Читать книгу Il fantasma di Canterville e il delitto di Lord Savile - Oscar Wilde - Страница 3
INTRODUZIONE
ОглавлениеNon rifarò la biografia d'Oscar Wilde, ormai cosa pubblica, ahimè, troppo pubblica. Più che per la grandezza e la decadenza della sua vita, più che per la stessa sua opera, Wilde interessa sopratutto per il particolare significato che possiamo trarre dalla sua personalità d'eccezione.
«Io non rimpiango — scrive egli nel De profundis, che è il migliore commento alla tragedia della sua vita — io non rimpiango un solo istante di aver vissuto per il piacere. Io feci questo appieno, come si dovrebbe fare ogni cosa che si fa. Non ci fu piacere che io non sperimentassi; io gettai la perla della mia anima in una coppa di vino; io scesi pel sentiero fiorito di margherite al suono dei flauti; io vissi di favi di miele. Ma continuare la stessa vita sarebbe stato un errore, perchè sarebbe stata una limitazione. Io dovevo andare innanzi: l'altra metà del giardino aveva anche i suoi segreti per me».
E aggiunge, nel suo orgoglio di scrittore che vive, pur nel carcere da cui scriveva, la sua vita letteraria con profonda coscienza: «Naturalmente, tutto ciò è adombrato e prefigurato nei miei libri.».
Nè avrebbe potuto essere altrimenti. In ogni singolo istante della propria vita, si è quello che si sarà non meno di quello che si è stati. L'arte è un simbolo, perchè l'uomo è un simbolo.
«Io non rimpiango un solo istante di aver vissuto per il piacere!»
Non i piaceri, il Piacere. Il Piacere, per quanto raro, è un fatto: i piaceri, quantunque abbondanti e comuni, sono una ricerca e quasi sempre vana.
Quando si riesce ad opporre al gigante Tædium l'esercito dei nani piaceri, il gigante soffoca i nani con qualche gesto, e riprende la sua posa stanca.
I moralisti non concepiscono la parola «Piacere» se non come un richiamo agli appetiti più umili. Esaltano le idee di dovere, di solidarietà, di sacrificio, mai l'idea di godere, di fare della vita una luce, un infinito, un piacere. Secondo le loro abitudini spirituali, un'idea simile è un'idea che offende e degrada. Una filosofia del piacere! Ma significa mancare d'ideale.
Rispondiamo senza timore: il piacere può benissimo essere un ideale e molto favorevole allo sviluppo e alla grandezza dell'umanità.
Dal Cristianesimo in quà gli uomini non si sono occupati del piacere se non per condannarlo, e gli stessi poeti, così eloquenti sul dolore, hanno trattato il piacere con un certo disdegno. In questi ultimi anni, veramente, è avvenuta una reazione in favore della vita, e la gioia è stata cantata con fervore religioso, troppo religioso forse, ma non con tale famigliarità da far dimenticare la malinconia baudelairiana:
Sois sage ô ma douleur et tiens toi plus tranquille.
Il dolore ha sempre ispirato poeti, moralisti, filosofi, e fatto dire, ahimè, molte sciocchezze. La filosofia del piacere è ancora da farsi. Ma il numero degli uomini che comprendono che il piacere è il migliore impiego della vita, è molto aumentato. L'assurda metafisica tedesca, la secca nozione del dovere astratto secondo Kant, ha fatto il suo tempo. Si comincia a comprendere che il primo dovere dell'uomo è di godere. Se no, perchè vivere? «Il mio dovere, diceva Wilde, è di terribilmente godere».
E godette terribilmente, con passione, con violenza, quasi con delirio. Ogni istante di vita era per lui un'offerta degli Dei. Non si può immaginare nulla di più pagano, di più anticristiano. Riempì di lirismo la sua vita fino all'orlo, come si riempie fino all'orlo una coppa di vino.
