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Dunque uccidere era cosa tanto facile? Si fermò per un solo istante nella sua corsa e guardò dietro a sé: Nella lunga via rischiarata da pochi fanali vide giacere a terra il corpo di quell’Antonio di cui egli neppure conosceva il nome di famiglia e lo vide con un’esattezza di cui subito si meravigliò. Come nel breve istante aveva quasi potuto percepirne la fisionomia, quel volto magro da sofferente e la posizione del corpo, una posizione naturale ma non solita. Lo vedeva in iscorcio, là sull’erta, la testa piegata su una spalla perché aveva battuto malamente il muro; in tutta la figura, solo le punte dei piedi ritte e che si proiettavano lunghe lunghe a terra nella scarsa luce dei lontani fanali, stavano come se il corpo cui appartenevano si fosse adagiato volontario; tutte le altre parti erano veramente di un morto, anzi di un assassinato.

Scelse le vie più dirette; le conosceva tutte ed evitava i viottoli per i quali non direttamente si allontanava.

Era una fuga smodata come se avesse avuto le guardie alla calcagna. Quasi gettò a terra una donna e passò oltre non badando alle grida d’imprecazione ch’ella gli lanciava.

Si fermò sul piazzale di S. Giusto. Sentiva che il sangue gli correva vertiginosamente le vene, ma non aveva alcun affanno e non era dunque la corsa che lo aveva affaticato. Forse il vino poco prima? Non l’assassinio, sicuramente non quello; non lo aveva né affaticato né spaventato.

Antonio lo aveva pregato di tenergli per un istante quel pacco di banconote. Poco dopo, quando Antonio gliene chiese la restituzione a lui balenò alla mente l’idea che ben poca cosa lo divideva dalla proprietà assoluta di quel pacco: La vita di Antonio! Non ne aveva ancor ben concepita l’idea che già l’aveva posta ad esecuzione e si meravigliava che quella idea che ancora non era una risoluzione gli avesse dato l’energia di menare quel colpo formidabile tale che dello sforzo si risentiva nei muscoli del braccio.

Prima di lasciare il piazzale stracciò l’involucro che chiudeva il pacco di banconote, lo gettò via e ne distribuì disordinatamente per le tasche il contenuto; poi s’incamminò con passo che volle calmo ma che ben presto e per quanto egli tentasse di frenarlo, ridivenne celere perché moderarlo sul piano era difficile, dopo esser salito di corsa. Finì che fu preso da un grande affanno che lo costrinse a fermarsi, proprio sotto il castello, con la sentinella che guardava la città nella quale allora allora era stato commesso il grande delitto.

Sulla scalinata che conduceva alla piazza della Legna gli fu più facile di moderare il passo ma soltanto badando di portare sempre tutti e due i piedi su uno scalino prima di scendere al prossimo. Voleva riflettere ma non seppe che prenderne l’atteggiamento. Ben presto si disse che non ve n’era bisogno visto che ogni suo movimento era ora dettato dalla necessità! Accelerò di nuovo il passo. Senza ritardo egli si sarebbe recato alla ferrovia e avrebbe tentato di partire per Udine; di là gli sarebbe stato facile di passare in Svizzera.

Allora era perfettamente in sé. S’era dileguata la leggera nebbia prodotta nel suo cervello dalla cena che gli aveva pagata il povero Antonio. Non era stata la causa del delitto, ma il vino, fornitogli dalla sua vittima stessa, gliene aveva reso più facile l’esecuzione.

Se non avesse avuto quei fumi alla testa non avrebbe saputo dimenticare che commesso il delitto, molto ancora gli restava da fare prima di assicurarsene il frutto, e col suo carattere poco energico, inerte, avrebbe sempre cercato mezzi e modi e finito col non agire che al sicuro, dunque mai.

Dove si poteva uccidere al sicuro? E se ci fosse stato il luogo, Antonio si sarebbe potuto trascinare? Gli venne da ridere; quell’Antonio era tale un imbecille che lo si avrebbe potuto far andare espressamente ad un macello più lontano.

Camminava ora franco e calmo per la via ma non si dissimulava che la sua tranquillità veniva dal sapere che nessuno dei passanti poteva ancora essere a conoscenza del delitto da lui commesso. Per costoro, assolutamente, egli era ancora un uomo onesto e li guardava franco in faccia quasi per usufruire per l’ultima volta del diritto che stava per perdere.

Alla stazione però lo colse di nuovo l’agitazione di poco prima. Là egli aveva da fare il passo che doveva avere tanta importanza sul suo destino. Se lo si lasciava partire era salvo. Quale calma non gli sarebbe stata data dal sentirsi trascinare lontano con la rapidità vertiginosa del celere; perché, con un senso ch’egli non aveva saputo di avere, dall’altra estremità della città egli sentiva avanzarsi la notizia dell’omicidio e la persecuzione e sapeva che se non fuggiva, ben presto ne sarebbe stato raggiunto.

