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IL SEGRETO DI DORA

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Dovevano rivedersi dopo sette anni. E da parecchie notti tutti e due non chiudevano occhio, ossessionati dal ricordo della terribile scena che li aveva divisi: egli smaniante sul giaciglio del carcere che ora gli sembrava imbottito di spine; ella nella camera dove si era rifugiata, come una vedova, dopo di avere fin fatto sigillare e murare l'uscio della camera maritale, quasi non volesse lasciarsi mai vincere dalla tentazione di entrarvi.

Sette anni di carcere per lui, sette anni di austera solitudine per lei avevano ammortito, se non dissipato interamente, i sentimenti di odio e di sdegno da cui erano state travolte le loro giovani vite. E le esortazioni, i buoni uffici dei parenti e degli amici avevano finalmente ottenuto che il pentimento e il perdono iniziassero un'esistenza nuova per quelle due sventurate creature.

Soltanto, il padre di lui nè la mamma di lei non avevano potuto indurre la nuora e la figlia a far smurare l'uscio della camera maritale chiuso così da sette anni. Con inesplicabile risoluzione, ella avea voluto che quell'atto fosse compiuto sotto gli occhi del Giudice istruttore del processo, facendo notare in un verbale firmato dal magistrato e da quattro testimoni che tutto era rimasto nella camera come si trovava nel momento del delitto, sotto la sorveglianza delle guardie di questura.

— Non volete dunque dimenticare, figliuola mia? — Permettetemi di chiamarvi sempre così. — Non avete dunque perdonato? — le diceva il commendatore Loveni, invecchiato più dai dispiaceri che dagli anni.

— Sì.

— Perchè vuoi che rimanga ancora quel triste ricordo? — insisteva la signora Marozzi con le lacrime agli occhi. — Non hai dunque sinceramente perdonato?

— Sì! Sì!

— Perchè, intanto?...

— Perchè!

Dora Loveni rispondeva risolutamente così, senza spiegare la ragione che la faceva ostinare a non accondiscendere alle preghiere del suocero e della madre.

Parenti ed amici parlavano di dimenticare, di perdonare; la stessa cosa ripetevano da un mese a Gabriele Loveni, già sul punto di finir di scontare la pena a cui era stato condannato per omicidio.

— Dimenticare non si può; noi non siamo padroni della nostra memoria — aveva detto Dora alla madre. — Perdonare, sì... Anche quando non si ha bisogno di essere perdonate.

Ma la signora Marozzi, che in sette anni, neppure nei più dolorosi momenti, aveva potuto strappare alla figlia una sola parola di confessione o di difesa, ed era rimasta sotto il peso dell'angoscia dell'altero silenzio che ella non sapeva come interpretare, quel giorno, crollando la testa rispose:

— Tutti abbiamo bisogno di perdono, figliuola mia!

Parve che Dora volesse rispondere qualcosa.

Fece un breve gesto con le mani, un lampo di protesta le si accese negli occhi e, tutt'a un tratto, le si sbiancò estremamente l'ordinario pallore del viso, quel fine pallore di avorio che distingueva la sua bellezza anche ora, dopo sette anni di raccolto dolore che avrebbero fatto sfiorire qualunque altra giovane donna.

Rimase muta e chiusa. Soltanto, dopo alcuni minuti di silenzio, disse:

— Sarà domani, mamma! Ogni ora che passa diminuisce il mio coraggio. E per andargli incontro e non mostrargli che tu, suo padre, tutti gli amici ed io non abbiamo mentito, occorre che mi stordisca, che non pensi. Spesso noi presumiamo troppo delle nostre forze.

— Avete sofferto molto tutti e due!

— Abbiamo anche scontato, tu intendi dire; è vero?

— No, figlia mia! Io non giudico. Se tuo padre fosse vivo ripeterebbe...

— Lo ricordo: Non giudicate per non essere giudicati! Ma tu sei tale che nessuno oserebbe di pensar male di te anche vedendoti commettere un fallo. Sei stata, per l'intelligenza e pel cuore superiore a ogni sospetto... Come sono passati presto questi sette anni!

— Presto? Ah, figlia mia! Egli... non dirà mai così!

— Hai ragione, mamma!

