti subito se mi fosse stato concesso d’abbandonarmi ad un atto brutale di forza.

Ma Ada non fece quel segno. Con un sorriso spontaneo perché mutava lievemente il disegno delle guancie e della bocca ma anche la luce dell’occhio, ella gli stese la mano:

– Il signor Guido!

Quel prenome mi fece male. Ella, poco prima, mi aveva chiamato col nome mio di famiglia.

Guardai meglio quel signor Guido. Era vestito con un’eleganza ricercata e teneva nella destra inguantata un bastone dal manico d’avorio lunghissimo, che io non avrei portato neppure se m’avessero pagato perciò una somma per ogni chilometro. Non mi rimproverai di aver potuto vedere in una simile persona una minaccia per Ada. Vi sono dei loschi figuri che vestono elegantemente e portano anche di tali bastoni.

Il sorriso di Ada mi ricacciò nei più comuni rapporti mondani. Ada fece la presentazione. E sorrisi anch’io! Il sorriso di Ada ricordava un poco l’increspatura di un’acqua limpida sfiorata da una lieve brezza. Anche il mio ricordava un simile movimento, ma prodotto da un sasso che fosse stato gettato nell’acqua.

Si chiamava Guido Speier. Il mio sorriso si fece più spontaneo perché subito mi si presentava l’occasione di dirgli qualche cosa di sgradevole:

– Lei è tedesco?

Cortesemente egli mi disse che riconosceva che al nome tutti potevano crederlo tale. Invece i documenti della sua famiglia provavano ch’essa era italiana da varii secoli. Egli parlava il toscano con grande naturalezza mentre io e Ada eravamo condannati al nostro dialettaccio.

Lo guardavo per sentire meglio quello ch’egli diceva. Era un bellissimo giovine: le labbra naturalmente socchiuse lasciavano vedere una bocca di denti bianchi e perfetti. L’occhio suo era vivace ed espressivo e, quando s’era scoperto il capo, avevo potuto vedere che i suoi capelli bruni e un po’ ricciuti, coprivano tutto lo spazio che madre natura aveva loro destinato, mentre molta parte della mia testa era stata invasa dalla fronte.

Io l’avrei odiato anche se Ada non fosse stata presente, ma soffrivo di quell’odio e cercai di attenuarlo. Pensai: – È troppo giovine per Ada. – E pensai poi che la confidenza e la gentilezza ch’essa gli usava fossero dovute ad un ordine del padre. Forse era un uomo importante per gli affari del Malfenti e a me era parso che in simili casi tutta la famiglia fosse obbligata alla collaborazione. Gli domandai:

– Ella si stabilisce a Trieste?

Mi rispose che vi si trovava da un mese e che vi fondava una casa commerciale. Respirai! Potevo aver indovinato.

Camminavo zoppicando, ma abbastanza disinvolto, vedendo che nessuno se ne accorgeva. Guardavo Ada e tentavo di dimenticare tutto il resto compreso l’altro che ci accompagnava. In fondo io sono l’uomo del presente e non penso al futuro quando esso non offuschi il presente con ombre evidenti. Ada camminava fra noi due e aveva sulla faccia, stereotipata, un’espressione vaga di lietezza che arrivava quasi al sorriso. Quella lietezza mi pareva nuova. Per chi era quel sorriso? Non per me ch’essa non vedeva da tanto tempo?

Prestai orecchio a quello che si dicevano. Parlavano di spiritismo e appresi subito che Guido aveva introdotto in casa Malfenti il tavolo parlante.

Ardevo dal desiderio di assicurarmi che il dolce sorriso che vagava sulle labbra di Ada fosse mio e saltai nell’argomento di cui parlavano, improvvisando una storia di spiriti. Nessun poeta avrebbe potuto improvvisare a rime obbligate meglio di me. Quando ancora non sapevo dove sarei andato a finire, esordii dichiarando che ormai credevo anch’io negli spiriti per una storia capitatami il giorno innanzi su quella stessa via… anzi no!… sulla via parallela a quella e che noi scorgevamo. Poi dissi che anche Ada aveva conosciuto il professor Bertini ch’era morto poco tempo prima a Firenze ove s’era stabilito dopo il suo pensionamento. Seppimo della sua morte da una breve notizia su un giornale locale che io avevo dimenticata, tant’è vero che, quando pensavo al professore Bertini, io lo vedevo passeggiare per le Cascine nel suo meritato riposo. Ora, il giorno innanzi, su un punto che precisai della via parallela a quella che stavamo percorrendo, fui accostato da un signore che mi conosceva e che io sapevo di conoscere. Aveva un’andatura curiosa di donnetta che si dimeni per facilitarsi il passo…

La coscienza di Zeno

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