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CAPITOLO CINQUE

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Ci volle circa un’ora per andare da Walnut Creek fino all’Istituto SETI a Mountain View, ma a Kevin parve una vita. Non era solo il traffico in città che creava ingorghi nelle strade: ogni secondo che passava era un momento sprecato, era la possibilità di scoprire cosa gli stesse succedendo. Lo avrebbero saputo, ne era certo.

“Cerca di non esaltarti troppo,” lo mise in guardia sua madre, ripetendolo per quella che doveva essere la ventesima volta. Kevin sapeva che stava solo tentando di proteggerlo, ma lo stesso non voleva che la sua eccitazione calasse. Era certo che in questo posto avrebbe scoperto ciò che gli stava capitando. C’erano scienziati che studiavano gli alieni. Era ovvio che sapessero ogni cosa, no?

Quando arrivarono lì, però, l’istituto non era quello che si era aspettato. La 189 Bernardo Avenue assomigliava più a una galleria d’arte o a un’ala universitaria piuttosto che al genere di edificio ultra moderno e tecnologico che l’immaginazione di Kevin aveva costruito. Si era aspettato di trovare edifici che sembrassero arrivati dallo spazio, invece assomigliavano a costruzioni leggermente più costose di quelle che costituivano la sua scuola.

Entrarono con l’auto e parcheggiarono davanti agli edifici. Kevin respirò profondamente. Eccolo. Entrarono in una lobby, dove una donna rivolse loro un sorriso che in un batter d’occhio si trasformò in una domanda.

“Salve, siete sicuri di essere nel posto giusto?”

“Devo parlare con qualcuno riguardo a segnali alieni,” disse Kevin prima che sua madre potesse tentare di dare una spiegazione.

“Mi spiace,” disse la donna. “Non organizziamo tour per il pubblico.”

Kevin scosse la testa. Sapeva di doverle far capire. “Non sono qui per una visita,” disse. “Penso… penso di ricevere delle specie di segnali dagli alieni.”

La donna non lo guardò con il genere di shock o con l’incredulità che la maggior parte dell’altra gente poteva dimostrare, e neanche con la sorpresa che sua madre esprimeva ogni volta che lui saltava fuori con affermazioni del genere. Quella era più che altro un’espressione di rassegnazione, come se la donna si fosse trovata molto spesso a gestire situazioni del genere.

“Caspico,” disse. “Sfortunatamente non siamo nella posizione di parlare alla gente che viene dentro dalla strada. Se vuoi mandarci un messaggio tramite il nostro contatto email, saremo lieti di considerarlo, ma per il momento…”

“Andiamo, Kevin,” disse sua madre. “Abbiamo provato.”

Sorprendendo se stesso più di chiunque altro, Kevin scosse la testa. “No, non vado da nessuna parte.”

“Kevin, devi,” disse sua madre.

Kevin si mise a sedere proprio in mezzo alla lobby. Il tappeto non era molto comodo, ma a lui non importava. “Non andrò da nessuna parte fino a che non avrò parlato con qualcuno di questa cosa.”

“Aspetta, non puoi fare così,” disse la donna della reception.

“Io non vado da nessuna parte,” ribadì Kevin.

“Kevin…” iniziò sua madre.

Kevin scosse la testa. Sapeva che era infantile, ma per come la vedeva lui, aveva tredici anni e la cosa poteva anche essergli concessa. E poi questo era importante. Se ora fosse uscito e se ne fosse andato, sarebbe finita lì. E lui non poteva permettersi di lasciar perdere tutto.

“Alzati, o dovrò far chiamare la sicurezza,” disse la donna. Gli si avvicinò e gli afferrò con forza un braccio.

Di scatto la madre di Kevin spostò la sua attenzione dal figlio alla donna, socchiudendo gli occhi.

“Leva subito le mani di dosso a mio figlio.”

“E allora faccia alzare suo figlio e andatevene prima che debba mobilitare la polizia.” La donna lasciò comunque la presa, anche se probabilmente la reazione era dovuta all’occhiataccia che la madre di Kevin le aveva lanciato. Kevin aveva la sensazione che, ora che le si era presentato un modo per poter proteggere suo figlio, sua madre l’avrebbe fatto a qualsiasi costo.

“Non passiamo alle minacce con la polizia. Kevin non sta facendo male a nessuno.”

“Pensa che qui non ci capitino regolarmente dei pazzi?”

“Kevin non è pazzo!” gridò sua madre con un volume che normalmente era riservato ai momenti in qui Kevin faceva qualcosa di davvero sbagliato.

