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IV.

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Il portoncino segnato col numero 50 in via Angelo Custode, era discosto due botteghe da un palazzo magnatizio, bigio, triste, dal portone chiuso. Francesco Sangiorgio esitò un momento: non vi era nessuno cui chiedere informazioni. Uno dei due battenti del portoncino era chiuso, l'altro socchiuso; il deputato si cacciò per un andito semibuio e vi fece sei o sette passi, sino a che arrivò a un principio di scale. Sentì che erano a chiocciola, e per non correre il rischio di rompersi il collo, accese un fiammifero. Ma al primo piano un po' di luce si fece: al secondo ci si vedeva, quasi. Su quel pianerottolo davano tre porte e sopra quella di mezzo, era attaccato, con due spilli piegati, un sudicio biglietto da visita che portava un nome e un cognome: Alessandro Bertocchini. Sangiorgio consultò il pezzetto di carta che gli aveva dato il sensale delle case: era proprio quel nome. Picchiò.

Per qualche tempo non gli vennero ad aprire: picchiò di nuovo, debolmente. Poi un gran rumore di chiavistelli, di catenacci, di paletti aperti e rinchiusi, s'intese, ma alla porta di destra: e infine, chetamente quella di mezzo, si schiuse un pocolino. Un uomo alto, con un grande naso rosso e due falde di capelli lucidi attaccati alle tempie, comparve: l'onorevole si toccò il cappello e domandò se vi fosse il signor Alessandro Bertocchini. Era appunto lui, l'uomo dal naso peperonico e dal viso scialbo. «Non si affittava un quartino mobiliato, a quel terzo piano?» Il sor Alessandro squadrò l'onorevole Sangiorgio, adocchiò fra lume e lustro la medaglia d'oro e disse: «Sicuro, c'è un quartino da affittare, mobiliato: vado a prendere le chiavi.» E ficcandosi in tasca le mani rovinate dai geloni, piantò il deputato sul pianerottolo. Dalla porta aperta un'anticameruccia si vedeva, con una sedia, un tavolino e un lume: e un odore di stantìo, di casa vecchia, di polvere antica, pizzicava la gola.

«Eccomi qua», mormorò, col suo filo di voce falsa, il sor Alessandro.

E aprì la porta a sinistra. Vi era uno stanzino buio con una sedia: poi una stanza lunga e stretta. Alla lunghezza di una parete era appoggiato un divano di lana cremisi, con la spalliera ed i bracciuoli, di legno tinto e smorto: ai due lati del divano due poltrone di lana cremisi, coperte di pezzi di merletto all'uncinetto: davanti un tappetino consunto. All'altra lunghezza della parete, dirimpetto, era appoggiata una consolida dal marmo bianco, su cui stavano due grandi lampade a petrolio, un orologio fermo e tre fotografie nelle loro cornici. Al muro, uno specchio lungo e stretto, un po' verdastro, nella cui cornice erano ficcate, come ornamento, certe piccole oleografie, rosse gialle e azzurre, il Re, la Regina, e il principe ereditario: accanto alla consolida, due sedie di legno e di lana cremisi. Dinanzi al balcone un tavolino da scrivere, su cui era disteso un tappeto di lana, lavorato all'uncinetto, a stelle verdi, violette, scarlatte, arancione, indaco, in mezzo alle quali era cucita una figurina scarlatta di scatoletta di fiammiferi. Al balcone da cui penetrava una luce scarsa, erano attaccate due grame tende di merletto, che uscivano da un panneggiamento di lana cremisi. Due altre sedie di legno nero compivano il mobilio.

«Questo è il salotto», disse il sor Alessandro, con la sua voce strascicata ed esile, guardando in aria, con le mani freddolosamente cacciate nelle tasche della giacchetta.

Francesco Sangiorgio si accostò al balcone: dava sopra una corte interna, su cui molti altri balconi e terrazzini, e logge coperte tutte di legno, e finestrini sporgevano. Dietro i tetti di una casa un ramo secco di albero spuntava. Dal fondo del cortile saliva un forte odore di cucina, di rigovernatura e di acqua dove avevano bollito dei cavoli. Il sor Alessandro non diceva nulla, conservava la sua aria indifferente, lasciando che il deputato esaminasse il quartino.

