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II.

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Il cavaliere Maurizio Dossena chiamò sua figlia Nicoletta, una mattina di giugno, per annunziarle che la villa vicina era stata presa in affitto da quel famoso conte Fabiano Traldi di San Pietro, del quale anch'ella aveva udito parlar qualche volta a Milano.

Il famoso conte Fabiano Traldi di San Pietro,—Maurizio lo rammentava intanto alla figliuola,—viveva separato dalla moglie, aveva dato scandalo come giuocatore sfrenato, ed era continuamente in lite coi creditori, con la famiglia sua, con la moglie, con la famiglia della moglie.

Ed arrivava da Parigi

—Da Parigi!—ripetè solennemente il cavaliere Maurizio.

Prese un grosso libro di sulla scrivania, lo levò in alto, lo lasciò ricadere, perchè il tonfo sottolineasse con terribilità il nome della città di perdizione.

A Parigi, il conte Fabiano, in un anno o due di soggiorno, aveva dato un forte tracollo al suo patrimonio. Ne tornava per trovar danaro e forse per riprendere le vecchie liti con la famiglia. Viveva nel frattempo in campagna, come vive il lupo nella caverna fin che gli ricresca il pelo; ma non ci sarebbe rimasto molto, fortunatamente; la campagna è noiosa per uomini di tal fatta.

Era bene che Nicoletta sapesse tutto ciò. La villa del conte confinava con la villa Dossena; i due giardini guardavano la strada e avevano in comune il tratto di spiaggia e di lago che si stendeva loro innanzi.

Ora, Nicoletta doveva essere prudente; perchè il cavalier Maurizio e la moglie non desideravano punto di conoscere quel personaggio. Occorreva dunque evitarlo, e quando fosse stato necessario, anche rinunziare alle passeggiate sulla spiaggia.

Nicoletta vestita di bianco, un gran cappello di paglia ornato di papaveri sulla chioma nera a riflessi azzurrini, ascoltò la discorsa di suo padre freddamente.

C'era da tempo, da due anni almeno, un malinteso tra il padre e la figlia.

La fanciulla aveva sognato un giorno, ancor bambina, di darsi all'arte; il palcoscenico l'attraeva; s'era messa a studiare, prima di nascosto, poi palesemente, per essere attrice. Ma quando aveva affacciato quel suo desiderio, era avvenuta una scena in casa.

Il padre non sapeva capacitarsi che Nicoletta bella, pura, intelligente, chiamata alla felicità, poichè un giorno avrebbe potuto disporre di centomila lire di rendita, sognasse un sogno così stravagante. La madre se n'era accorata, scusando la figlia con l'ignoranza del mondo, ma guardandola da quel momento con occhi inquieti, come si guarda una persona dai gesti e dagli atti poco rassicuranti.

Il teatro! La folla! I pericoli del palcoscenico! La intimità con gli uomini! L'arte di rappresentar le passioni più colpevoli!…

—Basti il dire,—osservò il cavalier Maurizio,—che l'Alfieri ha osato scrivere Mirra pel palcoscenico. E sapete chi era Mirra?

Nè la moglie nè la figlia, innanzi alle quali Maurizio esalava il sentimento della sua indignazione, sapevano chi fosse Mirra; ma la moglie Carlotta alzò le mani e gli occhi al cielo, scandalizzata; e Nicoletta alzò le spalle, tranquillamente.

—Mirra!—andava ripetendo il cavaliere Maurizio.—Mia figlia dovrebbe un giorno rappresentare la scellerata donna con tutte le astuzie che assicurano gli applausi. Mirra!

—Ma che Mirra!—esclamò Nicoletta, arrischiando.—Son cose che si scrivono, ma che non si rappresentano.

—Se ne rappresentano di peggio!—incalzò la signora Carlotta, la quale non sapeva che di là dalla passione di Mirra non s'era inventato ancor nulla.

—E insomma,—concluse Maurizio risolutamente—fin che tua madre è viva, fin che tuo padre è vivo, il palcoscenico no!

Levò la mano destra chiusa a pugno, e ripetè la frase che gli pareva sintetica:

—Il palcoscenico no!

Per due anni dai sedici ai diciotto, Nicoletta si provò a lottare; vano sforzo contro volontà strapotenti che la fiaccavano, perchè la fanciulla si sentiva sola di fronte a tutta la famiglia, a tutti i parenti i più lontani, a tutte le conoscenze e le amicizie di casa.

La signora Carlotta portava intorno la passione di sua figlia per il palcoscenico come un mendicante porta in giro il suo moncherino, per ispirar pietà e ribrezzo; e si faceva compiangere largamente e suscitava la simpatia che si riserba alle grandi sventure. Il padre ne parlava come un giuocatore di Borsa parla della guerra imminente che gli farà perdere una fortuna. I parenti non ne menavan rumore, ma ne discorrevano senza posa, sottovoce, come d'un mal di famiglia o d'una piaga nascosta.

