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IO E AUGUSTO, I DUE INVISIBILI DELLA CLASSE
ОглавлениеAlle scuole superiori mi trovai decisamente male. Non per colpa dei professori, le cui valutazioni mi sembravano tutto sommato eque, almeno per quello che mi riguardava. Non sembravano influenzate né dalla mia nazionalità né dal fatto che fossi musulmano. Del resto non so se fossero fatti conosciuti a tutti. La mia diversità non si evinceva immediatamente dalla carnagione, ma neanche dal mio nome e cognome, Stefan Moffat, per gli amici Stefano.
Chi mi trattava male erano i miei compagni. Almeno così mi sembrava. Perché essere ignorato in modo così evidente ed in mia presenza mi sembrava non meno grave ed offensivo che essere trattato male con parole o fatti.
A volte avevo la sensazione di essere invisibile. Parlavano tra di loro delle vicende della classe e degli altri compagni, ma con me o di me sembrava che nessuno volesse parlare. Certo se domandavo qualcosa mi venivano date le risposte o le spiegazioni che chiedevo, ma con formalità, come se fossi un estraneo, o un professore; anzi, coi professori avevano più confidenza. Direi invece come se fossi stato di un'altra classe, o di un altro mondo. E di questo soffrivo terribilmente.
Per fortuna mi restavano ancora gli amici della mia vecchia classe, e avevo comunque molti interessi extrascolastici: questo da un lato mi permise di sopravvivere, facendo sì che il mio orgoglio ferito non scoppiasse, e dall'altro mi consentì di osservare la mia nuova situazione con un distacco ed una razionalità quasi da studioso, come se non si trattasse di me.
In classe li sentivo regolarmente prendere accordi per vedersi fuori, in genere il sabato pomeriggio, e andare ora al cinema, ora al luna park, ora chissà dove. Magari non erano i miei svaghi preferiti, magari avrei rifiutato, ma mi sarebbe piaciuto moltissimo essere invitato.
Mi sforzai per un po' di trovare mie eventuali colpe o responsabilità in questo tipo di comportamento. Lo attribuii dapprima al fatto che non usassi quel tipo di moderni aggeggini tascabili - colorati e tanto di moda - per giocare, guardare l'ora, telefonare o chissà cosa. Forse era motivo di inconfessato o inconscio disprezzo nei miei confronti. Ma anche altri non l'avevano, e per questa ragione erano magari affettuosamente canzonati o sbeffeggiati, il che per me sarebbe stato sempre molto meglio che essere ignorato.
Ipotizzai allora che la spiegazione di tutto fosse la mia diversa religione. Per verificarlo decisi che avrei seguito anch'io le lezioni di religione cattolica, così come buona parte della classe. E per questa mia decisione, tra l'alto, oltre a smuovere la burocrazia scolastica ebbi anche a venire in contrasto con mio padre. Mi diede del pecorone, del senza coraggio, senza cuore e senza testa. Ragiona, mi disse: se ti discriminassero a motivo della loro religione, non sarebbe questa una valida motivazione per disprezzarla?
Ma siccome mio padre era un uomo saggio, alla fine convenne che era giusto che io sperimentassi con mano, che facessi le mie esperienze, in modo che le mie scelte fossero più consapevoli. E non mi portò rancore.
Mio padre aveva ragione: avrei dovuto disprezzare quella religione se, avvicinandomi ad essa, fossi stato per incanto accettato, invitato ad uscire, considerato come uno della classe. Ma così non fu. A parte un certo piacevole stupore nell'insegnante di religione, non cambiò nulla.
Io abitavo proprio di fronte alla scuola. Sapevo quando i ragazzi si incontravano là sotto per le loro uscite, e per andare dove; e così a quell'ora guardavo fuori dalla finestra, per vedere dall'alto chi c'era, quello che facevano, come si comportavano. In genere si ciondolavano là davanti per quindici venti minuti, a volte per aspettare qualche ritardatario, a volte senza motivo, e poi si dirigevano come un gregge nella direzione attesa. Erano piccoli e buffi, visti da lassù.
Le prime volte osservavo queste scene con straziante dispiacere; ma poi sempre più con curiosità. Alle volte aprivo anche i vetri, per cercare di captare qualche parola o qualche discorso, cosa che però mi riusciva solo con qualche persona.
Una volta uscii anche di casa proprio a quell'ora, attraversando il gregge in attesa e fingendo che la cosa fosse casuale. Qualcuno mi salutò. “Ciao, Stefan. Oggi anche tu sei dei nostri?” Ma a me non sembrò propriamente un invito. “Passavo di qui solo per caso”, risposi, e tirai avanti.