Nei due minuti seguenti il litigio crebbe più di quanto Kevin avrebbe desiderato. Sua madre gli gridò di alzarsi. La donna della reception gridò che avrebbe chiamato la sicurezza. Si gridarono addosso a vicenda e la madre di Kevin decise che non voleva che nessuno minacciasse suo figlio con la sicurezza, e la donna parve dare per scontato che sua madre sarebbe stata capace di spostare Kevin. Durante tutto questo Kevin rimase seduto in sorprendente serenità.

Si sentì quasi cullato, accompagnato in un profondo dove vide qualcosa…

Il buio freddo dello spazio lo circondava, le stelle luccicavano, con la terra che sembrava così diversa dall’alto, tanto da lasciare Kevin quasi senza fiato. C’era un oggetto argentato che fluttuava lì nello spazio, uno fra tanti altri che stavano lì sospesi nell’orbita. Sul fianco erano scritte le parole Pioneer 11…

Poi si trovò disteso sul pavimento dell’Istituto SETI, sua madre che lo aiutava a rialzarsi insieme alla donna della reception.

“Sta bene?” chiese la donna. “Devo chiamare un’ambulanza?”

“No, sto bene,” puntualizzò subito Kevin.

Sua madre scosse la testa. “Sappiamo cosa c’è che non va. Mio figlio sta morendo. Tutto questo… pensavo che l’avrebbe aiutato ad accettare il fatto che quello che vede non è reale, che si tratta della malattia.”

Messa così, suonava come un tradimento, come se la madre di Kevin avesse programmato fin dall’inizio che i suoi sogni si infrangessero.

“Caspico,” disse la donna. “Ok, lascia che ti aiutiamo ad alzarti, Kevin. Posso portarvi qualcosa?”

“Voglio solo parlare con qualcuno,” disse Kevin.

La donna si morse il labbro, poi annuì. “Ok, vedo cosa posso fare.”

Così all’improvviso, pareva che tutto il suo atteggiamento fosse mutato.

“Aspettate qui. Sedetevi. Vado un attimo a vedere se c’è in giro qualcuno che possa almeno parlare con te, magari farti vedere il posto. Anche se a dire il vero non c’è poi molto da vedere.”

Kevin si sedette con sua madre. Avrebbe voluto dirle tutto quello che aveva appena visto, ma dal suo volto vedeva che le avrebbe fatto solo del male. Aspettò allora in silenzio.

Alla fine venne fuori una donna. Doveva avere una cinquantina d’anni e indossava un abito scuro che suggeriva che dovesse prendere parte a quel genere di meeting dove un abbigliamento più informale non sarebbe andato bene. C’era qualcosa in lei che diceva che potesse essere un’insegnante, forse qualcosa nella curiosità con cui guardava Kevin. Porse la mano a sua madre e poi a lui.

“Ciao, Kevin,” disse. “Sono la dottoressa Elise Levin. Sono il direttore dell’istituto.”

“Se ne occupa lei?” chiese Kevin sentendo un’ondata di speranza. “Della roba degli alieni?”

La donna sorrise divertita. “Penso che tu stia descrivendo la cosa troppo forzatamente. Molta della ricerca riguardante forme di vita extraterrestre viene svolta altrove. La NASA fornisce i dati, vengono coinvolte alcune università e spesso, dove possiamo, prendiamo il tempo di altra gente che sta al telescopio. Ma sì, sono responsabile di questo istituto e delle cose che si svolgono qui.”

“Allora devo raccontarle,” disse Kevin. Stava parlando più rapidamente di quanto avrebbe voluto, cercando di tirare fuori le parole prima che questa adulta avesse il tempo di non credergli. “Stanno succedendo delle cose. So che sembra strano, ma vedo delle cose, c’è una sorta di conto alla rovescia…”

Come poteva spiegare il conto alla rovescia? Non erano come dei numeri, non c’era un punto ovvio che si potesse definire come conclusivo. C’era solo una debole pulsazione che si presentava insieme al messaggio nel suo cervello, diventando regolarmente e quasi impercettibilmente più rapida mentre si dirigeva verso qualcosa che Kevin non riusciva a intuire.

“Perché non me ne parli mentre diamo un’occhiata in giro?” suggerì la dottoressa Levin. “Ti faccio vedere alcune delle cose che facciamo qui.”