Nicoletta sentiva d'essere malamente amata; non già perchè si contrastava il suo desiderio, ma pel modo chiassoso e villano con cui si contrastava, ma perchè pesava sulle sue fragili spalle una riprovazione, palese o tacita, sproporzionata alla causa, ma perchè si ribellava, s'offendeva della figura che volevan formarle: la figura d'una ribelle sconsigliata, d'una piccola sciocca vanitosa, d'una ingrata senza cervello.

S'ostinò per due anni a dire: «Il palcoscenico sì» mentre suo padre urlava: «Il palcoscenico no!».

Ma intanto Nicoletta si guardava intorno, apriva gli occhi, sentiva il peso di quelle parentele borghesi che vivono tra il danaro e il fasto, pel danaro e pel fasto; che costruiscon palazzi in modo che si capisca che costano molto; che ogni cosa fanno per gli spettatori con una ostentazione cocciuta di ricchezza e di potere; che sono larghe e liberali fino all'insolenza davanti alla platea, e grette e timide e ingenerose non appena cala il sipario. La fanciulla ne ebbe un grande accoramento; non v'era a sperar nulla di nuovo; anche la sorte di lei era segnata dalla nascita; e si piegò con amarezza: non parlò più d'arte e di palcoscenico; era vecchia, a diciott'anni le grandi attrici hanno già quasi un nome; ella sarebbe giunta in ritardo, quand'anche fosse avvenuta per miracolo la conversione di suo padre e di tutto il parentado.

Ma il lungo periodo di contrasti e di dispute, l'abitudine a osservare la famiglia come un manipolo d'avversarii spietati, la differenza scoperta tra la mentalità di quelli e la sua, le lasciarono un solco nell'anima.

Colei che doveva essere la grande artista, oscillante come una fiamma nell'aria, si chiuse in sè stessa; desiderava qualche cosa ch'ella stessa non avrebbe potuto dire, ma che doveva farle una vita a parte, una qualunque cosa meno cognita, meno sicura, meno tradizionale, meno crassa della placida sorte riserbata a una signorina borghese e ricca.

Sembrava gelida, e ardeva.

Le avevan messo accosto da qualche tempo il giovane Duccio Massenti, trovato al ballo d'una famiglia amica.

Aveva ventisei anni, possedeva una discreta fortuna, portava il titolo di conte. Non era nè brutto, nè bello; di figura media, coi capelli chiari, gli occhi castani, il mento ornato da una piccola barba a punta, mancava d'una espressione decisa e significante; ma era gentile e compito.

Nicoletta capì; e di tutti i giovani che le stavano intorno, il conte

Duccio fu immediatamente il meno gradito alla fanciulla.

Egli rappresentava agli occhi di lei la soluzione cognita, sicura, tradizionale e crassa della placida vita d'una signorina borghese: aveva in più, al confronto d'altri uomini incaricati di risolvere la vita d'altre signorine borghesi, il titolo di conte; il quale piaceva molto al cavaliere Maurizio, faceva diventar lustri gli occhi della signora Carlotta, ma non aveva eccitato la fantasia della fanciulla.

Dopo pochi mesi di conoscenza, Nicoletta lo rimproverò un giorno, perchè egli aveva osato scegliere la sua campagna in vicinanza della villa Dossena.

—Che cosa viene a fare?—gli domandò Nicoletta ruvidamente.—Io non godo un poco di libertà che in campagna.

—Ma appunto per questo,—rispose Duccio, sorridendo,—appunto per questo spero che potremo conoscerci meglio….

—S'inganna,—interruppe Nicoletta.—In campagna, io sto sempre sola; vado, vengo, passeggio, esco in barca e in carrozza, e non dò conto a nessuno di ciò che faccio. Sto benissimo così: sono felice soltanto quei pochi mesi e non muterei nulla alla mia vita per nessun patto.

—Saprò farmi tollerare,—rispose il conte col suo sorriso, che diventava impacciato.

—Non ci si provi neppure!—consigliò Nicoletta.—E del resto, perchè vuole conoscermi meglio? Non mi conosce abbastanza?

—A dir vero, credevo,—osservò Duccio,—di conoscerla abbastanza. Ma ella mi prova col suo acerbo rimprovero e con la sua severità che sono ancor lontano dal sapere tutto il suo carattere.

—Ho un carattere molto antipatico. Glielo dico io per la prima,—rimbeccò Nicoletta.

—Vorrei essere sicuro che non è antipatico soltanto per me,—rispose

Duccio timidamente.

La fanciulla rise.