— Nessuno sa del suo arrivo. Sarà qui con l'ultimo treno della notte. Suo padre e l'avvocato Nerucci sono partiti sin da ieri per riceverlo all'uscita dal carcere. E' irriconoscibile, dicono.

— Tanto meglio, mamma! Troverà invecchiata anche me.

— E' irriconoscibile perchè senza baffi e incanutito.

— Che sbaglio questa riconciliazione! Più si avvicina il momento del nostro incontro e più sento la resistenza dell'ostacolo che ci terrà divisi, l'uno estraneo all'altra. Ci sarà sempre... quel cadavere tra noi!

— I morti, figlia mia, perdonano meglio dei vivi.

— Si sente dunque assolto?... Lo ha detto?

— Ha scontato con gran dignità la sua pena. Mai un condannato si è tanto volontariamente segregato dal mondo! In sette anni non ha dato notizie di sè a nessuno, neppure a suo padre. Ha rifiutato lettere e visite, anche di suo padre. Soltanto da poche settimane in qua...

— Ha voluto assaporare meglio la sua condanna.

— Con che amarezza dici questo!

— Conosco il suo orgoglio.

Le parole delle due donne, pronunziate a bassa voce, si dileguavano nell'ombra della sera che aveva invaso il salotto. Madre e figlia parevano assorte nella contemplazione di quel lembo di cielo inquadrato nel vano d'una finestra, limpido, rapidamente cangiante dal puro smeraldo in una tinta smorta, quasi lattea, dove nuotavano due nuvolette ancora rosee degli ultimi riflessi del tramonto.

Parvero morire anch'esse e disperdersi come lievi ondate di fumo. E nella crescente oscurità del salotto si sentivano due respiri affannosi, di persone che avrebbero voluto piangere e si trattenevano a stento.

Dora si rizzò tutt'a un tratto da sedere. Si udì il secco scatto della chiavetta della luce elettrica, che brillò sùbito dall'alto del lampadario.

— Dora, — fece la signora Marozzi — nè allora... nè dopo io non ti ho mai interrogata. Il mio cuore di madre ha sofferto il lungo tormento di non volerti accusare e di non saperti assolvere, poichè tu ti sei chiusa nel più impenetrabile silenzio. Ma in questi momenti dai quali dipende la tua pace — non oso di dire la tua felicità — tu dovresti avere assoluta confidenza in colei che ti ha dato la vita, che ti ha nutrita col suo latte, che ti ha sempre ispirato i più nobili sentimenti con la parola e con l'esempio. Dora mia! Vorrei vederti davanti a lui a fronte alta, con l'orgoglio della donna che non ha peccato neppur col pensiero, o vederti — se è così — con l'umiltà di chi è stata vinta dalla prepotenza di una passione e non ha ingannato vigliaccamente, per calcolo... Tu non hai voluto essere, finora, orgogliosa o umile neppure con me.

— Cara mamma, una persona come te, che scrive libri dove scruta in ogni pagina il cuore della donna, dovrebbe sapere che noi non siamo per nessuno quel che veramente siamo, ma quel che appariamo a traverso certi atti che tradiscono e ingannano. È inutile difendersi.

— Non sempre è vero. Il cuore di una madre...

— Neppure il tuo, — la interruppe Dora — neppure la tua nobile intelligenza, nè la tua esperienza della vita son riusciti a penetrare la verità. C'è quella che ha creduto mio marito; c'è quella che potrei affermare io; c'è quella che risulta, per gli altri, dalla contradittoria testimonianza dei fatti.... Sono sette anni, mamma, che io trambascio sotto il peso di questo orrore: e oggi me ne sento oppressa più che mai. Quale sarà il nostro avvenire?

— La vita ha risorse e compensi che nessuno può prevedere.

— Forse, mamma!

* * *

— C'è stato un momento — continuò il Direttore del carcere — che ho avuto gravi apprensioni per lui. Il suo mutismo dei primi mesi, la sua decisa avversione a ogni lavoro manuale mi facevano supporre un'interna azione della coscienza che avrebbe potuto produrre qualche fatale esplosione: la pazzia o il suicidio, che è un atto di vera pazzia. Lo facevo sorvegliare notte e giorno. Noi abbiamo tante responsabilità. Spesso ci assale l'impreveduto, ma pochi sanno la lotta che sosteniamo per non lasciarci sorprendere. Un giorno egli chiese un'udienza. Fui contento di trovarmi faccia a faccia con uno che non era un condannato volgare.

