Читать книгу Il fu Mattia Pascal / Покойный Маттиа Паскаль. Книга для чтения на итальянском языке - Луиджи Пиранделло - Страница 6

VI
Tac tac tac…

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Lei sola, là dentro, quella pallottola d’avorio, correndo graziosa nella roulette, in senso inverso al quadrante, pareva giocasse:

«Tac tac tac…»

Lei sola: non certo quelli che la guardavano, sospesi nel supplizio che cagionava loro il capriccio di essa, a cui – ecco – sotto, su i quadrati gialli del tavoliere, tante mani avevano recato, come in offerta votiva, oro, oro e oro, tante mani che tremavano adesso nell’attesa angosciosa, palpando inconsciamente altro oro, quello della prossima posta, mentre gli occhi supplici pareva dicessero: «Dove a te piaccia, dove a te piaccia di cadere, graziosa pallottola d’avorio, nostra dea crudele!».

Ero capitato là, a Montecarlo, per caso.

Dopo una delle solite scene con mia suocera e mia moglie, che ora, oppresso e fiaccato com’ero dalla doppia recente sciagura, mi cagionavano un disgusto intollerabile; non sapendo più resistere alla noja, anzi allo schifo di vivere a quel modo; miserabile, senza né probabilità né speranza di miglioramento, senza più il conforto che mi veniva dalla mia dolce bambina, senza alcun compenso, anche minimo, all’amarezza, allo squallore, all’orribile desolazione in cui ero piombato; per una risoluzione quasi improvvisa, ero fuggito dal paese, a piedi, con le cinquecento lire di Berto in tasca.

Avevo pensato, via facendo, di recarmi a Marsiglia, dalla stazione ferroviaria del paese vicino, a cui m’ero diretto: giunto a Marsiglia, mi sarei imbarcato, magari con un biglietto di terza classe, per l’America, così alla ventura.

Che avrebbe potuto capitarmi di peggio, alla fin fine, di ciò che avevo sofferto e soffrivo a casa mia? Sarei andato incontro, sì, ad altre catene, ma più gravi di quella che già stavo per strapparmi dal piede non mi sarebbero certo sembrate. E poi avrei veduto altri paesi, altre genti, altra vita, e mi sarei sottratto almeno all’oppressione che mi soffocava e mi schiacciava.

Se non che, giunto a Nizza, m’ero sentito cader l’animo. Gl’impeti miei giovanili erano abbattuti da un pezzo: troppo ormai la noja mi aveva tarlato dentro, e svigorito il cordoglio. L’avvilimento maggiore m’era venuto dalla scarsezza del denaro con cui avrei dovuto avventurarmi nel bujo della sorte, così lontano, incontro a una vita affatto ignota, e senz’alcuna preparazione.

Ora, sceso a Nizza, non ben risoluto ancora di ritornare a casa, girando per la città, m’era avvenuto di fermarmi innanzi a una grande bottega su l’Avenue de la Gare, che recava questa insegna a grosse lettere dorate:

DÉPÔT DE ROULETTES DE PRÉCISION

Ve n’erano esposte d’ogni dimensione, con altri attrezzi del giuoco e varii opuscoli che avevano sulla copertina il disegno della roulette.

Si sa che gl’infelici facilmente diventano superstiziosi, per quanto poi deridano l’altrui credulità e le speranze che a loro stessi la superstizione certe volte fa d’improvviso concepire e che non vengono mai a effetto, s’intende.

Ricordo che io, dopo aver letto il titolo d’uno di quegli opuscoli: Méthode pour gagner à la roulette, mi allontanai dalla bottega con un sorriso sdegnoso e di commiserazione. Ma, fatti pochi passi, tornai indietro, e (per curiosità, via, non per altro!) con quello stesso sorriso sdegnoso e di commiserazione su le labbra, entrai nella bottega e comprai quell’opuscolo.

