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GIORNO 2

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COME SCOPRO LE MERAVIGLIE DELLA GIUNGLA

"No, non uccidetelo!" Urlai, agitandomi convulsamente e così facendo caddi dall'albero con un tonfo.

Mi scossi da un lato all'altro, scappando dai miei stessi fantasmi, ignorando il dolore della caduta. Guardai dappertutto completamente disorientato e mi fermai per un momento, rannicchiato, gemendo come un animale gravemente ferito. Mentre mi massaggiavo la schiena ferita, mi resi conto che era stato un incubo, un incubo molto reale, dal momento che avevo sognato di rivivere la morte di Juan, lo schianto dell'aereo, di nuovo il corpo inerte di Alex nelle mie mani. Il sudore mi colava sulla fronte, le mani mi tremavano. Feci un respiro profondo e decisi di muovermi, desideravo solo allontanarmi il più possibile dall'aereo in cui avevo perso parte della mia vita. Il mio passato era terribile, il mio futuro desolante.

La schiena mi faceva molto male per la postura che avevo tenuto, per la caduta o per entrambi i motivi, ed ero un po’ arrabbiato. Lamentosamente mi alzai per raccogliere gli zaini e mi resi conto che mancava lo zaino col cibo. Il salto che feci per lo stupore quasi mi fece cadere di nuovo dall'albero. Senza quello zaino non potevo fare niente. Cercai spaventato tra i rami e, quando ormai credevo che non lo avrei più ritrovato, vidi che era steso a terra con tutto il suo contenuto sparso. Probabilmente l'avevo lanciato io, trascinandolo nella mia caduta o muovendomi di notte. Scesi con cura con l'altro zaino sulle spalle e raccolsi tutto quello che trovai: tre lattine di soda, un panino con la salsiccia, alcuni biscotti rosicchiati e pieni di formiche, una scatola con sacchetti di sale da usare nelle insalate e le due scatole, che risultarono essere di mele cotogne. Il resto era scomparso, doveva essere stato portato via dagli animali. Ciò mi fece concludere che era caduto di notte.

Decisi di fare un inventario di tutto ciò portavo, per vedere cosa poteva essermi utile e buttare via ciò che non lo era. Non aveva senso portare peso inutile e avevo bisogno di sapere di che strumenti potevo disporre. Nel mio zaino, a parte il cibo, portavo il coltello che avevo comprato a mio padre, tutte le figure di legno, un diario di viaggio sull'Africa centrale, un pacchetto di fazzolettini, un binocolo 8x30, un cappello di tela color kaki e una maglietta con scritto "I love Namibia". Del kit di pronto soccorso mi rimanevano una scatola di aspirina a metà, un'intera scatola di antidiarroici, una benda, tre cerotti e alcune pillole per il mal di mare. A parte, ovviamente, i documenti. Anche nello zaino di Juan c'erano i suoi documenti e, inoltre, le tre coperte e un cuscino da aereo, un piccolo libro con frasi Swahili, i suoi occhiali da sole, un berretto, alcune barrette di cioccolato, una bottiglia d’acqua di plastica da un litro quasi vuota, una forchetta, una grande figura di legno di un elefante e molte altre più piccole, un pacchetto quasi pieno di sigarette e un accendino.

Non potevo portare due zaini, quindi tenni tutto nel mio, che era in condizioni migliori, tranne una delle coperte, il cuscino che occupava molto spazio e tutte le figure di legno, inutili in questo ambiente, che seppellii e coprii con resti di foglie. Mentre scartavo alcune cose, ricordavo le persone per le quali erano; Elena, la mia famiglia, i miei amici, Alex, Juan... e non passò molto tempo prima che ricominciassi a piangere. Non li avrei rivisti mai più, nessuno di loro. Beh, avrei rivisto presto Alex e Juan, in paradiso o dovunque si vada una volta morti.

In quel momento mangiai le barrette di cioccolato disfatte dal calore, pulendo l'involucro con la lingua fino a quando non ne rimase traccia. Erano buonissime. Bevvi anche quella poca acqua rimasta nella bottiglia. Fu allora che mi resi conto che dovevo fermarmi un attimo per riflettere sui miei passi successivi. Mi vennero in mente alcune domande: i ribelli sapevano che ero vivo? Dove sarei andato adesso?