— Non volle difendersi — disse l'avvocato Nerucci. — Altri che han fatto peggio di lui sono stati assolti.

— La colpa è di voialtri avvocati — replicò il Direttore, sorridendo. — Avevo avuto soltanto una volta l'occasione di vederlo. Sono passati parecchi anni, ma ricordo benissimo l'impressione che mi produsse la persona di suo figlio — si rivolse al commendatore Loveni accasciato su la poltrona accanto all'avvocato — quantunque indossasse la tetra casacca carceraria. Parlò dimessamente; si lagnò della continua sorveglianza a cui si vedeva sottoposto. Glie ne spiegai la necessità. — Senta, — mi disse — sono un galantuomo e un gentiluomo, benchè qui porti al braccio il numero di un condannato che ha ucciso. Le do la mia parola d'onore: non medito niente per sottrarmi alla pena che devo scontare. So di averla meritata davanti agli occhi della Giustizia se non a quelli della mia coscienza. — La vita di un uomo è cosa sacra — risposi. — Anche l'onore dovrebbe esser sacro; ma è inutile discutere. Io la prego di sottrarmi a una sorveglianza che m'irrita mio malgrado. Ripeto: le do la mia parola d'onore che sarò il più rassegnato dei suoi ospiti, il più tranquillo. Voglio esser dimenticato da tutti e dimenticare. — Il regolamento le permette.... — Non voglio usufruire di nessun benefizio del regolamento — mi interruppe. — Lei non può obbligarmi a scrivere, a ricevere lettere e visite. Voglio essere lasciato in pace. Non sono più Gabriele Loveni; ma il numero 614. Quando verrà il momento, se verrà... — Ecco: è arrivato. Suo figlio sarà qui tra pochi minuti. Non lo vedrà vestito da condannato.

Gabriele si fermò, esitante, su la soglia e girò rapidamente lo sguardo attorno come in cerca di qualcuno che si attendeva di trovar là; poi, quasi barcollante, si precipitò tra le braccia del padre.

— E... lei? — domandò, dopo di aver abbracciato anche l'avvocato.

— Era troppo agitata, troppo commossa da poter affrontare lo scomodo di questo viaggio — si affrettò a rispondere il commendatore Loveni.

— Mi sono state consegnate ieri tutte le lettere indirizzatemi durante i sette anni della mia pena... Non ne ho trovato neppur una di... lei!... E' giusto!

— Vita nuova! Vita nuova! — esclamò l'avvocato Nerucci. — Il passato non deve più esistere tra voi due.

— La scienza non ha saputo trovar niente per far dimenticare!

La sua voce era divenuta roca, la sua lingua un po' impacciata, quasi il lungo, volontario silenzio l'avesse alquanto irrigidita.

— E' sempre... bella? — domandò al padre.

— Anche la sua vita è stata una segregazione. Sì, ancora bella, austeramente bella, figlio mio.

Parve scosso da un brivido; e rapidamente si accomiatò dal Direttore. Scendendo le scale, di tratto in tratto si fermava, si voltava indietro.

— Non si vive sette anni fuori della società senza sentire una specie di ribrezzo nel momento di rientrarvi.

— Via! Bando ai tristi pensieri! — gli rispose l'avvocato. — Vede com'è indulgente il sole? Si vela in questo momento per non offenderle gli occhi.

Infatti Gabriele Loveni batteva rapidamente le palpebre sotto la falda del cappello di feltro grigio abbassata nel percorrere il breve tratto per montare in carrozza.

L'avvocato osservava che sette anni di vita carceraria avevano lasciato un'indefinibile impronta nell'aspetto, nei movimenti e nel gesto del suo cliente, rimasto muto, assorto lungo il tragitto dal carcere alla stazione, e durante le tre ore passate in un angolo del «buffet» aspettando l'arrivo del treno che doveva portarli via. Il Commendatore, assaggiando appena le pietanze, guardava suo figlio con l'ansia di chi teme un pericolo e vorrebbe sviarlo, ora, con la sodisfazione di aver raggiunto lo scopo per cui aveva desiderato ancora di vivere in questi ultimi anni.