Non sapevo affatto di che si trattasse, in che consistesse il giuoco e come fosse congegnato. Mi misi a leggere; ma ne compresi ben poco.

«Forse dipende,» pensai, «perché non ne so molto, io, di francese.»

Nessuno me l’aveva insegnato; avevo imparato da me qualche cosa, così, leggiucchiando nella biblioteca; non ero poi per nulla sicuro della pronunzia e temevo di far ridere, parlando.

Questo timore appunto mi rese dapprima perplesso se andare o no; ma poi pensai che m’ero partito per avventurarmi fino in America, sprovvisto di tutto e senza conoscere neppur di vista l’inglese e lo spagnuolo; dunque via, con quel po’ di francese di cui potevo disporre e con la guida di quell’opuscolo, fino a Montecarlo, lì a due passi, avrei potuto bene avventurarmi.

«Né mia suocera né mia moglie,» dicevo fra me, in treno, «sanno di questo po’ di denaro, che mi resta in portafogli. Andrò a buttarlo lì, per togliermi ogni tentazione. Spero che potrò conservare tanto da pagarmi il ritorno a casa. E se no…»

Avevo sentito dire che non difettavano alberi – solidi – nel giardino attorno alla bisca. In fin de’ conti, magari mi sarei appeso economicamente a qualcuno di essi, con la cintola dei calzoni, e ci avrei fatto anche una bella figura. Avrebbero detto:

«Chi sa quanto avrà perduto questo povero uomo!»

Mi aspettavo di meglio, dico la verità. L’ingresso, sì, non c’è male; si vede che hanno avuto quasi l’intenzione d’innalzare un tempio alla Fortuna, con quelle otto colonne di marmo. Un portone e due porte laterali. Su queste era scritto Tirez: e fin qui ci arrivavo; arrivai anche al Poussez del portone, che evidentemente voleva dire il contrario; spinsi ed entrai.

Pessimo gusto! E fa dispetto. Potrebbero almeno offrire a tutti coloro che vanno a lasciar lì tanto denaro la soddisfazione di vedersi scorticati in un luogo men sontuoso e più bello. Tutte le grandi città si compiacciono adesso di avere un bel mattatojo per le povere bestie, le quali pure, prive come sono d’ogni educazione, non possono goderne. È vero tuttavia che la maggior parte della gente che va lì ha ben altra voglia che quella di badare al gusto della decorazione di quelle cinque sale, come coloro che seggono su quei divani, giro giro, non sono spesso in condizione di accorgersi della dubbia eleganza dell’imbottitura.

Vi seggono, di solito, certi disgraziati, cui la passione del giuoco ha sconvolto il cervello nel modo più singolare: stanno lì a studiare il così detto equilibrio delle probabilità, e meditano seriamente i colpi da tentare, tutta un’architettura di giuoco, consultando appunti su le vicende de’ numeri: vogliono insomma estrarre la logica dal caso, come dire il sangue dalle pietre; e son sicurissimi che, oggi o domani, vi riusciranno.

Ma non bisogna meravigliarsi di nulla.

– Ah, il 12! il 12! – mi diceva un signore di Lugano, pezzo d’omone, la cui vista avrebbe suggerito le più consolanti riflessioni su le resistenti energie della razza umana. – Il 12 è il re dei numeri; ed è il mio numero! Non mi tradisce mai! Si diverte, sì, a farmi dispetti, magari spesso; ma poi, alla fine, mi compensa, mi compensa sempre della mia fedeltà.

Era innamorato del numero 12, quell’omone lì, e non sapeva più parlare d’altro. Mi raccontò che il giorno precedente quel suo numero non aveva voluto sortire neppure una volta; ma lui non s’era dato per vinto: volta per volta, ostinato, la sua posta sul 12; era rimasto su la breccia fino all’ultimo, fino all’ora in cui i croupiers annunziano:

– Messieurs, aux trois dernier!