Aveva il genio, un nome illustre, un'alta posizione sociale. Pareva vivere con lo spirito di Apollo in una intimità profonda e irradiata. Aveva fatto dell'arte una filosofia, e della filosofia un'arte. I suoi scritti insegnavano un modo di pensare che stupiva, seduceva, incantava, dando alle cose altri colori ed altri profumi, avviluppandole di una veste di bellezza, mettendo una rosa ad ogni chiave della viola e ad ogni corda un colore dell'iride.
Dava alla verità ora il vero e ora il mendace come imperi legittimi, mostrando che il vero e il mendace sono semplici modi d'esistenza intellettuale. Faceva della poesia una realtà suprema, della sua vita una realizzazione poetica verso cui convergevano, come per incantesimo, tutti i raggi della gloria mondana... Era deliziosamente chino verso il sorriso. Salice e acqua insieme, un'acqua che diceva: «Ascoltatemi, ascoltatemi!» e poi se n'andava, con un piccolo fremito, a fare dei glu glu di narghilè in una qualche ironica Mongolia.
Favoleggiava:
«C'era una volta un uomo che la gente del villaggio amava, perchè contava storie. Tutte le mattine egli usciva dal villaggio, e quando vi rientrava alla sera, tutti i lavoratori del villaggio, dopo aver travagliato tutto il giorno, gli si adunavano intorno e dicevano: «Via! racconta: Che hai tu veduto oggi?». Egli raccontava: Ho veduto nella foresta un fauno che suonava il flauto, e faceva ballare una corona di piccoli silvani. — Racconta ancora. Che hai tu veduto? dicevano gli uomini. — Quando sono arrivato sulla spiaggia del mare ho veduto tre sirene a fior delle onde, che pettinavano con un pettine d'oro i loro verdi capelli. — E gli uomini lo amavano perchè contava storie.
Una mattina egli abbandonò come tutte le mattine il suo villaggio. Ma quando arrivò alla spiaggia del mare, ecco che egli scorge tre sirene a fior delle onde, che pettinavano con un pettine d'oro i loro capelli verdi. E continuando la sua passeggiata, egli vide, giunto presso il bosco, un fauno che suonava il flauto a una corona di silvani...
Quella sera, quando egli rientrò nel suo villaggio e gli domandarono come le altre sere: Via! racconta: che hai tu veduto? egli rispose: Non ho veduto nulla».
Nell'atteggiamento di Oscar Wilde non si suole vedere generalmente che un esasperato bisogno di stupire, d'irritare la curiosità del pubblico. Egli stesso, conveniamone, invitava ad un giudizio così superficiale, grazie alle spumeggianti qualità del suo spirito aristocratico, tutto trine e gioielleria. Ma dietro il brillante fantasma del dandy, dietro il gentleman prezioso, estremo, superlativo, ecco apparire il vero personaggio di Wilde, il fascinante favoleggiatore, il prestigioso datore di estasi, il Bugiardo, com'egli dice, il cui scopo è di sedurre e d'incantare. Ed ecco che sotto il suo alito musicale l'albero di Delfi rinfiora, e nella foresta si solleva il vento delle danze silvane, e a fior delle onde appaiono le sirene...
«E la Società non sarà sola a bene accoglierlo, dice Wilde raccogliendo in qualche parola l'essenza stessa della sua estetica. L'arte, evasa dalla prigione del realismo, s'affretterà innanzi a lui e bacierà le sue belle labbra menzognere, sapendo bene che lui solo possiede il segreto delle sue manifestazioni — il segreto che la Verità è assolutamente e interamente questione di stile. E la Vita, stanca di ripetersi a profitto di Spencer, degli storici scientifici e dei compilatori di statistiche, la Vita lo seguirà umilmente e cercherà di riprodurre nella sua maniera semplice e inalterabile qualcuna delle meraviglie ch'egli narra».