Gabriele Loveni, lasciata spegnere fra le labbra la sigaretta avidamente cominciata a fumare, pareva smarrito dietro l'inseguimento di un fantasma fuggente.

Si udì il fischio del treno che arrivava.

* * *

Dora indovinò sùbito, dal primo sguardo di suo marito, che astio e livore repressi fermentavano nel cuore di quell'uomo non ostante la replicata domanda:

— Mi hai perdonato? Mi hai perdonato?

— Altrimenti non sarei qui! — ella rispose, fissandolo.

La prese per una mano, accarezzandogliela, premendola tra le sue, fredde come il ghiaccio, stringendola forte.

— Mi fai male!

Dora dovè ritirarla quasi con uno strappo.

Li avevano lasciati soli intanto che di là preparavano la tavola per la cena. Si erano immaginati che quei due, dopo sette anni, avessero molte intime cose da dirsi a quattr'occhi. Invece pareva che le parole gli si arrestassero in fondo alla gola, e si mutassero talvolta in un sommesso gorgoglìo, allorchè Gabriele si fermava in quell'andare da un punto all'altro del salotto con cui tentava di vincere la evidente sua esaltazione.

— Parla! Che vuoi dirmi? Sono disposta ad ascoltare tutto.

Egli faceva cenno con la mano: Niente! Niente!

E quando la signora Marozzi e l'avvocato Nerucci vennero a chiamarli, furono maravigliati di trovarli seduti, lei in un angolo del canapè, lui su una seggiola accanto al tavolino nel centro del salotto come due che avessero esaurito quel che dovevano dirsi.

Attraversando il corridoio che conduceva alla sala da pranzo, Gabriele si era fermato davanti a l'uscio della camera maritale tastando con una mano la muratura, facendo il gesto di buttarla giù; ed era passato oltre.

A tavola si mostrò inattesamente gaio, con strane intermittenze di ironici sorrisi, affermando che certe pietanze del carcere, quelle più comuni, avevano un sapore speciale, un profumo speciale che il palato, per l'assuefazione, ritiene e comunica per qualche tempo ai cibi di fuori; lo aveva sentito dire da parecchi recidivi che lo avevano sperimentato.

All'ultimo cominciò a divagare, tra un sorso e l'altro di caffè, aspirando deliziosamente una sigaretta.

— Avvocato, ricorda il dramma del Calderon «La vida es sueño»? Niente di più vero. Sogno futile, insipido spesso; bello, soave talvolta; atroce e terribile, più incubo che sogno... ordinariamente.

— No, no! Protesto! — rispose l'avvocato!

— Dora, dillo tu: che sogno è la vita?

— Non è sogno, pur troppo! — gli rispose sua moglie.

— Lei, mamma, dirà che è una novella, una fiaba non sempre degna di essere trascritta, è vero?

La signora Marozzi si rivolse al commendatore Loveni:

— Il miglior giudice è lei.

— Discutere è dubitare. La vita, cara signora, per un vecchio come me, è quasi un ricordo e un rimpianto.

Gabriele accesa un'altra sigaretta e, sorbito l'ultimo sorso di caffè, stiè un momento ritto su la persona, con gli occhi socchiusi, poi fece un cenno all'avvocato lo trasse in un angolo e gli parlò sottovoce.

— Sì, domani — egli rispose. — Stranezza di signora; non sono mai riuscito a spiegarmela. La sua giustificazione, suppongo.

Il viso di Loveni si oscurò, parve acquistare una durezza che l'assenza dei baffi e della barba rendeva più notevole.

— Ha bisogno di riposo; vada sùbito a letto — suggerì l'avvocato.

* * *

Abbattuta la muratura, e fatto osservare al marito che i sigilli erano intatti, Dora aveva aperto l'uscio ed era entrata nella stanza maritale per spalancare la finestra e far dissipare il tanfo di rinchiuso.