La camera da letto era accanto, lunga e stretta come il salotto. Nel senso della lunghezza vi era il letto. Innanzi al letto un tappetino, come nel salotto, e accanto una poltrona di lana azzurra, con una macchia che aveva corroso il colore, nel fondo. All'altra parete un canterano, con un piano di legno un po' macchiato, qua e là enfiato, come se vi fossero stati poggiati dei bicchieri bagnati: sopra, due candelieri di ottone, senza candele. La toletta era collocata nel vano del balcone; anche qui le tende di merletto che uscivano da un panneggiamento di tela a stampa, fondo nero a grandi rose azzurre e gialle. E il lusso della stanza era, sul letto, un piumino di cotone di Cava, color tabacco, lavorato all'ago lungo, con sopra tanti arabeschi di lana multicolori. La catinella e la brocca erano nascoste in un angolo fatto dal canterano, senz'asciugamano, senz'acqua.

«E il prezzo?» domandò l'onorevole Sangiorgio.

«Ottanta lire al mese... anticipate», fischiò la flebile voce del sor Alessandro, mentre si grattava un gelone.

«E il servizio?»

«Vi è la serva: rifà il letto, spazza, spazzola i vestiti e lustra le scarpe. Otto lire al mese..., anticipate», e respirò profondamente, passandosi una mano sui capelli, che sembravano tirati a pulimento di mogano.

«È caro... ottantotto lire».

Il sor Alessandro tacque, non trovandosi forse il fiato necessario a una discussione, o non volendo sciuparlo. Quando stavano per uscire dall'appartamentino, soggiunse soltanto, col naso in aria, come un asino che non può respirare:

«Ingresso libero».

L'onorevole Sangiorgio se ne andò, stringendosi nelle spalle: sarebbe ritornato, forse. Nella strada, presso il Ministero di agricoltura, incontrò la moglie di Sua Eccellenza, quella signora che aveva visto alla stazione. Alta, snella, vestita di nero, chiuso in un mantello di velluto, era tutta rosea e giovanile dietro la veletta nera. Se ne andava con un passo ritmico, con le mani inguantate nascoste nel manicotto, gli occhi chini, come raccolta in un pensiero. Ed era tanta la dignità e la dolcezza di quella figura femminile, che l'onorevole Francesco Sangiorgio, involontariamente, salutò. Ma la moglie di Sua Eccellenza non si accorse di quel saluto e passò avanti, risalendo verso l'Angelo Custode, lungo il marciapiede; e in Francesco Sangiorgio restò un forte dispetto, il pentimento di quel saluto sprecato. Ora, camminava verso la Piazza del Pantheon, verso il secondo indirizzo che il sensale gli aveva dato, e andava per le strade, sempre con quel sintomo di oppressione morale, un peso sul petto, sulle spalle, sul capo, che non arrivava a scuotere dal giorno in cui era in Roma; e nelle vie s'incontrava con gente che aveva anche la medesima espressione di accasciamento.

La casa era alla salita del Pantheon, che va verso Piazza della Minerva: una piccola porta accanto ad un fornaio. Di giù si vedevano due finestre con le tende bianche, fitte. Era al primo piano: tre porte, tutte e tre con nomi femminili, uno di questi scritto con inchiostro violetto e con una calligrafia muliebre, sopra un pezzetto di cartoncino rosa. Alla porta a destra: Virginia Magnani, venne ad aprire una servetta spettinata che guardò in faccia Sangiorgio, senza parlare. Ma dopo un momento sopraggiunse la padrona, una piccolina, con una vestaglia di Casimiro azzurro, guarnita di merletto bianco, coi capelli della fronte avvolti nelle cartine, e un profumo grossolano di muschio.

«Il signore viene pel quartierino? Va via, Nanna. Si accomodi, si accomodi pure: sono a sua disposizione. Scusi, sa, il modo come la ricevo, ma la mattina non si finisce mai di vestirsi: si va a teatro, qualche volta, con Toto, a sentir la Marini, si fa tardi, la mattina rincresce, naturalmente, di levarsi su...».

Sangiorgio ascoltava, interdetto dalla loquela di quella piccola femmina che aveva le guance imbiancate di cipria.

«L'ha mandato qui Pochalsky?»