Ebbene, al primo di quei tre ultimi colpi, niente; niente, neanche al secondo; al terzo e ultimo, pàffete: il 12.

– M’ha parlato! – concluse, con gli occhi brillanti di gioja. – M’ha parlato!

È vero che, avendo perduto tutta la giornata, non gli eran restati per quell’ultima posta che pochi scudi; dimodoché, alla fine, non aveva potuto rifarsi di nulla. Ma che gl’importava? Il numero 12 gli aveva parlato!

Sentendo questo discorso, mi vennero a mente quattro versi del povero Pinzone, il cui cartolare de’ bisticci col seguito delle sue rime balzane, rinvenuto durante lo sgombero di casa, sta ora in biblioteca; e volli recitarli a quel signore:

Ero già stanco di stare alla bada della Fortuna. La dea capricciosa dovea pure passar per la mia strada.

E passò finalmente. Ma tignosa.

E quel signore allora si prese la testa con tutt’e due le mani e contrasse dolorosamente, a lungo, tutta la faccia.

Lo guardai, prima sorpreso, poi costernato.

– Che ha?

– Niente. Rido, – mi rispose.

Rideva così! Gli faceva tanto male, tanto male la testa, che non poteva soffrire lo scotimento del riso.

Andate a innamorarvi del numero 12!

Prima di tentare la sorte – benché senz’alcuna illusione – volli stare un pezzo a osservare, per rendermi conto del modo con cui procedeva il giuoco.

Non mi parve affatto complicato, come il mio opuscolo m’aveva lasciato immaginare.

In mezzo al tavoliere, sul tappeto verde numerato, era incassata la roulette. Tutt’intorno, i giocatori, uomini e donne, vecchi e giovani, d’ogni paese e d’ogni condizione, parte seduti, parte in piedi, s’affrettavano nervosamente a disporre mucchi e mucchietti di luigi e di scudi e biglietti di banca, su i numeri gialli dei quadrati; quelli che non riuscivano ad accostarsi, o non volevano, dicevano al croupier i numeri e i colori su cui intendevano di giocare, e il croupier, subito, col rastrello disponeva le loro poste secondo l’indicazione, con meravigliosa destrezza; si faceva silenzio, un silenzio strano, angoscioso, quasi vibrante di frenate violenze, rotto di tratto in tratto dalla voce monotona sonnolenta dei croupiers:

– Messieurs, faites vos jeux!

Mentre di là, presso altri tavolieri, altre voci ugualmente monotone dicevano:

Le jeu est fait! Rien ne va plus!

Alla fine, il croupier lanciava la pallottola sulla roulette:

«Tac tac tac…»

E tutti gli occhi si volgevano a lei con varia espressione: d’ansia, di sfida, d’angoscia, di terrore. Qualcuno fra quelli rimasti in piedi, dietro coloro che avevano avuto la fortuna di trovare una seggiola, si sospingeva per intravedere ancora la propria posta, prima che i rastrelli dei croupiers si allungassero ad arraffarla.

La boule, alla fine, cadeva sul quadrante, e il croupier ripeteva con la solita voce la formula d’uso e annunziava il numero sortito e il colore.

Arrischiai la prima posta di pochi scudi sul tavoliere di sinistra nella prima sala, così, a casaccio, sul venticinque; e stetti anch’io a guardare la perfida pallottola, ma sorridendo, per una specie di vellicazione interna, curiosa, al ventre.

Cade la boule sul quadrante, e:

– Vingtcinq! – annunzia il croupier. – Rouge, impair et passe! Avevo vinto! Allungavo la mano sul mio mucchietto multiplicato, quanto un signore, altissimo di statura, da le spalle poderose troppo in sù, che reggevano una piccola testa con gli occhiali d’oro sul naso rincagnato, la fronte sfuggente, i capelli lunghi e lisci su la nuca, tra biondi e grigi, come il pizzo e i baffi, me la scostò senza tante cerimonie e si prese lui il mio denaro.