Rispetto alla prima domanda, non avevo risposta. Forse erano riusciti a convincere qualche passeggero a confessare che mi aveva visto, forse avevano cercato nei dintorni e avevano trovato le mie tracce o la lattina che avevo gettato a terra dopo averla bevuta (era stato un grosso errore, anche se in quel momento ne avevo abbastanza col problema di dover scappare), forse stavano dappertutto e mi avrebbero trovato comunque, o magari non sapevano nulla. Qualunque cosa fosse successa da quel momento in avanti, avrei dovuto cercare di stare più attento e lasciare il minor numero di tracce possibile ovunque andassi.

Rispetto a dove andare. Mi sembrava di ricordare che dall'aereo, durante l’atterraggio vertiginoso, avevo visto un villaggio all'orizzonte, in una grande radura nella giungla. Quello che non sapevo era se sarebbe stata la base dei ribelli o no, ma era molto probabile, visto che era molto vicino a dove ci avevano attaccato. Dato che stavamo viaggiando dal Sud Africa verso il nord, dovevo presumere che continuando sempre verso nord avrei lasciato la giungla, sarei arrivato in un altro paese e avrei avuto più possibilità di trovare aiuto. Come mi mancavano i miei amici adesso! In quel momento mi sarebbero serviti l'entusiasmo, l'ottimismo e la gioia traboccanti di Alex e la fredda capacità di analisi, calma e determinazione nell’affrontare le situazioni di Juan. Quanto avevo bisogno della loro compagnia per trovare abbastanza coraggio e per affrontare questa sfida indesiderata che mi si presentava inevitabilmente! Con loro sarebbe stato più facile, addirittura un'avventura da raccontare al ritorno; ma erano morti, assassinati, sterminati come mosche volgari senza pietà, annientati nel fiore della vita... e io dovevo sopravvivere in un modo o nell’altro. Bastardi, figli di...! Tranquillo, Javier, tranquillo, dovevo cercare di mantenere la calma, era la mia unica opzione se volevo avere qualche possibilità. Bene, il sole sarebbe dovuto sorgere a est e tramontare a ovest, quindi se aveva albeggiato più o meno da quel lato... sarei dovuto andare in quella direzione. Se con quel sistema di orientamento fossi arrivato da qualche parte non sarebbe stata abilità, ma un miracolo. Comunque, per essere sicuro, scalai con attenzione uno degli alberi più alti che riuscii a vedere.

Fu facile, poiché aveva molti rami da usare come scale, anche se più in alto salivo più erano piccoli e flessibili, quindi feci molta attenzione ad appoggiare i piedi proprio sulla base dei rami, che era la parte più ampia e resistente. Spuntava sopra la maggior parte degli alberi e, quando raggiunsi quasi il punto più alto, il panorama era scioccante. Un mare verde si stendeva in tutte le direzioni come un tappeto, salendo e scendendo, seguendo il contorno della terra, imitando le onde, una vasta distesa di vita. Solo alcuni alberi solitari molto più alti degli altri spiccavano nell'immensità di quell'arazzo, formato dalla chioma delle cime infinite della giungla. Non vedevo altro che le cime degli alberi in tutte le direzioni, senza fine. Anche con l'aiuto del binocolo non si vedeva nulla da nessuna parte. La verità è che questo non mi aiutava troppo nella mia ricerca della direzione da seguire. Scesi dall'albero e nascosi lo zaino di Juan, con tutto ciò che rimaneva in esso, seppellendolo per metà sotto un tronco caduto. All'ultimo momento decisi di tenere la giraffa per Elena, se mai l'avessi rivista, volevo avere un regalo per lei. Diedi un'ultima occhiata in giro per controllare che non restassero chiari segni della mia presenza e, quando ero mediamente convinto, iniziai a camminare senza troppe speranze. Quanto avevo bisogno dei miei amici!

Durante la marcia incontrai alcuni uccelli colorati con suggestivi petti rossi e il resto del corpo verdastro6. Volteggiavano in uno stormo di circa dodici o quindici tra i rami degli alberi con incredibile agilità. Non appena feci un po’ di rumore scomparvero dalla mia vista in un batter d'occhio. Solo quegli splendidi animali mi fecero uscire per un momento della opprimente sensazione di solitudine con cui la giungla mi colpiva implacabilmente, un mondo opprimente, ostile, spietato, nell'oscurità permanente in cui il peso, lo sconforto o il soffocamento non erano altro che abituali compagni di viaggio.

