Читать книгу Tempesta e bonaccia: Romanzo senza eroi - Marchesa Colombi - Страница 16
XIV.
ОглавлениеI miei amici stavano congedandosi da Fulvia.
—Domani, ella diceva, non riceverò nessuno sino alle quattro; perchè voglio studiare, e loro mi fanno perdere tutto il mio tempo.
—Dunque verremo alle quattro, disse Giorgio.
Io pure le porsi la mano in atto di saluto, e, trattenendo la sua, domandai:
—Ed io, a che ora debbo venire?
Comprese ella l'impertinenza di quella domanda, che rilevava a tutti che io mi credeva in diritto di aspirare ad una preferenza? Comprese ella, che agivo con lei, artista, come non avrei mai agito con nessun'altra signora? Comprese che, stupido e vile, la insultavo senza ragione?
Forse lo comprese, e lo perdonò al mio amore, inasprito dalla presenza altrui, che mi strozzava in gola la suprema parola; o forse il suo animo eletto non sospettò neppure la viltà del mio pensiero, e, sentendosi superiore ad ogni insulto, non pensò che altri l'insultasse. E non interpretò nella mia domanda, che il desiderio di vederla più presto, e la speranza d'essere distinto dagli altri. Ella rispose:
—Venga alle quattro.
Ma le sue parole soltanto dicevano così; e la sua voce invece, e la sua mano che premeva la mia, rispondeva:
—Vedi bene che non posso dirti, presente altri, di venir prima; ma vieni presto, perchè ti amo.
Fulvia, cara donna del mio cuore, hai tu udita dalla tua stanza solitaria la mia voce commossa mandarti un canto? Era il canto del pentimento, era una preghiera di perdono ch'io volgeva alla lealtà dell'anima tua. E tu mi perdonasti; ed io stesso mi perdonai, perchè, se il primo pensiero avvezzo a prendere norma ne' suoi giudizi dalle convenzioni sociali ha potuto insultarti, il mio cuore ti amava, Fulvia; ti amava col caldo trasporto d'una passione che poteva guardare senza spavento e senza rimorsi il domani e l'avvenire; ti amava di quell'amore impetuoso e vero, e che a tutto sovrasta e tutto purifica.
Per lunghe ore m'aggirai nelle contrade buie e silenziose adiacenti all'Albergo Milano, mandando alla notte ed a lei canti d'amore.
Il mio cuore nuotava in un'onda di dolcezze, aspirava soavemente la delizia di sentirsi amato. Ma il mio pensiero irrequieto precorreva con impazienza il domani; preparava il primo incontro ed il correr muto delle nostre braccia a stringerci l'uno all'altra, e l'irrompere delle ferventi parole, per tanta ora frenate in quella sera.
Passai una notte agitatissima, tormentato da ardenti fantasie. Mi pareva che all'alba volerei da Fulvia.—Ma colla luce venne la ragione, e vidi l'assurdità di comparire alle sei del mattino in casa di una signora, senza averne l'ombra di un diritto.
Il sonno mi opprimeva, ed il mio capo, affaticato da quella veglia affannosa, aveva bisogno di riposo. Nascosi il volto nel guanciale, e, dopo una breve lotta co' laboriosi pensieri che mi si agitavano, sebbene affievoliti, nella mente, il sonno la vinse.
Mi risvegliai alle dieci, cogli occhi riposati e la mente tranquilla. Tuttavia ero ancora un po' assonnato, e dinanzi a quella prepotente esigenza fisica tacque l'impazienza del desiderio morale, e sonnecchiai fino alle dieci e mezzo.