Nel mio povero e timidissimo francese, volli fargli notare che aveva sbagliato – oh, certo involontariamente!

Era un tedesco, e parlava il francese peggio di me, ma con un coraggio da leone: mi si scagliò addosso, sostenendo che lo sbaglio invece era mio, e che il denaro era suo.

Mi guardai attorno, stupito: nessuno fiatava, neppure il mio vicino che pur mi aveva veduto posare quei pochi scudi sul venticinque. Guardai i croupiers: immobili, impassibili, come statue. «Ah sì?» dissi tra me e, quietamente, mi tirai su la mano gli altri scudi che avevo posato sul tavolino innanzi a me, e me la filai.

«Ecco un metodo, pour gagner à la roulette,» pensai, «che non è contemplato nel mio opuscolo. E chi sa che non sia l’unico, in fondo!»

Ma la fortuna, non so per quali suoi fini segreti, volle darmi una solenne e memorabile smentita.

Appressatomi a un altro tavoliere, dove si giocava forte, stetti prima un buon pezzo a squadrar la gente che vi stava attorno: erano per la maggior parte signori in marsina; c’eran parecchie signore;

più d’una mi parve equivoca; la vista d’un certo ometto biondo biondo, dagli occhi grossi, ceruli, venati di sangue e contornati da lunghe ciglia quasi bianche, non m’affidò molto, in prima; era in marsina anche lui, ma si vedeva che non era solito di portarla: volli vederlo alla prova: puntò forte: perdette; non si scompose: ripuntò anche forte, al colpo seguente: via! non sarebbe andato appresso ai miei quattrinucci. Benché, di prima colta, avessi avuto quella scottatura, mi vergognai del mio sospetto. C’era tanta gente là che buttava a manate oro e argento, come fossero rena, senza alcun timore, e dovevo temere io per la mia miseriola?

Notai, fra gli altri, un giovinetto, pallido come di cera, con un grosso monocolo all’occhio sinistro il quale affettava un’aria di sonnolenta indifferenza; sedeva scompostamente; tirava fuori dalla tasca dei calzoni i suoi luigi; li posava a casaccio su un numero qualunque e, senza guardare, pinzandosi i peli dei baffetti nascenti aspettava che la boule cadesse; domandava allora al suo vicino se aveva perduto.

Lo vidi perdere sempre.

Quel suo vicino era un signore magro, elegantissimo, su i quarant’anni; ma aveva il collo troppo lungo e gracile, ed era quasi senza mento, con un pajo d’occhietti neri, vivaci, e bei capelli corvini, abbondanti, rialzati sul capo. Godeva, evidentemente, nel risponder di sì al giovinetto. Egli, qualche volta, vinceva.

Mi posi accanto a un grosso signore, dalla carnagione così bruna, che le occhiaje e le palpebre gli apparivano come affumicate; aveva i capelli grigi, ferruginei, e il pizzo ancor quasi tutto nero e ricciuto; spirava forza e salute; eppure, come se la corsa della pallottola d’avorio gli promovesse l’asma, egli si metteva ogni volta ad arrangolare, forte, irresistibilmente. La gente si voltava a guardarlo; ma raramente egli se n’accorgeva: smetteva allora per un istante, si guardava attorno, con un sorriso nervoso, e tornava ad arrangolare, non potendo farne a meno, finché la boule non cadeva sul quadrante.