Il percorso era difficile. Dovevo costantemente aggirare o saltare ostacoli. A volte c'erano delle piccole radure, ma le costeggiavo per paura di risultare troppo visibile. Sudavo senza sosta e avevo molta sete, ma non volevo bere un'altra lattina perché ne restavano solo tre. Dovevano essere circa 25º con un'umidità molto elevata, il che accentuava la sensazione di oppressione e calore. Per un po' mi tolsi la maglietta, ma venni punto da così tante zanzare che dovetti rimettermela. A volte il bosco diventava troppo fitto e dovevo farmi strada con un bastone che avevo raccolto e usato come macete. In quei casi, praticamente non avanzavo, poiché con il bastone il massimo che riuscivo a fare era rimuovere i rami dal sentiero mentre passavo, non tagliarli. Inoltre, avevo la parte inferiore delle gambe e gli avambracci pieni di ferite causate dallo sfregamento delle piante in quelle zone in cui i vestiti non mi coprivano. Perfino il viso mi pizzicava in diversi punti, segno che mi ero tagliato anche lì.

A volte il terreno era pieno di rami o tronchi abbattuti, altre volte era morbido, coperto di foglie cadute, e dovevo stare attento a non torcere la caviglia in un buco o scivolare, perché sarebbe stato fatale. In alcune zone le cime degli alberi erano così vicine da impedire il passaggio della luce, creando atmosfere di chiaroscuro, sicuramente cupe; oppure formavano diversi piani di luci di diverse tonalità a seconda delle altezze. In quelle zone passavo spaventato perché avevo l'impressione di essere costantemente attaccato da fantasmi, che in realtà erano i rami più alti degli alberi che si muovevano al suono del vento, che doveva essere sul tetto verde della giungla e che, per inciso, faceva si che si producesse un terribile urlo perenne che ti perseguitava da tutte le parti. Più volte la giungla si addensava così tanto che era assolutamente impraticabile e dovevo fare lunghe deviazioni per andare avanti. Non avevo mai creduto che così tante piante diverse potessero vivere assieme. Non vedevo più il romanticismo di camminare nella giungla come gli esploratori, inoltre, volevo uscire da quel luogo il prima possibile. Infine, dato che stavo facendo molto rumore, mi tremava il cuore pensando che, se mi avessero seguito, sarebbe stato molto facile localizzarmi.

Proprio come durante la notte, c'era un suono incessante in tutte le direzioni, non era lo stesso rumore, però si sentiva anche il ronzio degli insetti, strani canti di uccelli nelle cime degli alberi e alcune urla che supponevo provenissero da delle scimmie o qualcosa del genere. Almeno non si sentivano i ruggiti inquietanti, dovevano essere stati di un cacciatore notturno, o almeno così volevo credere. Per quanto potessi vedere, non vedevo molti animali, ma potevo sentirli tutti.

Guardai l'ora sul mio orologio. Erano le dieci del mattino. Camminavo da un'ora e non ne potevo più. Il ginocchio aveva già iniziato a inviare segnali di avvertimento, lo sentivo un po' gonfio. Più volte i legamenti o qualunque cosa fossero mi si erano accavallati e avevo dovuto rimetterli a posto con la mano, massaggiandoli delicatamente ma con fermezza. Mi sedetti per terra a riposare un po', appoggiato a un tronco di un albero molto alto e ci strofinai le mani. Il caldo mi fornì un po’ di sollievo. Ero in una zona abbastanza libera. Dopo un po’ di tempo che stavo seduto, vidi sul ramo di un albero di fronte a me un uccello simile a un pappagallo con un piumaggio bluastro opaco, l'unica nota di colore era il rosso della sua coda, con un alone bianco intorno agli occhi, il becco nero ed emetteva strilli quasi umani7. Girava la testa praticamente in tutte le direzioni, senza muovere il resto del corpo, ricordandomi la ragazza dell'esorcista. Si avvicinò dondolandosi a un frutto dell’albero e cominciò a beccarlo. Il frutto era di colore rosso-arancio, delle dimensioni di una mano e di forma simile a una zucca.

“Sicuro che sai dove sei”, dissi tra me e me, “sicuro.”

Rimasi quasi mezz'ora a riposare, dopodiché ricominciai a camminare. Ogni volta che costeggiavo una radura e dovevo riprendere la direzione presumibilmente corretta, mi convincevo sempre di più che sarei potuto rimanere a girare per anni senza accorgermene. Mi sembrava tutto uguale e il sole non mi era già più di grande aiuto. Guardavo quanto era alto, lo confrontavo con l'ora dell’orologio e arrivavo alla conclusione che non avevo idea di cosa stessi facendo. Continuai con lo stesso ritmo tutta la mattina, camminavo un'ora e mi riposavo per un po'. Nei momenti di riposo leggevo il frasario in swahili o il diario di viaggio per intrattenere la mia mente con qualcosa, magari mi sarebbe servito per comunicare con qualcuno in un ipotetico incontro. Ogni volta era più faticoso alzarsi e continuare, il mio ginocchio mi faceva zoppicare e verso le due del pomeriggio caddi arreso.