Alla una doveva partire il treno e ci mancava una mezz’ora circa. Egli non voleva entrare nell’atrio vuoto molto tempo prima della partenza, ma non seppe rimanere lungo tempo, solo, nell’oscurità e ciò non per timore ma per impazienza. Aveva guardato a lungo l’orologio della stazione sorvegliando su esso l’avanzare del tempo, poi osservato il cielo stellato e senza nubi.

Che cosa gli restava a fare? «Se avessi qualcuno con cui parlare!», pensò e fu in procinto di abbordare un cocchiere che dormicchiava a cassetta della sua carrozza. Ma si trattenne perché correva pericolo di parlargli del suo delitto e come all’infuori della grande paura del giudizio dei suoi simili, a sua sorpresa egli non sentiva affatto rimorso ma invece una specie di superbia per la risoluzione ferrea presa improvvisamente e per la esecuzione ardita e sicura.

Entrò nell’atrio. Voleva vedere le facce dei presenti ritenendo di poter comprendere da queste il destino che lo attendeva.

Sulla panca accanto alla porta erano sedute due donne friulane vicino ai loro cesti, a mezzo addormentate. In fondo alcuni doganieri maneggiando dei colli e a sinistra, nella birraria, v’era un solo uomo grasso che fumava seduto dinanzi ad un bicchiere di birra semivuoto.

Si meravigliò di nuovo dell’acutezza della sua vista e mai non s’era sentito così forte ed elastico, pronto a lottare o a fuggire. Pareva che il suo organismo avvisato del pericolo che correva avesse raccolto tutte le forze per mettergliele a disposizione in quel frangente.

Il suo passo risonava forte nel locale vuoto e destava una eco confusa. Le due friulane alzarono il capo e lo guardarono.

Egli picchiò al finestrino della dispensa per chiamare l’impiegato e non senza sforzo, seppe attendere senza muoversi i parecchi minuti che costui ci mise a rispondere.

– Un biglietto per Udine!

– Che classe?

Non ci aveva pensato.

– Terza. – Non sceglieva quella per economia ma per prudenza; bisognava viaggiare in conformità ai vestiti molto sdrusciti.

– Andata e ritorno – aggiunse rapidamente e sorpreso della buona idea venutagli.

Per pagare levò un pacco di banconote ma le rimise subito in tasca; ve ne erano da mille fiorini. Trovò un piccolo pacchetto da dieci fiorini e pagò.

Gli sembrò che l’opera fosse compita a metà ora che aveva il biglietto in tasca. Anzi meglio che a metà perché non aveva più da parlare con nessuno. Gli bastava sedersi tranquillamente nel suo compartimento con quelle friulane che gli davano poco sospetto e il resto era affare della locomotiva.

Bisognava occupare in qualche modo il tempo che mancava alla partenza. Pose le mani in tutte le tasche e palpò i biglietti di banca. Erano soffici quasi volessero simboleggiare la vita che potevano dare.

Così con le mani in tasca si appoggiò ad un pilastro della porta, il punto più oscuro dell’atrio donde poteva sorvegliare tutto l’ambiente senza venir veduto. Anche sentendosi perfettamente al sicuro non voleva tralasciare alcuna precauzione.

Non sentiva una grande gioia al contatto delle banconote e andava dicendosi ch’era perché non se ne sentiva ancora sicuro possessore. Invece, anche senza questo dubbio, il pensiero del suo delitto non avrebbe lasciato luogo in lui ad altri sentimenti. Non era preoccupazione e non rimorso ma quell’impressione al braccio destro col quale aveva dato il colpo gli sembrava si fosse estesa a tutto il suo organismo. L’atto così breve e fulmineo aveva lasciato traccie sul corpo che lo aveva fatto. Il suo pensiero non sapeva staccarsene.

– Dammi i miei denari – gli aveva detto Antonio fermandosi tutt’ad un tratto. Avendo già preso la decisione di non restituire il pacco, egli dubitò che Antonio non l’avesse indovinata e intanto non fece altro che un atto designato a distruggere in costui il sospetto. Stese la sinistra a porgergli il pacco ben sapendo ch’erano tanto distanti uno dall’altro che le loro mani non giungevano a toccarsi. Antonio si avvicinò subito troppo e in parte la violenza del colpo che ricevette derivò dal suo movimento verso il ferro. Già si piegava e non ancora aveva compreso ciò che gli succedeva. Portò le mani alla ferita e le ritirò bagnate di sangue. Gettò un urlo e stramazzò a terra ove subito s’irrigidì. Strano! In quell’urlo, la voce di Antonio era divenuta seria e solenne; non era più quella che fino ad allora aveva balbettato le parole dell’imbecille e dell’ubriaco: «Gli accadeva infatti cosa molto seria al povero Antonio», pensò Giorgio seriamente.