Tutte le regioni della sua sensibilità sono illuminate da questo pensiero costante, interamente personale, coesistente alla virtù adunatrice di verbi, onnipresente ad ogni manifestazione della sua individualità fino talvolta ad acuirne il senso sottile. Per Wilde, come per Platone, come per Fichte, il mondo reale non è che pura concezione del nostro spirito, e le cose non sono che apparenze delle nostre idee.
Egli andava nella vita esultante, recando nelle mani la sua anima sacra di Poeta. Non era Giacinto che veniva a parlare delle rive del lago di Tiberiade; era l'ombra di Orfeo vittoriosa degl'inferni.
Si esprimeva per apologhi, pensava in brevi significazioni narrative bagnate di un'atmosfera magnetica che permetteva allo spirito un prolungamento e una suggestione indefinita. E la voce era di una musicalità fine e dolce, quasi un accompagnamento avviluppante la frase elegante e perfetta. Parole speciose, silenzi enigmatici, suggestioni, musiche...
E quando egli taceva, tutti lo ascoltavano ancora, commossi e sorridenti, simili a quei marinai delle navi greche, ai quali la voce insidiosa del mare recava il mormorio sommesso delle sirene.
Ma attraverso i più seducenti arabeschi dell'immaginazione e del linguaggio, l'idea era sostenuta ad un'altezza paradossale e logica. Una giuntura sottile e segreta fondeva strettamente l'emozione dell'esteta e l'emozione dell'uomo; e il metallo sortiva puro, lo stilista non aveva che da cesellarlo, gioiello d'arte e di vita, con quella flessibilità intellettuale che può prendere tutte le maschere, insinuarsi in tutti gli atteggiamenti, vivere insieme e volontariamente vite diverse e contradittorie.
A questo punto della sua vita Oscar Wilde è completo; personifica la propria vita e la propria leggenda assaporando la voluttà profonda d'associare degli opposti. Il segreto meraviglioso della vita è suo. Egli può veramente dirsi «re della vita»: The King of the life.
Ma a questo punto comincia una fine e quasi impercettibile deteriorizzazione progressiva. Il soffio del dionisiaco, moderato fin qui come in un concerto il lirismo del solista è sottomesso al bisogno preciso della misura, adesso si fa elemento dominante ed esasperante. L'affermazione della Vita stessa nei suoi problemi più strani e più ardui, la volontà di vita che sacrifica i suoi tipi più elevati a beneficio del proprio carattere inestinguibile, quello insomma che Nietzsche ha chiamato «dionisiaco», sale, si svolge, si diffonde, si esalta.
Egli, giustificò Henri De Régnier, credeva vivere in Italia ai tempi del Rinascimento o in Grecia ai tempi di Socrate...
Lo spaventoso amore ch'egli provava per la vita e per la bellezza della vita, era come una virtù demoniaca che lo innalzava su tutti i culmini e lo profondava in tutti i baratri. Sottili desiderî, voglie squisite, volontà fosche, aberrazioni incredibili, un fervore epicureo da cui s'alza fatidico e quasi rabido l'antico monito pagano: coronemus nos rosis, cras enim moriemus.
Per qualche tempo egli fu così il simbolo di un nuovo Edonismo e andò nel mondo ebbro di arte, con la gola arsa di bellezza, con gli occhi bruciati dalla sua visione, con la febbre di squisiti peccati nel sangue, senza lasciar sfuggire un solo istante, cercando sempre sensazioni nuove, sempre, sempre... Ma il ritmo del pathos travolge e precipita. Incipit tragœdia.
La sventura, come già il piacere, è opera deliberata e necessaria di quel dover terribilmente godere.
«Io dovevo andare innanzi: l'altra metà del giardino aveva anche i suoi segreti per me». Ed egli fa di sè, della sua carne e della sua anima, una belva intelligente e voluttuosa.
Gli amici lo descrivono nei tempi immediatamente anteriori alla prigionìa, vagante per l'Europa e per l'Africa Settentrionale, in preda a non so quale inquietudine.
