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LUCIANO E IL BLACK-OUT

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Era una di quelle calde sere d'estate in cui le città sono quasi deserte, e i pochi sfortunati rimasti non hanno niente di più impegnativo da fare se non oziare senza fretta o cercare un po' di fresco, compagnia e divertimento, possibilmente tutto insieme. E io li invidiavo molto.

Con la camicia zuppa di sudore avevo trascorso il pomeriggio a riempire pacchi e a caricarli su un furgoncino, gentilmente prestatomi da un amico che però non aveva potuto o voluto concedermi anche la sua compagnia. Poi avevo guidato quel catorcio, senza aria condizionata e arroventatosi al sole, fino a via dei Ginepri. Soffrendo il caldo e l'afa sopportai anche le farneticazioni dei miei pensieri, che ragionavano sul fatto che un trasloco andrebbe organizzato diversamente e che la mia vita era sempre stata una sequela di errori e stupidaggini di cui quella non sarebbe certo stata l'ultima. Per cercare di consolarmi pensai alle tante cose che quel giorno avrebbero potuto andare peggio (avrei potuto rompere qualcosa durante l'imballaggio; e il furgoncino, nonostante l'apparenza sgangherata, non mi aveva lasciato per strada), ma arrivato sotto la mia nuova casa mi resi conto che qualche brutta sorpresa mi aspettava ancora.

Era buio, e non solo perché ormai era sera. Il cielo era coperto di minacciosi nuvoloni neri. Ogni tanto si intravvedevano dei lampi silenziosi e lontani. Ero sicuro: di lì a poco sarebbe venuto giù un acquazzone terribile. Decisi che per prima cosa avrei scaricato il necessario per poter dormire; il resto avrebbe potuto aspettare l'indomani.

Entrando nel palazzo con il materasso in spalla presi coscienza anche del fatto che il buio era dovuto non tanto ai nuvoloni, quanto alla mancanza di luce elettrica. Ergo, tre piani senza ascensore. E benché il palazzo fosse praticamente nuovo, l'unica lampada di emergenza funzionante la incontrai al primo piano.

Dieci minuti, tre viaggi e più di quindici piani dopo, esausto ed ancora più sudato, stavo sistemando il materasso sulla brandina nell'ingresso di casa mia. Non aveva ancora iniziato a piovere, ma di continuare a scaricare non mi andava proprio. Mi sarei messo insieme una specie di cena con alcune scatolette che mi ero portato, e poi subito a nanna.

Certo che con quel buio non era cosa semplice. Almeno ci fosse stata una torcia a pile nel furgoncino, e invece niente. Però, pensai, potrei provare a chiedere a qualche vicino se ha una candela in più, sempre che trovi qualcuno.

Mi feci coraggio e andai a suonare alla porta accanto. Ovviamente il campanello non funzionava e dovetti bussare, ma comunque non rispose nessuno. Chiuso per ferie, pensai. Però mi parve di sentire dei rumori da uno degli appartamenti di fronte, e andai a bussare lì.

“Giovanni, sei tu?”

Mi rispose una voce da uomo, direi di mezza età.

“Mi scusi, non sono Giovanni. Sono il nuovo inquilino di fronte. Mi chiedevo se avesse una torcia elettrica o una candela in più da prestarmi. Con questo buio è tutto così difficile!”

In risposta udii per prima cosa un girare di chiavi nella serratura.

“Giovanni dice di non aprire a nessuno. Ma come si fa, se non c'è un po' di fiducia e solidarietà neanche tra vicini di casa? Anche perché una candela da qualche parte mi pare di averla.”

Nel frattempo continuava ad aprire serrature. Alla fine ne aveva aperte almeno tre. Non potei fare a meno di pensare che, al contrario di quel Giovanni che doveva essere estremamente prudente e diffidente, il mio vicino confidava anche troppo nella buona fede della gente. Non mi aveva mai visto: e se fossi stato un rapinatore?

“Venga, le faccio strada”, mi disse dopo aver aperto la porta.

Entrai e lo seguii. Ricordando le raccomandazioni di Giovanni avevo chiuso la porta dietro di me; ma me n'ero quasi pentito perché, se sul pianerottolo si vedeva poco, là dentro era buio assoluto.

“E' da molto che manca la luce?”, chiesi così per dire qualcosa.

“Direi da ieri pomeriggio. Il peggio è che di giorno, con questa temperatura e coi condizionatori che non vanno, fa un caldo infernale. Attenzione alla sedia, qui.”

Le sue parole mi aiutarono a seguirlo e a mantenere un contatto con lui - che invece nel buio sembrava muoversi molto bene - in attesa che le mie pupille si adeguassero a quella totale oscurità. Quando ciò avvenne mi resi conto di essere in cucina, accanto al ripiano tra il lavandino ed il piano cottura.

“La candela deve essere proprio lì vicino a lei, e qui ci sono i cerini.”

Presi la scatolina che mi stava porgendo, la poggiai e ne estrassi un fiammifero. Poi trovai a tastoni la candela davanti a me, una di quelle sottili da processione.

“La ringrazio molto. E' sicuro che non serva a lei?”

“Non si preoccupi, la prenda pure”, mi rispose sorridendo.

Accenderla non fu molto semplice, ma ci riuscii. Finalmente la stanza si illuminò. Quasi d'istinto cercai di guardare negli occhi il mio interlocutore, ma non ci riuscii perché egli, quasi gli fosse venuto in mente all'improvviso, aveva estratto dal taschino della sua giacca un paio di occhiali e li aveva indossati. Erano lenti scure, da sole: cosa piuttosto strana, pensai, a meno che egli non fosse …

“Mi scusi, Giovanni mi dice sempre che non dovrei mai togliere gli occhiali da sole. Forse è vero. Ma non creda che mio fratello abbia sempre ragione. Per esempio, se fosse stato per lui non avrei neanche dovuto conservare questa candelina, un potenziale pericolo che non avrebbe mai potuto essermi di alcun aiuto.”

Così conobbi Luciano, il mio vicino preferito. Una persona squisita, un carattere solare e, lasciatemelo dire, una mente brillante.

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