Era tutta colpa mia, avevo trascinato i miei amici in questo posto infernale, per colpa mia erano morti. Se li avessi ascoltati saremmo stati di ritorno dall'Italia con tantissime foto di Venezia e qualche cartolina della Toscana. Colpa mia, era tutta colpa mia.

Ero assetato e il mio stomaco ruggiva ininterrottamente. Mi trovavo di fronte a un dilemma: mangiare per recuperare le forze o risparmiare, data la scarsità di cibo che avevo, rischiando che mi succedesse qualcosa? Si supponeva che avere cibo e acqua in una giungla fosse facile, o almeno così pensavo in quel momento, ed ero molto affamato, quindi optai per bere una lattina di soda e mangiare i biscotti rosicchiati, allontanando le formiche soffiando, e il panino. Alleviai un po' il mio appetito tenace. Tenni le mele cotogne pensando che ci avrebbero messo più tempo per rovinarsi. Poi mi addormentai per la stanchezza e perché non ero riuscito a dormire la sera prima.

Quando mi svegliai sentii un suono sibilante molto vicino. Doveva esserci un serpente accanto a me. Rimasi immobile cercando di affinare l’udito per scoprire dove potesse essere. La paura mi attanagliò lo stomaco e divenne faticoso respirare. Una volta avevo visto un documentario sui serpenti chiamato "I serpenti dei tre passi", perché quando ti mordevano ti davano il tempo di fare solo tre passi prima di morire. Questo in fondo non era male considerata la situazione, ma se fossi stato morso da un serpente che mi avrebbe fatto agonizzare per ore, perdendo il controllo a poco a poco, raggiungendo il parossismo della follia... Avevo così paura di soffrire, il terrore del dolore. Se dovevo morire volevo che fosse una cosa rapida, quasi lo desideravo per liberarmi della situazione in cui mi trovavo. Me lo meritavo. Mi sembrava che il sibilo fosse man mano più vicino, potevo anche sentire il fruscio delle foglie al suo passaggio, si stava dirigendo verso di me, ne ero sicuro. Quasi potevo sentire come scivolava sul mio corpo, salendo dalla gamba verso il mio collo, era quasi arrivato, stava per mordermi. Chiusi gli occhi per un momento e respirai profondamente, cercando di calmarmi. Poi riaprii gli occhi e, senza muovermi di un centimetro, li muovevo in tutte le direzioni cercando di localizzarlo. Finalmente riuscii a vederlo. Stava raggomitolato su un ramo di un albero tre metri alla mia destra, alto circa due metri. Muoveva solo la testa da un lato all'altro, come se stesse tenendo d’occhio qualcosa. Era di colore verde con un leggero tocco bluastro, un po' giallastro ai lati, con una lunga coda, poco più di un metro di lunghezza, e un corpo magro, come se fosse compresso lateralmente, quasi invisibile tra le foglie8. Quando scivolò lungo il ramo, vidi che aveva la pancia biancastra.

Restai per un po' senza muovermi, in ascolto, finché mi convinsi che era lui quello che avevo sentito e il resto era stato il risultato della mia immaginazione. Mi alzai lentamente e scrutai il terreno per cercare un altro serpente, ma quello che vedevo era l'unico. Almeno l'unico che avevo localizzato. All'inizio pensai di fare una deviazione e di andarmene, ma poi mi ricordai che si diceva sempre che la carne di serpente aveva il sapore del pollo, che era molto buona. O almeno questo era ciò che i nonni raccontavano come storiella della guerra civile e della fame che avevano sofferto. Mi sembrò una buona opportunità per procurarsi del cibo e, se inoltre avrebbe avuto un buon sapore, sarebbe stato ancora meglio. Cercai un bastone lungo con una punta a "V" per cercare di tenergli la testa. Tolsi anche il coltello dalla tasca, lo aprii e lo misi sulla cintura dei miei pantaloncini. Trovai un ramo caduto adatto e gli diedi la forma che stavo cercando, tagliando un'estremità a forma di “V”, senza mai perdere di vista il serpente. Il processo di preparazione mi sembrò infinito e mi esaurii estremamente, sebbene in realtà non comportasse alcuno sforzo fisico considerevole.