«Sissignora».

«Me lo immaginavo: Pochalsky lo sa che questo è un quartierino per deputati: io non affitto ad altri. Ma favorisca: questa è l'anticamera, qui ci è un tavolino con l'occorrente da scrivere, per gli elettori che non trovino in casa il deputato. Ci ho avuto l'onorevole Santinelli: quello lì era assediato dalla mattina alla sera, mai un minuto di riposo, me lo diceva sempre, quando si chiacchierava un po' insieme, chè era tanto compìto, l'onorevole Santinelli: — Sora Virginia mia, non ne posso più. — Questo qui, come vede, è il salotto, decente ed elegante, questa tappezzeria è tutto lavoro mio, di quando ero più giovane e non avevo tormenti pel capo: basta, non ne parliamo. Qui vi è tutto, tappeto, tende; e il deputato Gagliardi non se ne sarebbe mai più andato, tanto vi si trovava bene, se gli elettori non gli avessero fatto il tiro di non rieleggerlo. Ma la vita politica è piena di questi dolori.....».

E la femminetta prese un'aria grave, la boccuccia stretta e il capo inchinato sopra una spalla. In realtà, il salotto non era molto diverso da quello di Via Angelo Custode: vi era più tappezzeria sbiadita, un maggior numero di fotografie, una seggiola americana a dondolo: la cornice dorata dello specchio aveva un velo verde, per preservarla dalle mosche.

«Questa qui», continuava la sora Virginia con un forte accento romano «è la stanza da letto. Vi è una piccola biblioteca, per i libri, perchè io ci ho avuto sempre dei deputati studiosi: anzi l'onorevole Gotti leggeva continuamente dei romanzi. Ne legge lei, dei romanzi?»

«Nossignora: mai».

«Peccato, perchè me ne presterebbe. Qui manca un armadio per i vestiti, ma sto aspettando una vendita, in Via Viminale, che anzi il Muccioli, il perito, m'ha promesso di conservarmelo, un bell'armadio. Del resto, può affidare a me la sua roba, marsina, soprabito, pelliccia, quello che sia, che la conserverò nel mio armadio, fra i miei vestiti e vi starà benissimo. Qui vi è tutto, concolina, brocca, lavapiedi per l'acqua, il letto con le sue brave tendine e il comò. Osservi tutto, chè tutto è soddisfacente, e non faccio per vantarmi, ma Toto ringrazia Dio sera e mattina per avergli dato una moglie come Virginia. Tutto questo, onorevole?...»

«Sangiorgio, Francesco Sangiorgio».

«Deputato per?...»

«Tito in Basilicata».

«Onorevole Sangiorgio, tutto questo per centotrenta lire il mese, senza calare un centesimo, perchè io non ci guadagno niente: se dovessi vivere col far l'affittacamere, starei fresca. In anticamera vi è una porta di comunicazione col mio quartino: chiudendosi, lei ha il suo quartino con l'ingresso libero. Ha bisogno, Lei, dell'ingresso libero?»

E lo scrutò, con gli occhietti chiari di gatta. Sangiorgio non capì bene.

«... Non so, non so,» disse a caso.

«Perchè, per avere l'ingresso libero, come capisce, si pagano venti lire di più il mese, centocinquanta lire. Ma se Lei è ammogliato e vuole delle altre stanze, capitando la sua signora, ci è qui, sullo stesso pianerottolo, mia sorella Restituta Coppi, che ha disponibili delle camere; quelle di mia cognata, al secondo, non gliele posso raccomandare, non cura la pulizia, povera donna, è popolante.... tutte così quelle di quel quartiere: è un errore che mio fratello, povero Gigio, ha commesso. È ammogliato, Lei, onorevole?»

«Nossignora».