Condusse Kevin e sua madre attraverso i corridoi dell’istituto, e a essere onesti, Kevin aveva pensato che sarebbe stato più entusiasmante. Aveva pensato di trovarlo meno somigliante a un blocco di uffici.

“Pensavo che ci fossero dei grossi telescopi qui, o laboratori pieni di attrezzatura per fare test sulle cose che vengono dallo spazio,” disse Kevin.

La dottoressa Levin scrollò le spalle. “Abbiamo dei laboratori, e facciamo dei test sui materiali di tanto in tanto, ma non abbiamo telescopi. Stiamo lavorando con Berkeley per costruire una gamma dedicata di radiotelescopi, però.”

“E allora come cercate gli alieni?” chiese la madre di Kevin. Sembrava stupita quanto Kevin per l’assenza di telescopi giganti e attrezzatura per l’ascolto.

“Lavoriamo con altra gente,” disse la dottoressa Levin. “Chiediamo o ingaggiamo tempo su telescopi e sensori. Lavoriamo con dati dalla NASA. Proponiamo loro suggerimenti su luoghi dove potrebbero cercare, o tipi di dati che potrebbero aver bisogno di raccogliere. Mi spiace, so che non è esaltante come la gente a volte pensa. Qui, venite con me.”

Li condusse in un ufficio che almeno sembrava un po’ più interessante di alcuni degli altri spazi. C’erano un paio di computer, un sacco di poster relativi al sistema solare, alcune riviste che avevano citato il lavoro del SETI e dei mobili che parevano essere stati progettati appositamente per essere ergonomici, di stile e probabilmente comodi come un blocco di cemento.

“Lasciate che vi mostri alcune delle cose su cui stiamo lavorando,” disse la dottoressa Levin indicando immagini di grossi telescopi in costruzione. “Stiamo cercando di sviluppare dei radiotelescopi che possano essere tanto potenti da cogliere le frequenze radio dall’ambiente piuttosto che aspettare che qualcuno ci invii un segnale.”

“Ma io penso che qualcuno ci stia inviando dei messaggi,” disse Kevin. Doveva farglielo capire.

La dottoressa Levin fece una pausa. “Volevo chiederti se fai riferimento alla teoria secondo la quale ciò che alcune persone pensano che le emissioni radio ad alta frequenza da una pulsar possano essere dei segnali riconoscibili, ma non è così, vero?”

“Vedo delle cose,” disse Kevin. Cercò di spiegare le visioni. Le disse del paesaggio che aveva visto, e del conto alla rovescia.

“Caspico,” disse la dottoressa Levin. “Ma devo chiederti una cosa, Kevin. Capisci che il SETI esplora queste cose con la scienza, cercando prove reali? È l’unico modo in cui possiamo farlo, e dobbiamo essere certi che tutto ciò che troviamo sia reale. Quindi devo chiederti, Kevin: come fai a sapere che ciò che vedi è reale?”

Kevin aveva già cercato di spiegarlo a Luna. “Ho visto dei numeri. Quando sono andato a cercarli, è venuto fuori che sono la localizzazione di una cosa che si chiama sistema Trappist 1.”

“Uno dei candidati più promettenti per la vita aliena,” disse la dottoressa Levin. “Lo stesso, Kevin, capisci il mio problema adesso? Dici di aver visto questi numeri, e io ti credo, ma magari li hai visti perché li hai letti da qualche parte. Non posso reindirizzare le risorse del SETI sulla base di questo, e in ogni caso non sono sicura di cos’altro potremmo fare trattandosi del sistema Trappist 1. Per una cosa del genere, avrei bisogno di qualcosa di nuovo. Qualcosa che non avresti potuto ottenere in altro modo.”

Kevin aveva la chiara sensazione che stesse cercando di dissuaderlo in modo gentile, ma lo stesso la cosa gli faceva male. Come poteva fornire loro una cosa del genere? Poi pensò a quello che aveva visto nella lobby. Doveva averlo visto per un motivo, no?

“Penso…” Non era certo di doverlo dire o no, ma sapeva di doverlo fare. “Penso che stiate per inviare un segnale da qualcosa che si chiama Pioneer 11.”

La dottoressa Levin lo guardò per un paio di minuti. “Mi spiace, Kevin, ma la cosa non mi pare molto probabile.”

Kevin vide sua madre accigliarsi. “Cos’è la Pioneer 11?”