—Oh no,—disse,—è per tutti! Ma se vuole che per lei sia meno antipatico che per gli altri, non venga in campagna; mi lasci tranquilla….

Il conte si rabbuiò in viso.

—Forse,—arrischiò,—disturberei?…

Nicoletta lo guardò sorpresa, arrossendo.

—Spero che lei scherzi!—rispose freddamente.

—La ringrazio,—disse il giovane respirando meglio.—E allora, non verrò a disturbarla in campagna!

—Tocca a me ringraziarla,—esclamò Nicoletta, stendendogli la mano.

E annunziò anche a suo padre e a sua madre, francamente, quello stesso giorno, che aveva pregato il conte di non annoiarla troppo e di lasciarla libera in campagna.

—Non so perchè tu ci dica questo,—osservò Carlotta.

—Come?—rispose la fanciulla stupita.

—Ma sì,—spiegò Maurizio,—perchè ci dai questa notizia? Il conte non ci disturba se è vicino, e non ci offende se sta lontano.

—Credevo che vi occupaste di lui,—confessò Nicoletta.

—Io?—esclamò Carlotta.

—Io?—esclamò Maurizio.

—E allora tanto meglio!—proruppe Nicoletta irritata, comprendendo che non le si voleva ancora dir nulla dei disegni che si stavano maturando intorno a lei e a Duccio.—Tanto meglio per tutti. Me ne sbarazzerò più presto.

La signora Carlotta mosse le labbra e fece un gesto come per protestare, ma un'occhiata di suo marito la fermò.

Bisognava lasciar correre l'acqua per la sua china; non si doveva far di quelle speranze una questione acuta come s'era fatta a proposito del palcoscenico. Il conte Duccio, se davvero voleva quella figliuola, se davvero l'amava, si sarebbe ingegnato da solo a riuscire. Pel momento era meglio non parlarne troppo e non irritar la fanciulla, o sarebbero occorsi altri due anni a persuaderla, come pel palcoscenico.

Carlotta ebbe il lieve rammarico di non poter portare intorno quale una nuova stimmate pietosa il rifiuto di sua figlia per un cospicuo matrimonio; ma si piegò alla volontà esperta di Maurizio, del quale era caldissima ammiratrice.

Se non che, quando apprese, appena giunta in campagna, che la villetta vicina era affittata al conte Fabiano Traldi di San Pietro, scattò improvvisamente.

Nicoletta scendeva dallo studio di suo padre, dove aveva udito la discorsa sulla vita e i miracoli del conte Fabiano, e s'avviava a pian terreno, nella sala da pranzo, per sorbire la cioccolata.

Aveva fame: era allegra; si riprometteva una gita, la prima gita nel bosco, che doveva essere ancor fresco e odoroso per l'umidità notturna e tutto vibrante e scricchiolante al vento.

Diede gaiamente il buon giorno alla mamma, che aveva già bevuto il caffè e latte, e s'era attardata per aspettar la figliuola.

—Sì, sì, buon giorno!—ripetè Carlotta, brontolando.—Hai fatto un bell'affare, tu!

Il domestico presentava con le mani guantate di filo bianco il vassoio alla fanciulla e la cestina d'argento colma di biscotti. La fanciulla gli indicò di lasciargliela innanzi, con un gesto del capo. Ella non sapeva nemmeno che faccia e che nome avessero i domestici. Poi attese che se ne fosse andato.

—Ho fatto un bell'affare, io?—domandò quindi a sua madre.—E quale sarebbe?

—Sarebbe!—ripetè Carlotta col broncio.

—Oh Dio, mamma!—esclamò la fanciulla annoiata.—Non cominciamo; non farmi ripetere venti volte una domanda. Se ho sbagliato, dimmelo. Io non mi sento colpevole di nulla.

Il candore con cui Nicoletta sosteneva un'accusa vaga, disarmò la signora.

—Colpevole non sei; non voglio dirti colpevole,—spiegò infine.—Ma stordita e bizzarra come al solito.

Nicoletta si toccò in testa per assicurarsi che non avesse il cappello a rovescio.

—Ma no,—disse sua madre.—Si tratta di ben altro. Sai chi abbiamo per vicino di casa?

—Il papà me lo ha detto or ora; il famoso conte Fabiano Traldi di San Pietro. Famoso lo ha chiamato il papà, perchè è carico di debiti e si accapiglia con sua moglie. E mi ha detto anche di schivarlo quanto sarà possibile.

—È sottinteso,—assentì la signora.—Ma capisci quale sciocchezza hai commesso?

—Io?—esclamò Nicoletta sbalordita.—Gli ho detto io di far debiti e di accapigliarsi con sua moglie?

—No: ma vedi quali vicini abbiamo?—osservò la madre con improvvisa dolcezza.—La villetta non poteva essere affittata da un altro?