A poco a poco, guardando, la febbre del giuoco prese anche me. I primi colpi mi andarono male. Poi cominciai a sentirmi come in uno stato d’ebbrezza estrosa, curiosissima: agivo quasi automaticamente, per improvvise, incoscienti ispirazioni; puntavo, ogni volta, dopo gli altri, all’ultimo, là! e subito acquistavo la coscienza, la certezza che avrei vinto; e vincevo. Puntavo dapprima poco; poi, man mano, di più, di più, senza contare. Quella specie di lucida ebbrezza cresceva intanto in me, né s’intorbidava per qualche colpo fallito, perché mi pareva d’averlo quasi preveduto; anzi, qualche volta, dicevo tra me: «Ecco, questo lo perderò; debbo perderlo». Ero come elettrizzato. A un certo punto, ebbi l’ispirazione di arrischiar tutto, là e addio; e vinsi. Gli orecchi mi ronzavano; ero tutto in sudore, e gelato. Mi parve che uno dei croupiers, come sorpreso di quella mia tenace fortuna, mi osservasse. Nell’esagitazione in cui mi trovavo, sentii nello sguardo di quell’uomo come una sfida, e arrischiai tutto di nuovo, quel che avevo di mio e quel che avevo vinto, senza pensarci due volte: la mano mi andò su lo stesso numero di prima, il 35; fui per ritrarla; ma no, lì, lì di nuovo, come se qualcuno me l’avesse comandato.

Chiusi gli occhi, dovevo essere pallidissimo. Si fece un gran silenzio, e mi parve che si facesse per me solo, come se tutti fossero sospesi nell’ansia mia terribile. La boule girò, girò un’eternità, con una lentezza che esasperava di punto in punto l’insostenibile tortura. Alfine cadde.

M’aspettavo che il croupier, con la solita voce (mi parve lontanissima), dovesse annunziare:

«Trentecinq, noir, impair et passe!»

Presi il denaro e dovetti allontanarmi, come un ubriaco. Caddi a sedere sul divano, sfinito; appoggiai il capo alla spalliera, per un bisogno improvviso, irresistibile, di dormire, di ristorarmi con un po’ di sonno. E già quasi vi cedevo, quando mi sentii addosso un peso, un peso materiale, che subito mi fece riscuotere. Quanto avevo vinto? Aprii gli occhi, ma dovetti richiuderli immediatamente: mi girava la testa. Il caldo, là dentro, era soffocante. Come! Era già sera? Avevo intraveduto i lumi accesi. E quanto tempo avevo dunque giocato? Mi alzai pian piano; uscii.

Fuori, nell’atrio, era ancora giorno. La freschezza dell’aria mi rinfrancò.

Parecchia gente passeggiava lì: alcuni meditabondi, solitarii; altri, a due, a tre, chiacchierando e fumando.

Io osservavo tutti. Nuovo del luogo, ancora impacciato, avrei voluto parere anch’io almeno un poco come di casa: e studiavo quelli che mi parevano più disinvolti; se non che, quando meno me l’aspettavo, qualcuno di questi, ecco, impallidiva, fissava gli occhi, ammutoliva, poi buttava via la sigaretta, e, tra le risa dei compagni, scappava via; rientrava nella sala da giuoco. Perché ridevano i compagni? Sorridevo anch’io, istintivamente, guardando come uno scemo.

– A toi, mon chéri! – sentii dirmi, piano, da una voce femminile, un po’ rauca.

Mi voltai, e vidi una di quelle donne che già sedevano con me attorno al tavoliere, porgermi, sorridendo, una rosa. Un’altra ne teneva per sé: le aveva comperate or ora al banco di fiori, là, nel vestibolo.

Avevo dunque l’aria così goffa e da allocco?

M’assalì una stizza violenta; rifiutai, senza ringraziare, e feci per scostarmi da lei; ma ella mi prese, ridendo, per un braccio, e – affettando con me, innanzi a gli altri, un tratto confidenziale – mi parlò piano, affrettatamente. Mi parve di comprendere che mi proponesse di giocare con lei, avendo assistito poc’anzi ai miei colpi fortunati: ella, secondo le mie indicazioni, avrebbe puntato per me e per lei.

Il fu Mattia Pascal / Покойный Маттиа Паскаль. Книга для чтения на итальянском языке

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