Ad Algeri, narrò ad Andrè Gide uno degli ultimi suoi miti delicati e sapienti; egli sfuggiva l'opera d'arte, non voleva più adorare se non il sole; il sole detesta il pensiero, lo fa indietreggiare e rifugiarsi nell'ombra, dall'Egitto alla Grecia, all'Italia, alla Francia, alla Russia, alla Norvegia.
L'adorazione del sole era l'adorazione della vita, lirica adorazione che si faceva via più feroce, terribile. Il Gide aggiunge: «Nietzsche mi stupì meno più tardi, perchè avevo inteso Wilde dire: Non la felicità! Sopratutto non la felicità. Il piacere! Bisogna voler sempre il più tragico».
E volle il più tragico.
La storia è nota. Fu lui che intentò il processo contro il più illustre dei suoi diffamatori, entrò quale accusatore in quella «Camera della giustizia degli uomini...». Fu preso, tonduto, vestito di sacco, ammanettato...
Pianse:
«A chi è in prigione, egli dice, le lagrime son parte della quotidiana esperienza: un giorno in prigione senza pianto è un giorno in cui si ha il cuore duro, non un giorno in cui si è felici».
Ma pur dal profondo dell'abisso egli si inebria delle bellezze che lo attendono oltre la porta della prigione:
«Io ho uno strano desiderio delle grandi e semplici cose primeve, come il mare, che m'è non meno materno della terra... Io tremo di piacere quando penso che il giorno stesso in cui lascerò la prigione, insieme il citiso e la glicine fioriranno nei giardini e ch'io vedrò il vento agitare in mobile bellezza l'oro ondeggiante dell'uno, e far che l'altro scuota la pallida porpora delle sue piume, così che tutta l'aria sarà Arabia per me».
Come Gautier, egli è sempre uno di coloro pour qui le monde visible existe. Pur nel profondo dell'abisso la sua anima rimane pagana e s'inebria di piacere, anche se amaro e pieno di pianto. Quello di cui arrossisce, non è quello che la Società gli rimprovera, il «Peccato», ma di essersi lasciato sorprendere per mancanza d'individualismo:
«Naturalmente, confessa Wilde, una volta che misi in moto le forze della società, la società mi si pose contro e disse: Come! tu hai vissuto fin quì sfidando le mie leggi, ed ora vieni ad invocar protezione a queste stesse leggi? Esse ti saranno strettamente applicate. Il risultato è ch'io sono in prigione».
Dalla prigione, egli scriveva a Robert Ross:
«Troppo lunga è stata la mia tragedia, passata è la sua crisi, meschina la sua catastrofe; ed io sono convinto che quando saremo sul finire io farò ritorno, come un ospite male accolto, nel mondo che mi rifiuta. Sarò un revenant, come dicono i francesi, uno dal volto fatto macro per lunga prigionia, affranto per lungo patire. Orribili sono i morti quando si destano dalla loro tomba, ma più orribili i vivi che tornano dalle tombe. Di tutto questo io ho piena coscienza.
Ben lo sapeva, egli che essendo in contatto con Ariel come artista, dovette lottare con Calibano. E Calibano lo vinse. «Avevo un'anima, non so cosa ne abbiano fatto», disse egli un giorno ad André Gide, con un tentativo di riso che aveva il suono di un singhiozzo...
* * *
«Ciò che il paradosso era per me nella sfera del pensiero — dice Wilde nel De profundis — la perversità lo divenne nel dominio della passione».
Il «paradosso» non è altro, insomma, che una verità poco familiare e che il tempo attenuerà in verità usuale e, forse, in luogo comune: il nome che gl'imbecilli danno alla verità — diceva Jean Moréas, quando lo accusavano d'esser paradossale.