Bruscamente venne tolto ai suoi sogni. Con passo rapido era entrata una guardia ed era andata direttamente alla dispensa. A Giorgio si gelò il sangue nelle vene. Lo cercavano diggià? Stette fermo vincendo il movimento istintivo che lo avrebbe gettato sulla via, ma poi, osservando la vivacità con la quale la guardia parlava con l’impiegato, gli parve di indovinare ch’essa era venuta precipitosamente a dare l’ordine di non lasciarlo partire e uscì dall’atrio senza far rumore in modo che persino le due friulane vicinissime alla porta non s’accorsero della sua uscita.

Nell’oscurità della piazza ebbe tanta calma da dubitare che quella sua fuga fosse giustificata ma non tanto da ritornar nell’atrio. Risolse di fermarsi per qualche tempo a quel posto sperando che la sua fortuna gli avrebbe dato qualche altra indicazione per poter orientarsi. Non era piccola risoluzione o di facile esecuzione neppure quella di rimanere là fermo, perché calmo non si sarebbe sentito che obbedendo al suo istinto e correndo all’impazzata lontano da quel luogo. La vista di persona che forse poteva avere il mandato di arrestarlo era bastata a togliergli tutta l’audacia di cui poco prima s’era gloriato. Cercò una posizione naturale per dare anche meno nell’occhio e si sedette su una scalinata. Si sentiva a disagio così, ma sapeva che quella era una posizione naturale perché pochi giorni prima, dopo aver desinato abbondantemente una volta in quarant’otto ore, s’era seduto sui gradini di una chiesa e aveva potuto osservare che i passanti non lo vedevano.

Partire? Giocare d’audacia e partire alla cieca, senza curarsi di sapere se alla partenza stessa o alla prossima stazione sarebbe stato fermato? Lo fermò più che questo dubbio, l’orrore di quelle ore di un’angoscia che da poco conosceva.

Travestì la sua paura in un ragionamento.

«Partire significava fuggire e la fuga era una confessione. Se fosse stato colto nella fuga era perduto senza misericordia».

Sarebbe rimasto, e non gli mancarono gli argomenti neppure per rendere ragionevole il suo desiderio di non allontanarsi affatto dalla città. Chi poteva rintracciarlo? Due o tre persone che non lo conoscevano lo avevano veduto con Antonio e dalla parte proprio opposta a quella ove abitava.

Ma dopo quella prima vigliaccheria non si sentì più capace di audacie. Un’audacia utile gli veniva consigliata dal suo mobile cervello, ma anche mentre che con essa si baloccava, neppure per un istante non ebbe l’intenzione di porla ad esecuzione. Lo torturava una grande curiosità di sapere quello che la gente sapesse dell’assassinio e quali ipotesi facesse sull’assassinio. Egli avrebbe potuto portarsi di nuovo sul luogo del misfatto e informarsi con cautela. Ma a quest’uopo bisognava naturalmente parlare dell’assassinio e forse con guardie… tutta roba da far rizzare i capelli in testa.

No! Sarebbe ritornato immediatamente a quella specie di tana che da oltre un anno gli serviva d’abitazione e per lungo tempo non l’avrebbe abbandonata. Avrebbe continuato a fare la vita che aveva fatto fino allora, concedendosi soltanto quelle comodità che non potevano dare nell’occhio.

Per andare alla sua abitazione in Barriera vecchia egli avrebbe dovuto passare la spaziosa via del Torrente. Un’insormontabile paura della luce glielo impedì e spiegando a se stesso che la sua paura era cautela, infilò una viuzza solitaria che lo portò sulla collina adiacente ad una via larga ma fuori di mano, poco frequentata a quell’ora e poco illuminata. Poi con un giro enorme, sempre preferendo le vie più oscure, arrivò all’altra parte della città. Si fermò dinanzi ad una porta per uno scalino più bassa della via. Entrò, chiuse dietro a sé la porta, e nella profonda oscurità si sentì subito tranquillo. Egli aveva commesso un errore, quella passeggiata alla stazione, e, ritornato salvo in casa, gli parve di averlo annullato.

Là nessuno sapeva del suo tentativo di fuga; in uno dei canti della stanza sentiva russare Giovanni, probabilmente ubbriaco.

Cercò a tastoni il suo materasso, vi si stese e si spogliò. Cacciò la giubba nella quale v’erano i denari, sotto il guanciale e s’addormentò dopo aver brancolato verso il sonno in una fantasia disordinata. Non gli sembrava di essere stato lui l’uccisore. Quella via lontana ch’egli fuggendo aveva guardato anche una volta, l’assassinato che per sì breve tempo aveva conosciuto e quella fuga alla stazione, gli balzavano bensì dinanzi alla mente, ma senza commuoverlo o spaurirlo. Nella sua immensa stanchezza gli parve che l’oscurità in cui si trovava non avesse a diradarsi mai più. Chi sarebbe venuto a cercarlo là?

L'assassinio di Via Belpoggio

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