«Sia per non detto, allora; e si goda ancora la gioventù, chè ad ammogliarsi subito è un inferno. Io, grazie a Dio, non mi posso lagnare, chè Toto è un fior d'uomo, ma via, meglio la libertà. Glielo dicevo sempre al deputato Gotti, che era ancora celibe come Lei, onorevole Sangiorgio: e lui, che mi rispondeva sempre, bontà sua: — Dovrei trovare un'altra sora Virginia per ammogliarmi, ma non ve ne sono più. — Dicevamo dunque, centotrenta lire il mese, è proprio un prezzo economico, poi ci è il servizio di dieci lire al mese a Nanna, ci è il gas, per le scale, sino alle undici, cinque lire. Al caso, posso pensare anche io alla imbiancatura, ho una lavandaia buonissima, lava con acqua Marcia e sapone, senza potassa. Insomma, tutto quello che ci vuole; e se qualche giorno l'onorevole vuol pranzare in casa, nauseato da quei pasticci che si mangiano nelle trattorie, ci è qui Toto, mio marito, che si diverte a fare e a cucinare gli gnocchi, che è un piacere: io non ci metto piede in cucina, la mia salute è troppo delicata».

Erano giunti di nuovo nell'anticamera e Sangiorgio serbava il contegno freddo delle persone taciturne innanzi a quelle troppo loquaci.

«E..... scusi, signor deputato,» chiese a un tratto la sora Virginia con la voce che era diventata aspra, pel silenzio di Sangiorgio, «che intende Ella di fare? Io ho molte richieste, capirà, un quartino come questo non ci è da lasciarlo sfuggire...»

«Faccia pure i suoi affari, signora,» disse il deputato, in cui la natural diffidenza del provinciale rinasceva. «Nel caso, Le farò sapere qualche cosa».

«Aspetterò un suo biglietto, allora? Debbo mandare a ritirarlo alla Camera?» ribattè quella, ridiventata melliflua.

«Non s'incomodi, manderò io».

La sora Virginia inchinò il capo e gli tese una manina, come una gran signora. Ancora, per le scale, egli restava sbalordito e stanco di quel chiacchiericcio: e già gli sembrava di aver visitato dieci case. Aveva due altri indirizzi sul pezzetto di carta e gli veniva meno la voglia di recarvisi. Fu proprio per una reazione di volontà che si fece condurre, in carrozza, in Via del Gambero, 37, poichè non ancora conosceva le vie. La strada aveva l'aria misteriosa delle parallele al Corso, le vie scorciatoie che scelgono gli uomini frettolosi e le donne preoccupate: dal grande palazzo Raggi, che ha un cortile come una piazza, un portone sul Corso e l'altro sul Gambero, ogni tanto se ne vedeva sfilare qualcuna, che sfuggiva la folla e gl'incontri pericolosi, scantonava rapidamente, senza guardarsi indietro. Nel portoncino n. 37, dall'aria decente, vi era un casotto di legno con vetri, che prendeva luce dalla sala. Una donnetta ne uscì, incontro al deputato.

«Non si affitta, qui, al terzo piano, un quartino?»

«Sissignore; vuol vederlo?»

«Vorrei vederlo».

La donnetta rientrò nel suo casotto, scelse una chiave da un mazzo e s'avviò, ammiccando con un par di occhietti bigi dalle palpebre rosse e gonfie. Era evidentemente la portinaia: portava un vestito di lana verdognola, smesso, stinto, guarnito con una certa pompa di raso verde: un perucchino di raso cupo, con un treccione finto sulla nuca e una sfioccatura a frangia sulla fronte: salendo, le calze di seta rosse si vedevano, smorte. E nella floscezza scialba delle guance di un biancore punteggiato di lentiggini, nel pallore violetto di una bocca dal disegno infantile, s'indovinava un viso che una volta era stato rotondo, roseo e che si era a un tratto appassito, vuotato, come quello di una pupattola a cui è sfuggita la crusca da un bucherello. La scala era larga e girava ampiamente, caso raro negli edifizi romani: sopra ogni pianerottolo, tre porte corrispondevano. Al primo piano, a destra, l'onorevole Sangiorgio lesse: Barone di Sangarzia, deputato al Parlamento, nulla sulla porta di mezzo, e a sinistra: Anna Scartozzi, sarta. Al secondo piano a destra: Marchese di Tuttavilla, deputato al Parlamento, nulla sulla porta di mezzo, e a sinistra: Ditta di commissioni e rappresentanze.

«Anche questi due deputati hanno dei quartini mobiliati?»

«Nossignore; hanno mobiliato del loro; ma il quartino è simile,» rispose la portinaia, mettendo la chiave nella toppa della porta a destra: anche al terzo piano, non vi era alcuna leggenda sulla porta di mezzo, e a quella di sinistra: Cav. Paolo Galasso, dentista.