“È una delle sonde che la NASA ha inviato nello spazio,” spiegò la dottoressa Levin. “Ha volato attraverso il nostro sistema solare inviando dati, ed è stata tanto veloce da inviarli oltre i limiti del sistema solare. Sfortunatamente l’ultimo contatto che abbiamo avuto risale al 1995, quindi davvero non penso che…”

Si fermò quando il telefono iniziò a suonare, tirandolo fuori con l’apparente intenzione di voler ignorare la telefonata. Kevin vide il momento in cui si fermò a fissarlo.

“Scusate, a questa devo rispondere,” disse. “Sì, pronto, cosa c’è? Puoi aspettare un momento, sono nel mezzo di… ok, se è così urgente. Un segnale? Mi stai chiamando perché la NASA ha dei segnali in ingresso? Ma la NASA ha sempre…” Fece un’altra pausa e guardò verso Kevin, l’incredulità ovvia sul suo volto. Lo stesso, parlò. “Posso provare a indovinare?” disse al telefono. “Avete appena avuto un qualche genere di segnale dalla Pioneer 11? Davvero? No, non posso dirtelo. Non sono certa che mi crederesti.”

Ripose il telefono e fissò Kevin come se l’avesse visto per la prima volta in quel momento.

“Come hai fatto?” gli chiese.

Kevin scrollò le spalle. “L’ho visto mentre aspettavo nella lobby.”

“L’hai visto? Nello stesso modo in cui hai visto il paesaggio alieno?” La dottoressa Levin lo squadrò, e Kevin ebbe l’impressione che stesse cercando di decidere qualcosa. Forse di capire in quale modo l’avesse imbrogliata, o fosse riuscito a far accadere questa cosa.

Ci volle quasi un minuto prima che prendesse di nuovo la parola.

“Penso,” disse la dottoressa Levin con il tono calmo di qualcuno che tenta di assicurarsi di non essere impazzito, “che sia meglio che tu venga con me.”

CAPITOLO SEI

Kevin e sua madre seguirono la dottoressa Levin dall’edificio del SETI a un’auto che sembrava un po’ troppo piccola per appartenere a qualcuno di quella posizione.

“È una macchina rispettosa dell’ambiente,” disse in un tono che suggeriva che avesse già affrontato quel genere di curiosità. “Venite, sarà più facile se venite tutti e due con me. Sono piuttosto severi in materia di sicurezza.”

“Chi?” chiese la madre di Kevin.

“La NASA.”

Kevin rimase senza fiato. Stavano andando a parlare con la NASA? Parlando di alieni, era ancora meglio del SETI.

Il tragitto attraverso Mountain View fu molto breve, al massimo una manciata di minuti. Lo stesso, per Kevin fu abbastanza lungo da permettergli di fissare fuori dai finestrini guardando le aziende altamente tecnologiche che si trovavano nella zona, ovviamente attirate da NASA e Berkeley. Era la presenza di un sacco di gente così intelligente che le aveva raggruppate lì.

“Stiamo davvero andando alla NASA?” chiese Kevin. Quasi non ci poteva credere, il che non aveva senso, date tutte le cose a cui aveva dovuto credere negli ultimi giorni.

Il campus della NASA era totalmente diverso dagli edifici del SETI. Era grande e costituito da diversi caseggiati disposti in uno spazio da cui si poteva avere una visuale sia delle colline circostanti che della baia. C’era un centro visitatori che era essenzialmente una tenda costruita su una scala che pareva difficile da contemplare, di colore bianco chiaro e contrassegnata dal marchio NASA. Andarono oltre però, arrivando a uno spazio che era chiuso al pubblico, dietro a una recinzione metallica e a una barriera dove la dottoressa Levin dovette mostrare un documento per poter accedere.

“Mi aspettano,” disse.

“E loro chi sono, signora?” chiese la guardia.

“Questo è Kevin McKenzie con sua madre,” disse la dottoressa Levin. “Sono con me.”

“Non sono sul…”

“Sono con me,” disse ancora la dottoressa Levin, e per la prima volta Kevin ebbe la sensazione del genere di durezza legata alla sua posizione. La guardia esitò un momento, poi tirò fuori un paio di pass per visitatori che la dottoressa porse loro. Kevin appese il proprio attorno al collo, e gli parve come un trofeo, come un talismano. Con questo poteva andare dove voleva. Con questo la gente effettivamente gli credeva.

“Dovremo andare nell’area ricerca,” disse la dottoressa Levin. “State attenti a non toccare niente, per favore, perché alcuni degli esperimenti sono delicati.”