Ma tra il sonno e la veglia, l'immagine della donna amata mi tornò al pensiero, e si fece a grado a grado più viva, sicchè l'ansia di rivederla e di sentir dal suo labbro che mi amava, e di dirglielo, mi si riaccese ardentissima in cuore. Mi levai, ed alle undici mi fermavo alla sua porta, anelante pel battito accelerato del cuore.—Giungevo trionfante e sicuro come un conquistatore; ma all'atto d'entrare fui imbarazzato del mio contegno; compresi che tutte le scene che mi ero figurate nella notte erano assurde; che in realtà non avevo nessuna ragione seria di credermi amato; che sotto pena di ridicolo, non potevo presentarmi che precisamente come mi ero presentato tutti gli altri giorni.
Pensai anche una scusa per giustificare quella visita mattutina; e so d'averla trovata; ma non me ne valsi, e la dimenticai completamente.
Fulvia stava studiando, e faceva sul pianoforte una scala cromatica. La porto profondamente scolpita nella memoria, e mi è impossibile di ripensare a quel giorno senza che quella scala cromatica mi risuoni all'orecchio.
Bussai alla porta, ed il suono cessò.—La voce di Fulvia disse: «Avanti!» Non era punto commossa. Certo credeva che fosse un cameriere dell'albergo.
Ella, naturalmente, non soleva alzarsi da sedere quando entravano uomini; ma quella mattina si alzò, e mi venne incontro.—Non so se quella notte avesse fatto come me progetti appassionati; ma certo a quell'ora aveva pensato al par di me che dovevamo incontrarci coi modi semplici e contegnosi degli altri giorni. Oh, la tirannia delle convenienze!
—Come va, caro signor Guiscardi?—mi disse stringendomi la mano. Mi guardai intorno per vedere chi fosse il signor Guiscardi. A forza di pensare che dovesse chiamarmi Max, avevo dimenticato il mio cognome. Quel saluto mi suonò gelido, e ne fui sbalordito.
—Buon giorno! buon giorno, Fulvia; le risposi con aria affaccendata guardando il soffitto.
Fulvia m'invitò a sedere accanto a sè; mi fece varie interrogazioni che non compresi, e certo vi risposi a sproposito. Ella voleva sembrare calma, ma era evidentemente turbata. Quell'alzarsi, per venirmi incontro, aveva tradito il suo imbarazzo. Il suo sguardo sfuggiva il mio, e le sue domande si succedevano con assurda rapidità senza aspettare le risposte. Si sarebbe detto che non volesse lasciarmi tempo a dire qualche cosa che temeva di udire.
Alzandosi dal pianoforte aveva preso in mano gli esercizi di Kramer che stavano sul leggìo, e continuava a sfogliarli, ed a protendere il capo per leggere a quando a quando una nota in una pagina socchiusa, come se quella fosse l'argomento dei nostri discorsi.
E tutto ciò faceva per non guardarmi in viso; ma io era felice, perchè sentivo che, al primo incontrarsi dei nostri sguardi, quella momentanea commedia sarebbe diventata impossibile; ci saremmo trovati in faccia alla realtà;—e la realtà era il nostro amore.
Ed intanto parlavamo molto. Ci prendevamo la parola l'un l'altro, e parlavamo tutti e due ad un tempo.
In un momento ch'ella aveva posato il suo fascicolo chiuso sulla tavola, e vi teneva sopra la bella mano, io posai sovr'essa la mia, timidamente. Ma a quel contatto il battito del mio cuore perdette ogni misura, chinai il volto su quella mano, e vi impressi un bacio. E tutti e due eravamo ammutoliti.
Giammai avevo provato una simile dolcezza.—Le andavo ripetendo senza posa:—Mi amate, Fulvia? Mi amate?
—Oh, lo vedete bene! mi rispose evitando i miei occhi che cercavano i suoi.
—Oh, ditelo, Fulvia; ditelo voi!
—Ebbene…. sì, mi disse con un filo di voce agitata e commossa.
—Dammi del tu, Fulvia, chiamami Max; dimmi ancora che mi ami.
Un istante ella alzò gli occhi, che rifulsero un lampo d'amore; e riabbassandoli tosto, mormorò:
—Sì, Max, ti amo!