Il quartino che dava sulla strada era pieno di luce, e i mobili, quasi nuovi, pretendevano alla eleganza. Un vaso di maiolica per fiori posava sopra un tavolino: vi era un caminetto, un vero e buon caminetto, l'estremo lusso delle case borghesi romane. «Qui si può accendere il fuoco e dopo pranzo d'inverno, è un piacere,» disse la portinaia. «Il caminetto ci è in tutti i piani: che anzi il deputato del primo piano lo fa accendere dalla mattina, una gran fiammata tutto il giorno».

«Ma non va alla Camera?» domandò Sangiorgio, cedendo al pettegolezzo.

«Non sempre, non sempre,» rispose, con sorriso malizioso che le aggrinzò tutto il floscio viso, la portinaia.

«E quanto si paga, qui?» interruppe Sangiorgio, seccamente.

«Centotrenta lire al mese.»

«E a chi?»

«A me.»

«Affittate voi?»

«Sissignore.»

«Mi sembra caro».

«Nossignore, Lei s'informi dei prezzi, poichè è forestiero, e vedrà che non è caro, nel centro di Roma, a un passo dal Corso. Non faccio per vantarmi, ma il quartino è messo con molto gusto: ne ho sempre capito io...»

E la portinaia si arruffò la frangetta del parrucchino sulla fronte. Il deputato si strinse nelle spalle.

«È caro,» insistette.

«Non ci è obbligo, sa, di pigliarlo; ma che Lei vuole un quartino libero, con la porta sulle scale, mobiliato e senza noie, chè qui ognuno bada ai fatti suoi, col caminetto, è un lusso che non si trova altrove; che Lei vuole tutto questo in Via del Gambero per meno di centottanta lire, caro signore, Le assicuro che non è possibile. Il deputato del primo piano ci è venuto da quattro anni e vi si trova benissimo, non se ne va più; il deputato del secondo piano ci è venuto, consigliato dall'amico, e ci è rimasto, son già due anni. Qui non si sfitta mai: la sarta del primo piano ha una clientela di signore dell'aristocrazia, che ci è sempre una vettura innanzi alla porta.»

«Va bene, capisco, ma tutte queste cose non mi servono».

«A piacer suo: ma girerà, girerà, vede, e non troverà nulla di buono come questo. Sono sicura che ci ritorna, signor deputato; questo è proprio un posto fatto per Lei».

E scendevano per le scale, mentre saliva una signora, chiusa in una pelliccia di lontra, con un velo marrone che avvolgeva il berrettino di lontra, la testa, il collo, il mento, sotto cui s'annodava con un cappio vistoso. Ella saliva lentamente e presso la porta della sarta si fermò.

«Eccone una,» mormorò la portinaia. «Andrà certo a provare un vestito».

Ma non s'intese rumore di campanello e di giù, alzando gli occhi, l'onorevole Sangiorgio vide quella irriconoscibile figura femminile salire chetamente al secondo piano.

Presto presto, per finirla, egli si fece condurre sempre in carrozza, alla salita di Capo le Case, la via chiara ed allegra, tutta sole, che taglia in mezzo quella dei Due Macelli. Un'aria di signorilità, di tranquillità aristocratica, veniva dalla vicina Piazza di Spagna, da Via Sistina, da Via Propaganda, da Via Condotti, il centro più esotico di Roma. La porta 128 si trovava dirimpetto ad una bottega di biscotti inglesi, di conserve, di liquori, di saponi, ciò che gl'Inglesi chiamano grocery, da cui usciva un sentore pungente e quasi caldo di spezierie: dall'altra parte una bottega di fioraio, piena di portafiori di giunco, di vimini dorati, di tronchi grezzi, che aveva, nella mostra, delle rose invernali, e financo in un vasettino, un ramoscello di mughetto, una primizia delicata. La scaletta era di marmo, netta, illuminata, dall'alto, da una finestra sul tetto. Sopra ogni pianerottolo davano tre porte, di legno biondo, un acero venato, coi pomi lucidissimi di ottone, per bussare. Un servitorello in mezza livrea venne ad aprire, subito, e fece entrare l'onorevole Sangiorgio in un salottino semibuio, dicendo che la signora sarebbe venuta a momenti: l'onorevole sentì un tappeto molle in terra e sedette, tastando un poco, sopra una poltroncina, bassa e soffice. Così, nella penombra, distingueva un tavolino coperto di felpa gialla, d'oro, un portacenere giapponese, un vaso di vetro veneziano. Ma un lieve passo si udì: la signora s'intravedeva, alta, non grassa, ma pienotta, con acconciatura corretta di capelli castagni tutta ondulata dal ferro della pettinatrice e ornata di fornicelle di tartaruga bionda; con un vestito di lana nera, semplice, di una stoffa molle, un goletto alto di tela bianca, chiuso da un ferro di cavallo in oro.