Fece strada all’interno di un edificio che appariva essere composto per lo più da delicate curve di acciaio e vetro. Era il genere di luogo che Kevin si era aspettato quando erano venuto a Mountain View. Era così che doveva essere un posto da dove si osservava lo spazio. C’erano laboratori dappertutto, con il genere di attrezzatura avanzata che lasciava immaginare che potessero testare quasi qualsiasi cosa lo spazio lanciasse dalla loro parte. C’erano laser e computer, panche e strumenti che sembravano appartenere all’ambito della chimica. C’erano laboratori pieni di attrezzi per la fusione e componenti forse di automobili, ma che Kevin voleva credere fossero veicoli da utilizzare su altri pianeti.

La dottoressa Levin faceva domande alla gente man mano che passavano, tentando di capire dove si trovassero coloro che erano coinvolti nella novità del messaggio dalla Pioneer 11. Ogni volta che passavano vicino a qualcuno, si fermava, e Kevin ebbe l’impressione che conoscesse tutti lì. Il SETI poteva essere separato da tutto questo, proprio come diceva lei, ma era ovvio che la dottoressa Levin passasse lì un sacco di tempo.

“Ehi, Marvin, dove sono tutti?” chiese a un uomo con la barba e una camicia a quadri.

“Sono quasi tutti riuniti nel centro di ricerca del supercomputer,” disse. “Con una cosa del genere, vogliono vedere cosa si inventeranno le buche.”

“Le buche?” chiese Kevin.

La dottoressa Levin sorrise. “Vedrai.”

“Loro chi sono?” chiese l’uomo con la barba.

“Cosa diresti se ti raccontassi che il nostro Kevin qui può vedere gli alieni?” chiese la dottoressa Levin.

Marvin rise. “Puoi giocare alla cacciatrice di alieni quanto vuoi, Elise. Sappiamo che sei scettica quanto tutti noi.”

“Magari non su questo,” disse la dottoressa Levin. Guardò verso Kevin e sua madre. “Da questa parte.”

Li condusse verso un’altra ala dell’edificio, e ora Kevin ebbe la sensazione di una sicurezza maggiore, con scanner di documenti e videocamere quasi in ogni angolo. E poi era probabilmente il posto più pulito in cui lui fosse mai stato. Molto più pulito, per esempio, della sua camera. Sembrava che neanche un granello di polvere avesse il permesso di accedervi senza un permesso, senza parlare dei mucchi di abiti vecchi che riempivano camera sua fino a che sua mamma non gli diceva di riordinare.

I laboratori erano quasi vuoti in quel momento, e vuoti in un modo che suggeriva che fossero stati abbandonati di fretta perché stava accadendo qualcosa di più eccitante. Era facile vedere dove fossero andati tutti. C’era parecchia gente nei corridoi mentre loro si avvicinavano alla destinazione, intenti a scambiarsi pettegolezzi di cui Kevin colse solo qualche frammento qua e là.

“C’è un segnale, un segnale vero.”

“Dopo tutto questo tempo.”

“Non sono solo dati telemetrici, o scansioni. C’è qualcosa… di diverso.”

“Eccoci,” disse la dottoressa Levin quando arrivarono a una stanza dove la porta era stata lasciata aperta, ovviamente per permettere alla folla di persone di entrarvi. “Fateci passare, per favore. Dobbiamo parlare con Sam.”

“Ecco.” Si rivelò essere un stanza ampia, piena di luci lampeggianti e circondata da passaggi che la facevano assomigliare un po’ a un teatro dove gli attori stavano ai computer. Kevin riconobbe che si trattava di computer, anche se non assomigliavano per niente al piccolo portatile a malapena funzionante che sua madre gli aveva comprato per la scuola. Questi erano dispositivi grandi come tavolini, come automobili, come stanze, tutti di colore nero opaco e con lucine lampeggianti. Le persone che vi stavano vicino, in piedi o sedute, indossavano dei camici come quelli degli scienziati negli show televisivi.

“Impressionato?” chiese la dottoressa Levin.

Kevin poté solo annuire. Non aveva parole per un posto come quello. Era… incredibile.

“Cos’è questo posto?” chiese sua madre, e Kevin non sapeva dire se fosse un bene o un male che neanche sua madre riuscisse a capire.

“È dove la NASA fa le sue ricerche al supercomputer,” spiegò la dottoressa Levin. “Si lavora su IA, computazione quantistica, superconduttori più avanzati. Sono anche strumenti che vengono usati per lavorare su… questioni complesse. Venite, dobbiamo parlare con Sam.”

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