Gabriele rimaneva fuori torcendosi le mani, mordendosi le labbra davanti allo spettacolo di quella camera un po' in disordine, con una seggiola ancora rovesciata, i cocci della boccetta e dei vasetti del lavamano sparsi sul tappeto, una tenda dell'uscio strappata e pendente a metà dall'asta che la reggeva. Tutto gli faceva rivivere il terribile momento in cui, perduta la testa alla vista di quell'uomo che, datogli uno spintone, tentava di scappare, lo aveva rincorso pel corridoio e per le scale, sparandogli dietro parecchi colpi di rivoltella, uno dei quali gli aveva fracassato il cranio, giù al portone, dove lo aveva raggiunto.

E di fuori, quasi un ostacolo gl'impedisse di entrare, egli guardava, con occhi stralunati, Dora che apriva le cassette interne di un armadio e ne traeva alcuni pacchetti di lettere, depositandoli sul letto là vicino, assieme con tre scatolini di pelle scura.

Balzò dentro con un salto, mise il paletto all'uscio e si precipitò su uno dei pacchi di lettere, sciogliendone il nastro con mani convulse.

— Senti — gli disse Dora. — Tu stai per apprendere un segreto che non ci appartiene e che noi dobbiamo conservare religiosamente. Giurami!... Io l'ho conservato a costo del mio onore.... Giurami!... Giura!

Egli non l'ascoltava; apriva febbrilmente quelle lettere, dava ad esse un'occhiata, fissava Dora un istante, e riprendeva a leggere, mandando fuori, di tratto in tratto, ringhi e ghigni sarcastici, gettando per aria i fogli quasi provasse un'amara delusione o vi scorgesse un puerile tentativo d'inganno.

— Giura! — ella insisteva. — Non vuol dire che ora sia morta: anzi!

— Morta! Morta! — ringhiava lui, lanciando alla moglie terribili occhiate.

— Prima della loro penosissima rottura — riprese Dora — io era stata fida depositaria di queste lettere compromettenti. Quell'uomo voleva riaverle, chi sa perchè, e quel giorno osò di trascinarmi per un braccio qui dove egli sapeva che fossero gelosamente conservate, cercando di riaverle con la violenza... Leggi leggi le ultime, queste qui...

Egli non osava di credere ai suoi occhi. Quel nome di donna ripetuto tante volte, in ogni lettera, appassionatamente, non era di sua moglie.

— Chi, chi scriveva? — egli urlò. Io veggo! Io indovino! Io sento!...

E fiutava le lettere brancicandole.

— C'è il profumo del tuo corpo! C'è il fluido del tuo spirito, sì, sì, non m'inganno... Non mi sono addestrato sette anni inutilmente per acquistare la veggenza che non inganna!

Dora indietreggiava, indietreggiava a quel lento avanzarsi di belva che sta per slanciarsi. Con gli occhi sbarrati, le braccia protese, le mani aperte e le dita curve come grinfie, pareva ch'egli provasse la feroce voluttà di atterrire la vittima al punto di assalirla.

— Gabriele! Gabriele!

A così acutissimo grido di angoscia, nella turbata intelligenza di lui accadde dunque una scossa, una sosta, quasi nella tenebra che la occupava in quel momento scoppiasse tutt'a un tratto un lampo di luce?

Egli si fermò, portò le mani alla fronte, stiè pochi istanti come in ascolto; la tensione di tutti i nervi che gli aveva alterata l'espressione della fisonomia e concitata tutta la persona, si rilassava lentamente, e l'infelice cascava bocconi da quella parte sul letto, gorgogliando inintelligibili parole.

Dora stava per precipitarsi verso l'uscio e gridare al soccorso, ma quelle lettere sparse là, aperte, brancicate, non avrebbero, in quella circostanza, fatto conoscere un segreto custodito finora con tanti sacrifici? E si diè frettolosamente a raccoglierle, a calcarle alla rinfusa, nelle cassette assieme coi tre scatolini contenenti tre piccoli gioielli... Poi, invece di gridare: soccorso! si chinò su lui con gesto materno, di immensa pietà, e, chiamandolo sommessamente a nome, lo baciava sui capelli umidi di sudorino ghiaccio.

Egli si lasciò prendere per una mano e condurre verso il canapè all'angolo della camera. Guardava attorno, trasognato, quasi non riconoscesse il luogo dove si trovava nè la persona che gli stava davanti, in piedi, un po' china verso di lui, e sorridente con visibile sforzo tra le lacrime che cominciavano a rigarle le gote.