Poi ci fu l'arrivo di Mariangela, e le cose sembrarono cambiare. Giunse nella nostra classe con qualche mese di ritardo. Era spaesata, e ovviamente suscitò una certa curiosità in tutti noi. Fu accettata piuttosto bene da tutti, e per il sabato successivo era stata invitata alla solita uscita.
“Vieni anche tu oggi pomeriggio, vero?”, mi chiese. Non so perché, ma questo invece mi era sembrato un invito. Era arrivata da così pochi giorni, ed era stata proprio carina con me.
“Sì, potrei venire.”
E così quella volta mi trovai là sotto insieme al gregge ad aspettare non so cosa. Poi si andò ad una pista di kart dove, visti i prezzi, finimmo per trascorrere il pomeriggio guardando degli sconosciuti che giravano come degli stupidi attorno attorno, su piccole vetture dal grande frastuono.
Io cercai di parlare un po' con Mariangela, di conoscerla meglio. Forse gli altri avevano già avuto modo di conoscerla, perché non era al centro dell'attenzione di tutti come mi aspettavo; o comunque la sentivano già parte della classe. Ne ebbi un'impressione molto positiva: mi sembrò una ragazza semplice, normale, molto umana, e per questo molto bella.
Presto capii che mi ero sbagliato. Qualche giorno dopo la sentii prendere accordi per vedersi al solito posto e alla solita ora.
“Anche questo sabato vi vedete nel pomeriggio? Andate da qualche parte?”, le chiesi io più tardi con indifferenza, per non far vedere che ci tenevo troppo. Ma lei, mentendo spudoratamente:
“Non so, non mi risulta. Ancora non ho saputo niente. Magari ti faccio sapere.”
E così la volta dopo osservai anche lei dalla finestra, puntino dall'alto, pecorella del gregge, e mi ritrovai sdraiato sul mio letto a piangere più del solito,
Poi un giorno mi accorsi di Augusto. Augusto era un mio compagno di classe, alto e grosso, ma non muscoloso; eppure uno che passava inosservato. Alle lezioni, comprese quelle di religione, era sempre presente, ma non sembrava mai parteciparvi veramente. La sua testa sembrava altrove, chissà dove. Se un giorno avessero messo un suo manichino sulla sua sedia al posto suo, forse io stesso non mi sarei accorto della differenza.
Constatando ciò diventai persino più indulgente coi miei compagni: forse io facevo loro lo stesso effetto che faceva Augusto a me, l'effetto del mantello dell'invisibilità.
Mi resi conto che alle uscite di classe lui era quello che mancava sempre, ma proprio sempre, oltre a me, che anzi una volta avevo partecipato. Per questo suscitò in me una gran curiosità, ed una gran simpatia.
“Ma tu non esci mai il sabato pomeriggio?”, fu forse la prima domanda che gli feci da quando lo conoscevo.
“No, di solito no”, mi rispose lui, di poche parole come sempre.
“E … che cosa fai nel tempo libero?”, gli chiesi sempre più incuriosito.
“Dipende. Alle volte vado in skate-board, oppure ballo, tipo balli rap o roller dance o altre cose moderne, non so se hai presente. Tanto poi le persone con cui lo faccio sono le stesse.”
Mi si spalancò la porta di un mondo sconosciuto e soprattutto che non avrei mai immaginato. Anzi, mi resi conto che fui io ad aprire quella porta, che era sempre stata lì davanti. E mi venne voglia di entrare.
“Una volta potrei venire a vederti?”, gli chiesi.
“E perché no? Se vuoi.”
Due o tre volte a settimana, verso le sei o le sette di sera, si vedeva con un gruppo di ragazzi tutti con berretto a visiera, jeans esageratamente larghi, scarpe di gomma o pattini ai piedi o skate in mano. Era come fosse un altro gregge, che però si spostava più in fretta e freneticamente, su rotelle. Una volta su due andavano in uno scantinato con uno stereo portatile e si scatenavano nei loro balli, in cui persino i più corpulenti come Augusto rivelavano un'agilità inaspettata nel roteare e muoversi a scatti e rotolarsi per terra. Il mangiare, tutte le altre necessità della gente comune ed i problemi del resto dell'umanità sembravano non solo non interessare, ma non sfiorarli neppure. Alla fine si salutavano con un ciao e tornavano ognuno chissà dove, ma era chiaro che la loro vera vita era soltanto quella.