Quando fui pronto, mi avvicinai di soppiatto al serpente. Questo sembrò non accorgersene o mi ignorò, in ogni caso non mi prestò nessuna attenzione. Quando fui a circa mezzo metro di distanza, sollevai il bastone e lo colpii con tutte le mie forze sulla testa. Con il primo colpo rimase mezzo sospeso, così glie ne diedi altri due finché non cadde a terra. Poi gli agganciai la testa con la forchetta del bastone e premetti molto forte contro il terreno. Il serpente tremava convulsamente, sibilando senza sosta ed io ero terrorizzato. Se lo avessi lasciato per colpirlo a distanza con il bastone, avrebbe potuto attaccarmi, l'altra opzione era avvicinarmi e infilzarlo con il coltello. Raccogliendo il mio coraggio, mi avvicinai e calpestai la coda, premendola a terra nel tentativo di tenerla ferma. Mi chinai e conficcai il coltello appena sotto la testa dell’ofide, incollato al bastone, lasciandolo conficcato a terra. Tuttavia, continuava ad agitarsi, così tolsi il coltello e segai il suo collo fino a quando non separai la testa dal resto del corpo. Poi feci un salto indietro, temendo, ignaro, che potesse ancora attaccarmi. La coda continuava a dimenarsi senza sosta, sputando sangue dove prima c’era la testa. Lo colpii un paio di volte con il bastone, ma non gli importò, quindi decisi di lasciarlo lì per un po'. In meno di mezzo minuto, smise di muoversi gradualmente fino a quando fu completamente fermo. Gli diedi qualche colpetto con il bastone ma non si muoveva. Era decisamente morto. Finalmente riuscii a respirare tranquillo.

Il mio primo trionfo nella giungla. L'uomo aveva dominato la bestia. Mi sentivo totalmente euforico, per un momento tutti i miei problemi si dissolsero come lo zucchero in un bicchiere di latte caldo. Da quel momento sapevo che sarei sopravvissuto e sarei uscito di lì. Ero un autentico avventuriero, un sopravvissuto nato. Nulla poteva impedirmi di uscire da quel labirinto verde e di tornare a casa, a casa. Ero stato sfidato da Madre Natura e avevo dimostrato il mio valore, la mia capacità di adattarmi e sopravvivere. Adesso lo sapevo, ero il vincitore di questo ineguale combattimento tra me stesso e gli elementi avversi.

Presi il serpente e lo tagliai a metà con il coltello, tirando fuori le viscere il meglio che potevo, non senza abbastanza disgusto. Per questo, l’afferrai per un'estremità e mi girai a tutta velocità, voltandomi più volte rapidamente e facendo uscire le viscere che volavano in tutte le direzioni. Poi pensai che questo andava contro il mio piano di essere discreto e di non attirare l'attenzione, ma c'erano già resti di serpente dappertutto e non avevo voglia di raccoglierli. Ciò che restava, una volta finito di pulirlo con il coltello, provocandomi un paio di conati di vomito, era disgustoso. A quel punto lo scuoiai. Quando era pronto mi resi conto di un problema. Non potevo accendere un fuoco per cucinarlo, perché avrebbero scoperto la mia esistenza e la mia posizione, quindi avrei dovuto mangiarlo crudo. Scrutai la carne insanguinata scrupolosamente. Tagliai un bel pezzo e me lo misi in bocca. Se gli animali mangiavano cibo crudo anche io potevo. Masticai un paio di volte e sputai tutto. Era disgustoso! Aveva una consistenza simile alla plastica, come se stessi cercando di mangiare una bambola dalle mie sorelle o cartilagine mezza distrutta. Mi era sempre piaciuta la carne molto cotta, non ero mai riuscito a mangiarla poco cotta e quindi, tanto meno, completamente cruda. Quello che mi aveva sempre disgustato erano le cose con la stessa consistenza di quella carne: la pelle di pollo poco cotta, la pancetta, i calli...