«Vuol favorire?» chiese la signora.

Uscirono insieme sul pianerottolo: ora si vedeva il pallore opaco, di avorio, di quel volto trentenne e gli occhi di un nero cupo, torbido, di carbone, con qualche cosa di claustrale, dentro. La mano bianca e grassa della signora si arrotondò mollemente sulla chiave. Il quartino era piccolo, ma luminoso, gaio, come se fosse nel sole dell'aperta campagna. Il salottino aveva un mobilio di tela stampata, grigio e rosa, molto carezzevole alla vista: lo specchio era ovale con una cornice di legno, intagliato; una dormeuse, lunga e bassa, era distesa presso il balcone, innanzi a cui pendevano delle tendine larghe, di mussola ricamata, molto fitta: senza bracciuoli, a pieghe profonde, esse trascinavansi per terra. Una grande raggiera di fotografie era disposta bizzarramente sul muro, come se vi fossero state buttate a caso: un tavolincino da scrivere, minuscolo, su cui era appoggiata una cornice da fotografia, di felpa rossa, senza ritratto. La stanza da letto aveva un mobilio di raso in lana azzurro-pallido, una coltre simile sul lettuccio, velata da un largo merletto bianco; la toletta era tutta di mussola bianca ricamata, con fiocchi di nastro azzurro; l'armadio era a specchio; e alla finestra, oltre le molli tendine che trascinavansi sul suolo, ai vetri erano attaccate certe cortinette di seta azzurrina, a flotti, a ondatine.

«Vi è anche un gabinettino da toletta,» mormorò la signora, senza sorridere.

«Non si voglia incomodare» soggiunse l'altro.

«No, no, voglio farvelo vedere: è importante, ha una porta sulla scala.»

La signora, con quel suo viso corretto, un po' grosso, un po' impastato, come quello di certe teste antiche romane, non chinò neppure gli occhi sul lavabo di marmo, dai cui bastoni di legno giallo pendevano gli asciugamani spiegati: aprì una porticina, dava di nuovo sul pianerottolo, era la terza porta: quel quartino di due stanze e mezzo aveva due ingressi liberi.

«È una casa comodissima,» soggiunse ella semplicemente, guardandosi una mano e soffregandola per farla diventare più bianca. Nel suo vestito nero, dalle pieghe statuarie, con la pallida e quieta faccia di matrona romana ella imponeva rispetto. L'onorevole Sangiorgio le parlò come a una gran signora.

«Il quartino è un po' troppo elegante, per me,» disse. «Mi piace molto, ma sono pochissimo esigente.»

«Oh!» fece la signora, quasi non ci credesse, con una lusinghiera intonazione di cortesia.

«Glielo assicuro: sono un po' selvaggio,» riprese Sangiorgio, abbandonandosi, «ho bisogno di tranquillità pel mio lavoro, null'altro. Sto molte ore al Parlamento. Qui è un po' femminile, mi pare,» soggiunse, sorridendo.

«Infatti vi fu una dama, una russa, l'anno scorso: poi la richiamarono, dovette partire.» E si tacque, senza dare altre spiegazioni.

«.... E... costa?» domandò il deputato, dopo un momento di esitazione.

«Duecentocinquanta franchi il mese,» disse la signora, con trascuranza, raddrizzandosi il ferro di cavallo al collo.

«Ah! e vi sarà, inoltre, la servitù, il gas?» chiese con una curiosità gentile, l'onorevole Sangiorgio.

«Bisogna intendersi con Teresa, la mia cameriera...»