A me quelle persone, il loro abbigliamento, quello che dicevano, la loro musica e soprattutto il volume a cui la ascoltavano piacevano assai poco; ma mi affascinava vederli, quello che facevano, come si muovevano. Per cercare di legittimare la mia presenza con loro, mi diedi da fare per imparare ad usare lo skate, che dava l'impressione di essere il più semplice tra i loro passatempi; ma anche questo mi risultava piuttosto faticoso, in definitiva non adatto al mio fisico. Resistetti non più di tre o quattro incontri.
“Quello che fate mi piace molto”, gli confessai, “ma decisamente non fa per me. Non ti offendi se te lo dico, vero?”
“Figurati. Non sei mica obbligato a venire. Fai quello che vuoi, e amici come prima.”
Amici più di prima, direi io. Perché comunque mi avrebbe fatto piacere avere ancora la sua silenziosa compagnia, e magari capire qualcosa di più della sua vita.
“Magari potremmo vederci qualche volta e fare qualcos'altro, che so, andare al cinema”, gli proposi.
“Non è che io vada pazzo per il cinema”, mi rispose. “Mio padre mi porta spesso dei biglietti omaggio ed io non li uso mai. Se vuoi te li posso dare, la prossima volta.”
“Dicevo il cinema così per dire. Qualcosa che non sia faticoso come lo skate o i balli rap.”
“Magari potremmo andarcene un po' per il corso la domenica pomeriggio, così giusto per dare un'occhiata in giro.”
Trovai la sua proposta strana; anche questo passatempo era fuori dal mio mondo, ma acconsentii ed attesi la domenica con curiosità.
I motivi per cui voleva andare al corso potevano essere solo due, pensai: i negozi di vestiario e di moda, quasi tutti di un certo tono e generalmente aperti anche la domenica; oppure lo “struscio”, cioè fare avanti e indietro in compagnia osservando o cercando di farsi notare da altri gruppi di giovani dell'altro sesso.
Mi sarei stupito, conoscendo il suo abbigliamento di scuola e quello da rapper di strada, entrambi anonimi nel loro genere e tutto fuorché eccentrici, che il suo interesse fosse per la moda. Pure quando lo vidi quel giorno faceva un altro effetto: era ben pettinato e rasato, con qualcosa di diverso dal solito anche nel vestire. Poteva anche dare l'impressione a qualche ragazza di essere un bel giovane, pensai.
Quel pomeriggio percorremmo avanti e indietro il corso forse per dieci volte o più, osservando i gruppi che incrociavamo, squadrandoli dalla testa ai piedi, studiando attentamente il loro aspetto ed il loro atteggiamento; talvolta scambiandoci tra noi due commenti, evidenziando i tacchi più alti, le ragazze più carine, le tenute più audaci e originali, gli sguardi ed i sorrisi che sembravano nascondere il desiderio di conoscerci, di interrogarci, di invitarci; cercando di indovinare se nei gruppi ci fossero delle coppie già formate, o in via di formazione, e quali; oppure le ragazze in cerca di un'alternativa o un'evasione, non si sa quale - chissà, magari stavano aspettando proprio uno di noi.
Per poi riprendere questi commenti e verificarli al giro successivo, osservare se qualcosa era cambiato, se gli indizi erano rimasti invariati e se valeva la pena di riscontrarli ancora la volta dopo.
Fino al giorno prima avrei definito perlomeno demenziale un simile modo di trascorrere il tempo libero. Ma quella volta, con Augusto, capii che in alcuni casi poteva avere la sua ragione d'essere. Le nostre occhiate ed i nostri sguardi indagatori, o almeno quelli di Augusto, erano in alcuni casi ricambiati; e ciò indubbiamente voleva significare che non eravamo noi ad essere invisibili, o perlomeno che non lo eravamo per tutto il mondo.
Passammo il pomeriggio in questo modo stupido, senza pensare a nulla o fare nulla, fino ad averne i piedi doloranti. Forse fu un pomeriggio sprecato della mia vita, ma sicuramente non il più triste. E quando tornai a casa quella sera, mia mamma notandomi più rilassato e sereno del solito mi chiese cosa avevo fatto e dove ero stato. Io le risposi “Niente, mamma, proprio niente di niente”, e lei mi guardò come se fosse convinta che le stessi nascondendo qualcosa.
Ed invece, quel pomeriggio al corso non avevo fatto proprio niente: davvero un bel niente.