Oh, quel tu, e quel nome pronunciati da lei, mi inebriarono. Perdetti ogni facoltà di ragionare, e prendendole il capo fra le mani, posai le labbra sulla sua fronte.
In quel momento il mio sguardo doveva esprimere tutto il trasporto che avevo in cuore.
La povera giovane ne ebbe paura, e con voce tremante mi disse:
—Se è vero che mi amate, sappiate rispettarmi, Massimo.—Pensate che sono sola.
Questa parola mi richiamò in me stesso, e ad un tempo mi atterrì. Mi staccai precipitosamente da lei, e la guardai per leggere sul suo volto quanto vi fosse di verità in quella preghiera.
Avevo completamente dimenticato che Fulvia era un'onesta giovane; e la mia immaginazione fantasticava già un amore senza ostacoli e senza freno. Quella voce mi ricordò la realtà; ebbi paura di me.
In quel momento provai un grande imbarazzo. Avevo trent'anni ed avevo molto amato. Pure era la prima volta che mi trovavo in faccia ad un amore puro. Un istante pensai.
Essere amato da un'artista, che viaggia sola,—e rispettarla; e filare il sentimento come un collegiale.—Sarebbe ridicolo!
E tradussi codesto pensiero mefistofelico in uno sguardo pieno d'ironia.—Ma i miei occhi si scontrarono con quelli di Fulvia che, attonita del mio silenzio, mi interrogava collo sguardo. Quegli occhi erano pieni di lagrime, ed il suo volto era arrossito come non può arrossire che una donna onesta.
Il mio sguardo ed il mio cuore ridivennero buoni; la vidi e la credetti pura, ed ebbi fede in lei. Le presi la mano, e con sincerità profonda le dissi:
—Come farò a rispettarvi, Fulvia? Ora che so che mi amate!
—Amandomi molto e davvero, mi rispose.
—Ma io non so amare per metà.
—Io v'insegnerò; non ad amarmi per metà, ma a resistere al vostro stesso amore; e quando voi sarete debole, io sarò forte per tutti e due.
M'inginocchiai accanto a lei. Il mio cuore era profondamente commosso, ed il mio pensiero vagava in un'onda di contento indeterminato.
Continuavo a baciare con trasporto le sue mani, e le domandavo ancora, ed ancora:
—Mi amate, Fulvia?
—Pur troppo, vi amo—mi rispose con voce soffocata.
A quelle parole, dolorose per me, la guardai negli occhi;—erano gonfi di pianto.
—Perchè dite pur troppo? Perchè piangete? Vi dispiace di amarmi?
—Sì, mi rispose piangendo.
—Ma perchè? Cosa v'ho fatto, Fulvia? Siete scontenta di me?
—Non di voi, Massimo; di me sono scontenta. Avrei dovuto combattere codesto amore; nasconderlo; fuggirvi. Sono stata troppo debole; e voi troppo appassionato: fui troppo facile a svelarlo.
—Oh, non lo dite! esclamai. È tanto tempo che io vi amo; che ve lo faccio comprendere.—E le schierai una quantità di soavi ricordate? rammentandole ad una ad una le mie mute dichiarazioni, i miei trasporti, le mie speranze, le mie smanie, le mie gelosie…
Ella mi ascoltava senza cessare di sospirare e di piangere. Erano le lagrime che si danno ad un cadavere da cui si è sul punto di separarsi per sempre.
Finalmente mi disse:
—Che avrete pensato di me ieri sera, quando io strinsi furtivamente la vostra mano? Se sapeste come ho sofferto tutta notte ripensando a quell'atto! Come me lo rimproverai!
—O Fulvia!—Fui così felice in quel momento; non lo rimpiangete. Quello slancio impensato è una prova della vostra lealtà. Voi non conoscete le arti di fingere un'indifferenza provocante, per invitare l'amore a rivelarsi.—Amate e lo lasciate comprendere. Siete buona e sincera.—Non istate a pentirvene; non vi dolete d'avermi fatto felice.