— Qui!... Qui!... — balbettò. — Sette anni... fisso qui!... Un terribile chiodo!... Notte e giorno!

— Zitto! Sii tranquillo! Non t'agitare!

— Sì... — egli riprese. — Era dunque quella... Marina Falchi colei che tradiva? E' morta?

— E' morta, sì, la mia amica. Per ciò il suo segreto dev'esserci maggiormente sacro! Ora distruggeremo ogni cosa. Ho voluto conservarle per te quelle lettere; per giustificarmi soltanto davanti a te....

— Può essere? Può essere? Ed hai aspettato sette anni!

— Ho sofferto quanto te!... Oh Dio! Dubiti ancora?

— Non si strappa facilmente un chiodo infisso qui... da sette anni!... Notte e giorno!

Girava attorno la sguardo smarrito, parlava quasi rivolgesse le parole a se stesso. Poi si raccolse in cupo silenzio, chiuse gli occhi, reclinò il capo sul petto, e Dora, sedendoglisi cautamente a lato, ascoltava con ansia il profondo respiro di lui già vinto dal sonno.

* * *

Nessuno in famiglia, neppure la madre di lei, seppe quel che era accaduto in quella appartata camera maritale.

Dora passò due terribili giorni, dissimulando a tutti l'angoscia del dubbio che la straziava. Suo marito, a intervalli, ricadeva in uno stato di eccitazione mentale molto vicino alla pazzia. Poi, quasi destandosi da una specie di dormiveglia, di stupore, ripeteva desolatamente:

— Sto male!... Sto male! Non guarirò più!... Povera Dora!

— Se tu permettessi di consultare il nostro dottore!...

— No!... Non voglio la compassione di nessuno, neppure di un dottore!

— Ma già tu ti allarmi per una lieve depressione nervosa.

— Stavo meglio... colà... in carcere. Colà... avevo almeno la certezza!

— Quale certezza?

— Vedi?... Ancora non so abbracciarti... nè baciarti come una volta... Ho paura di trovare su le tue labbra le traccie... Perchè ho ucciso dunque? Perchè sono stato condannato?

— Gabriele!

Bastò questo dolce richiamo per farlo rientrare sùbito in sè, per calmarlo in quell'angolo di canapè dove egli, da due giorni, passava le ore fumando continuamente, con un mucchio di libri nuovi su una seggiola, dei quali scorreva soltanto qualche pagina con paurosa repugnanza. Aveva trovato in uno di essi: — Noi non sappiamo niente della realtà delle cose. Siamo vittime dell'apparenza.

E n'era rimasto sconvolto.

Il terzo giorno Dora lo trovò sdraiato sul canapè con le mani strette alla fronte, quasi per comprimere un gran dolor di testa. Teneva chiusi gli occhi.

— Sei tu, Dora?

— Che hai?

— Dora! Dora! Quel segreto mi uccide.... Che m'importa di colei?... Tanto peggio per la morta!

— Perchè dici così, Gabriele?

— Perchè tu ed io siamo vittime dell'apparenza. Non dev'essere! Non voglio che sia così!

— Ormai!...

— Non dev'essere così!... Non voglio che sia così!... Quel segreto mi uccide!

Si era fermato ad ascoltare. Dalla via saliva un rumore confuso di evviva misto al suono della banda cittadina che soffiava quasi rabbiosamente l'inno reale.

— Tanto peggio per la morta!

E prima ch'ella potesse impedirglielo, Gabriele era corso all'armadio, aveva afferrato il mucchio delle lettere ancora aperte e sgualcite come vi erano state calcate in fretta e furia quella mattina, e, stringendosele al petto con tutte e due le mani, le versava sul marmo della finestra, di lato, per poter spalancare metà della vetrata e buttar giù tra la folla che passava plaudente per la via il segreto che lo uccideva.

— Non devo saperlo io solo che tu sei innocente! Devono saperlo anche gli altri...

E si opponeva agli sforzi di Dora; le strappava di mano quei fogli ch'ella tentava di sottrarre, e li sparpagliava fuori, per l'aria, ripetendo:

— Tanto peggio per la morta! Tanto peggio per la morta!

E aveva negli occhi la feroce gioia di un folle.

Eh! la vita

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