—Oh, da mille altri!—rispose Nicoletta ridendo.—E che me ne importa?

—Eh no, no! Un altro la voleva; io lo so,—disse la signora sempre dolcemente, con un piccolo sorriso.—E per colpa tua, è andato tutto in fumo.

—Signore Iddio, vi ringrazio!—esclamò Nicoletta.—Duccio! La voleva Duccio! Ora ho capito; e io l'ho pregato di star lontano…. È di questo che mi accusi?… Ma ne sono molto soddisfatta, devo confessartelo. Ti figuri una vicinanza simile?

—E perchè no? Il conte Duccio Massenti è uno squisito gentiluomo, la cui compagnia avrebbe fatto piacere a tutti.

—Fuori che a me!—interruppe Nicoletta.

—E tuo padre e tua madre non contano nulla, allora?—domandò la signora Carlotta, aggrottando le sopracciglia.

—No: in questo caso non contano proprio nulla,—ribattè Nicoletta.—Perchè Duccio non sarebbe già venuto per voi, ma per me. È inutile seguitar la commedia. So benissimo ch'egli vorrebbe sposarmi: me lo ha fatto capire in tutti i modi. E allora sarebbe toccato a me sopportar lunghe ore di conversazione sentimentale, ascoltar la sfilata delle sue speranze, far le passeggiate a due, col papà o la mamma all'orizzonte, per decoro…. Meglio il conte Fabiano e i suoi debiti. L'uno e gli altri non ci riguardano!

—Ma che cosa vuoi, che cosa vuoi tu?—gridò di scatto la signora, alzandosi in piedi.

Nicoletta, che aveva recato alla bocca la tazza, guardò sua madre di sopra l'orlo di quella, assaporando la cioccolata che rimaneva.

Era un poco sorpresa dall'impazienza aggressiva della signora; ma quando si accorgeva che gli altri avevano torto, si faceva subito fredda e indifferente, per vendetta.

—Che cosa voglio?—ella ripetè, deponendo la tazza sulla sottocoppa.—Chiedimi piuttosto che cosa non voglio. Non voglio il matrimonio, per ora almeno, col conte Duccio Massenti. È troppo presto: non lo conosco.

—Sfido io!—esclamò con un largo gesto la signora Carlotta.—Se lo mandi lontano, ogni volta che cerca avvicinarsi, il poveretto!…

—Segno che non m'interessa!—dichiarò la fanciulla semplicemente.

Poi, quasi leggendo dentro il proprio animo, soggiunse:

—Che cosa voglio? È difficile dire. Qualche cosa che non sia troppo comune, troppo volgare, perchè mi sembra di meritar più che le altre.

La signora Carlotta che stava per andarsene, trovò opportuno fermarsi per dare segno della sua disapprovazione.

—Ti sembra volgare e comune il partito che ti offriamo?—disse.—Che desideri? Un Re? Un Imperatore? Sei sempre con la testa all'arte e al palcoscenico?

—Non è questo, non è questo!—osservò la fanciulla, scuotendo il capo assorta, con gli occhi nel vuoto.—Non distinguo tra un matrimonio e l'altro…. Non ti saprei dire….

La madre riconobbe d'essere stata una sciocca ad aprire una discussione così imprudente, e ammirò ancora una volta il marito che fuggiva le chiacchiere inutili. Nulla di più vano che chiedere a una fanciulla di diciotto anni che cosa vuole; a diciotto anni non si sa; molti uomini non lo sanno a trenta e a cinquanta, e camminano lo stesso.

Fatte rapidamente queste riflessioni, la signora Carlotta mutò discorso:

—Non esci?—chiese alla figliuola.—Il tempo è bello; c'è un poco di vento, ma non infastidisce troppo.

—Sì,—rispose Nicoletta.—Ora vado.

E invece d'avviarsi alla soglia, per la quale sua madre era passata ed uscita, si levò da tavola e andò a sedersi in una poltrona, di contro al giardino, che il sole illuminava per ogni angolo, che il vento faceva tremare.

Che cosa voleva?

Nulla più la irritava che quella domanda categorica, la quale sembrava attendere una categorica risposta; come se di fronte al mondo e alla vita il volere fosse cosa semplice, il desiderio fosse definibile; come se nella sua anima giovane e palpitante non avessero dovuto vibrar mille incertezze, mille timori, mille ritrosie, mille illusioni.

Anche non sapere ciò che si vuole è uno stato d'animo, pensava Nicoletta; uno stato d'animo doloroso, che pure ha la sua triste dolcezza; uno stato d'animo che non ammette definizioni, perchè ciò che si vuole qualche volta è fuori del mondo.

E suo padre e sua madre non potevano capire simili fantasie.

La freccia nel fianco

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