Totalmente deluso, presi tutti i resti del serpente e i resti del mio cibo e li seppellii. Poi ci gettai alcune foglie sopra per nasconderlo meglio. A cosa mi serviva procurarmi il cibo se non riuscivo a mangiarlo? Rischiare di essere morso da un serpente e ucciso, per cosa? Inoltre, c'era il problema dell'acqua. Dovevo trovare qualcosa da bere perché non smettevo di avere una sete terribile e mi rimanevano solo due bibite. Mi lasciai cadere a terra, sudando copiosamente per lo sforzo fatto per catturare il serpente. Sconfitto, bevvi una delle due bibite e lanciai la lattina. Che mi scoprano, dopo tutto è meglio morire crivellati che di fame, ci vuole meno. Inoltre, avevo sparso budella di serpente per un raggio di due metri. Addio al vincitore, addio al sopravvissuto nato, benvenuto al fallito che stava per morire in un giardino selvaggio. Me lo meritavo, per cui non potevo lamentarmi. Avevo ucciso i miei due migliori amici. Comunque sapevo di aver visto qualcosa in televisione a proposito dell'acqua nella giungla, mi ricordavo che avevano detto che era facile ottenerla in un modo specifico, ma non ricordavo come.

Per un po' di tempo, che non calcolai, rimasi lì, seduto sul suolo, con le braccia appoggiate sulle ginocchia e la testa in giù, la mente vuota, lasciandomi andare. Rassegnazione, conformismo, abbandono, rinunciare a vivere. L’incidente aereo con la morte di Alex, vedere come crivellavano Juan, l'euforia del serpente e la conseguente delusione, stanchezza, sonno... Troppe cose praticamente in ventiquattro ore, troppe emozioni intense. Perché Juan era stato così stupido ed era uscito correndo così? Perché mi aveva lasciato solo? Almeno saremmo stati noi due e tutto sarebbe stato diverso; ma no, aveva dovuto cercare di scappare in quel modo così... così... Volevo andare a casa, chiudere gli occhi e trovarmi nel mio letto quando li avrei riaperti e tutto sarebbe stato un incubo più realistico del normale, un brutto sogno come qualsiasi altro, un aneddoto da raccontare quando esci con la tua ragazza e i tuoi amici nel pomeriggio. Mi misi a piangere, ma quasi non cadevano lacrime dai miei occhi.

Perso, scoraggiato, deluso e consumato dalla stanchezza e dal sonno. Non sapevo cosa fare. Alla fine, per semplice automatismo, seppellii la lattina che avevo gettato e mi alzai per continuare a camminare, anche se a un ritmo molto più calmo, lasciandomi andare, quasi trascinando i piedi. Camminai e mi fermai a intermittenza fino a quando furono le otto di sera. Le soste erano ogni volta più lunghe, i momenti di camminata sempre più brevi. Usavo il bastone che avevo usato con il serpente come appoggio, alleviando così la pressione sul ginocchio infortunato, anche se in quel momento non sentivo più le gambe. Camminare per camminare, senza nemmeno provare a stabilire bene la mia direzione, dopo tutto, non sapevo con certezza come farlo e potevo quasi dire che non mi importava. Perché avevo dovuto convincerli a venire qui, perché? Non ascoltavo mai nessuno, dovevo sempre uscirmene con la mia. Guarda dove mi aveva portato la mia voglia di controllare tutto, di comandare tutto. Juan, idiota, perché eri uscito correndo così, suicidandoti? Questo era colpa tua, io non avevo niente a che fare con questo. Colpa tua. Tua.

Quando non ne potei più, mangiai una scatola di mele cotogne intera e bevvi la lattina rimasta, nascondendo tutti i resti, inclusa una delle due coperte che mi erano rimaste. Perché ne volevo due? Meno peso portavo meglio era. Inoltre, erano molto calde e quando portavo lo zaino avevo l'impressione che mi stessero arrostendo la schiena, portavo la maglietta incollata permanentemente al corpo per il sudore, il che produceva una sensazione spiacevole. Avevo anche iniziato a provare una costante sensazione di vertigini, forse perché ero disidratato per mancanza di acqua. Non c'era da stupirsi, le bibite avrebbero dovuto dissetare sul momento ma non idratavano molto. L'effetto yo-yo, lo chiamava un mio compagno di classe della scuola, a causa dello zucchero diceva.

Siccome si stava facendo buio e non avevo voglia di tornare a dormire così scomodo su un albero, cercai un posto un po' riparato, con la terra asciutta, fabbricai un esiguo materasso di foglie e rami verdi, mi raggomitolai come potei, coperto dalla piccola coperta e con lo zaino come cuscino e mi addormentai. Avevo trascorso il mio primo giorno intero nella giungla ed ero più che stufo, ero esausto e volevo che tutto questo finisse in tutti i modi.

Ndura. Figlio Della Giungla

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