«È naturale, è naturale,» mormorò l'altro, come se chiedesse scusa.

La pallida signora, dai profondi occhi neri, che eran pieni di quel malinconico fluido monacale, ricondusse sino alla porta il deputato, senza neppur chiedergli se avesse intenzione di prendere il quartino, si licenziò da lui con un sorriso, il primo, e non gli strinse la mano.

Ora, egli si sentiva snervato, vinto da una fiacchezza mortale: il sole di novembre lo mordeva come quello rovente di agosto, e l'aria gli pesava addosso. Certo, in quella casa di Capo le Case, vi doveva essere un profumo indistinto, ma, permanente, di quelli che eccitano i nervi e poi li buttano in un accasciamento. Forse il profumo lo portava la signora, così smorta, così severa, con la sua grand'aria claustrale, di badessa nobile, dall'abito nero e dal goletto bianco. Mentre andava, con indolenza, per Via Mercede, gli si ripresentava alla fantasia il salotto bigio e roseo, così dolce nella sua semplicità, la camera azzurra tutta velata di bianco, e le doppie tendine, fluttuanti, ondeggianti, che le davano un carattere intimo, di nido involato in alto, lontano dal mondo. Tutti quei mobili, la dormeuse dove si era certo sdraiata la dama russa, a sognarvi i suoi sogni di straniera bizzarra, quel tavolino piccolo su cui aveva scritte le sue lettere, quella toletta davanti a cui si era acconciata, questo interno femminile gli si ripresentava: ma più di ogni altra cosa, lo interessava quella cornice rossa, a cui mancava il ritratto, come se fosse stato portato via in fretta, da una viaggiatrice affannosa.

Non si poteva figurare la faccia di quella dama russa: e al posto vuoto che la immaginazione non sapeva riempire ritrovava sempre l'ovale pallido, quella carnagione di avorio della signora, su cui scendevano le onde molli dei capelli castagni. Involontariamente, era entrato nel Caffè Aragno, nell'ultima stanza stretta e solitaria e si era fatto servire un cognac per scuotere quella depressione.

La signora di Capo le Case gli ricompariva, ma con contorni meno precisi: più nettamente, ora, gli si ripresentava la donna dal mantello di lontra, incontrata per le scale, in Via del Gambero; ne aveva visto il piede, arcuato, snello, che si appoggiava con precauzione sugli scalini, lungo la ringhiera di ferro, — e avrebbe voluto sapere dove andava, poichè, turbata da quell'incontro, ella aveva finto di picchiare alla porta della sarta e poi era salita più su, chinando il capo, immergendo il basso del viso nel grande fiocco di velo marrone. La portinaia, certo, doveva conoscerla: la doveva saper lunga quella portinaia dal viso floscio e dagli occhi che facevano schifo: una malizia filtrava dalle sue parole leziose. Chissà! doveva essere stata bella, la portinaia dal parrucchino ignobile, fors'anche elegante: doveva aver tutta una singolare istoria che egli non le aveva dato il tempo di raccontare, com'ella desiderava. La sora Virginia invece gliene aveva narrata molta parte, della sua storia: ma che era questa moglie che leggeva romanzi, mentre il marito cucinava gli gnocchi, in cucina? E dall'abbattimento egli risorgeva, a grado a grado, con una curiosità crescente per tutti questi enigmi femminili: la visione della signora russa, il mistero di quella figura mistica, in Via Capo le Case: la visitatrice di Via del Gambero e il suo segreto: il passato della portinaia: lo strano intreccio che appariva e scompariva nella loquacità della sora Virginia. Avrebbe voluto sapere, conoscere, apprezzare tutta questa femminilità fuggente, che spariva, che si nascondeva alla sua curiosità; e da questa sua minuta ricerca, da quest'analisi delle donne viste e delle donne immaginate, una domanda, sino allora latente, sorgeva, una figura si sovrapponeva a tutte, le assorbiva e si rizzava, alta, flessuosa, nerovestita, placidamente rosea dietro il velo nero, andante lontano, con gli occhi raccolti e il passo misurato: la moglie di Sua Eccellenza. Dove poteva andare a quell'ora, dove andava la moglie di Sua Eccellenza?

Ma fuori, nella strada, il grosso largo duca di Bonito, il popolare deputato napoletano, dalla facciona tagliata da un colpo di sciabola, passò, con quel movimento di rullìo sulle gambe che lo faceva rassomigliare, camminando, a una nave pesante mercantile, una di quelle navi nere e piatte che approdano nei piccoli porti di Torregreco e del Granatello a Portici, a portarvi carbone e a caricare maccheroni: accanto a lui, il fido amico, il deputato Pietraroia, dal quieto viso e dal carattere violento, dalla voce moderata e dalle frasi appassionate, che taceva per mesi e mesi alla Camera, e poi, un giorno, scoppiava con una forza meridionale, meravigliando tutti.

L'onorevole Sangiorgio li seguì con l'occhio, un minuto; tornavano da colazione, si fermarono sul marciapiede, con la terza figura della Trinità napoletana, l'onorevole Piccirillo, dalla bionda barba fluente, dagli occhietti azzurri, il domatore degli irruenti quartieri popolari napoletani. E sul marciapiede, un dialogo vivace cominciò: l'onorevole Piccirillo narrava un fatto grave, senza dubbio, gesticolando, agitando la mano storpiata in duello con l'onorevole Dalma, afferrando il bottone dell'amplissimo soprabito del duca di Bonito che sogghignava e sghignazzava, incredulo, ironico, con la freddezza dell'uomo che ha vissuto, mentre l'onorevole Pietraroia, tranquillo, ascoltava, arricciandosi delicatamente un baffo. E dirimpetto all'onorevole Sangiorgio, nascosto dietro un tavolino, con le gambette raccolte e il viso di bambino vecchiotto, l'onorevole Scalzi, il deputato operaio, il solo che vi fosse al Parlamento e che Milano aveva mandato, faceva colazione, modicamente, con una tazza di caffè e un panino.

Francesco Sangiorgio, messo di nuovo a contatto con quel suo mondo, ripreso da un più serio bisogno di osservazione, si sentì a un tratto rinvigorito, come strappato a quel vaneggiamento d'indolenza, che lo turbava dalla mattina. Tutte quelle donne che aveva viste, con cui aveva parlato, gli avevano messo nelle fibre una debolezza, gli avevano immeschinito l'animo sino al pettegolezzo, e scomposta la fantasia in sogni ridicoli e inutili.

Una natural reazione gli restituiva l'equilibrio, e col buon senso egli acquistava una lucidezza di ragionamento, un'acutezza di logica che penetrava e intendeva quanto gli era rimasto oscuro la mattina. Egli intendeva che fosse questo accumulamento di case mobiliate, di quartini mobiliati, di stanze mobiliate, che sorgono, s'infittiscono in tutta Roma, e formano in essa una vegetazione larga e potente che quasi la soffoca; e tutto questo rimescolìo bizzarro di donne borghesi, di sarte, di portinaie, di serve, di bottegaie, che dall'affittar camere traggono il più facile e più sicuro guadagno; e fra colui che cerca casa e tutte queste donne, un contatto necessario, le comunicazioni interne delle porte chiuse e aperte, in cui si conviveva, un vedersi al mattino, alla sera, nelle ore pericolose della giornata, una dominazione femminile che comincia dalla casa, si estende alla biancheria, poi ai vestiti, poi ai libri, poi alle lettere dell'inquilino, e arriva sicuramente, per vie oblique, sino alla persona. Egli sentiva quanto vi era di drammatico, di comico, di appassionato e di corrotto, in tutto quel sistema di ingressi liberi, di quartini a due porte, di portoni a due sbocchi, di chiavi inglesi a due ingegni, in tutto quello sdoppiamento, in quella fantasmagoria di usci chiusi, di serrature che stridono, di campanelli che non squillano, di scarpette femminili che non scricchiolano, di veli femminili molto fitti e di mantelli di pelliccia ermeticamente chiusi: e il grande equivoco della vita romana, così corretta e immobile nella apparenza, così inquieta, fervida, calda nella sostanza, gli si rivelava in una delle sue parti.

E nel suo vago, istintivo terrore del femminile preponderante e prepotente, nel suo bisogno selvaggio di solitudine e di forza, egli prese la casa in Via Angelo Custode, dove non vi erano donne.

La conquista di Roma

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