Alcune «verità poco familiari» sono una fra le più notorie caratteristiche dell'opera di Oscar Wilde. Frasi nette, lucide, boutades lanciate col piccolo colpo secco di una tabacchiera che si richiude:
— Nessun delitto è volgare. Ma ogni volgarità è delitto. La volgarità è la condotta degli altri.
— Si dovrebbe esser sempre un poco inverosimili.
— Esser prematuro, significa esser perfetto.
— Una verità cessa di esser vera quando più di uno crede in lei.
— Soltanto gli dei conoscono la morte. Apollo è scomparso. Ma Giacinto il quale, secondo gli uomini, venne sgozzato da lui, vive ancora: Nerone e Narciso son sempre con noi.
— La condizione della perfezione è la pigrizia. Lo scopo della perfezione è la giovinezza.
— Evitate gli argomenti di non importa qual genere. Essi sono sempre volgari e spesso convincenti.
E questa definizione delle donne:
— Sfingi senza segreto.
E questo aforisma in difesa dell'egoismo:
— Il mezzo sicuro di non conoscer nulla della vita, è quello di cercare d'essere utile.
Wilde amava suscitare il riso, sorridendo; ma si compiaceva anche ad una specie di emozione quasi ostile al riso, la cui qualità potrebbe definirsi «opulenza», magnificenza, magistero di arte che ordisce la trama con fila d'oro e la ricama con gemme.
Se non precisamente un classico del ridere, Wilde è un classico di quell'humour così particolare agl'inglesi, cui egli aggiunge un sapore di decadenza singolarmente acconcio all'anima pagana che l'invade e lo tormenta:
«Quando Gesù volle rientrare in Nazaret, egli narrava, Nazaret era così cambiata che Gesù non riconobbe più la sua città. La Nazaret ove egli aveva vissuto era piena di lamentazioni e di lagrime, questa città era piena di risa e di canti. E Cristo, entrando in città, vide degli schiavi carichi di fiori affrettarsi verso la scalea di una casa di marmo bianco. Cristo entrò nella casa, e in fondo ad una sala di diaspro, coricato sopra un giaciglio, vide un uomo i cui capelli disfatti erano mischiati alle rose rosse e le cui labbra erano rosse di vino.
Cristo si avvicinò a lui, gli toccò la spalla e gli disse: — Perchè conduci questa vita? — L'uomo si volse, lo riconobbe e rispose: — Ero lebbroso; tu m'hai guarito. Perchè condurrei un'altra vita?
Cristo uscì da quella casa. Ed ecco che nella strada vide una donna il cui viso e le vesti erano dipinti, e i cui piedi erano calzati di perle; e dietro di lei camminava un uomo il cui abito era di due colori e i cui occhi si gravavano di desiderio. E Cristo si avvicinò all'uomo, gli toccò la spalla e gli disse: — Perchè dunque segui questa donna e la guardi così? — L'uomo si volse, lo riconobbe e rispose: — Ero cieco; tu m'hai guarito. Che altro farei della mia vista?
E Cristo si avvicinò alla donna: — La strada che tu segui, le disse, è quella del peccato; perchè seguirla? — La donna lo riconobbe e gli disse ridendo: — La strada ch'io seguo è gradevole, e tu hai perdonato tutti i miei peccati.
Allora Cristo sentì il suo cuore colmo di tristezza e volle abbandonare questa città. Ma come ne usciva, vide infine, seduto sull'orlo dei fossati della città, un giovine che piangeva. Cristo gli si appressò e toccando le ciocche dei suoi capelli gli disse:
— Amico mio, perchè piangi?
Il giovine levò gli occhi, lo riconobbe e rispose: — Ero morto e tu m'hai risuscitato; che altro farei della mia vita?»
Non è agevole cosa definire la qualità del riso di Wilde. È un ridere leggero, un condurre di prato in prato relegante armento di delicate «fumisteries», immaginate e dette su fumo di sigarette.
Di questo suo humour personalissimo diamo esempio, in questa raccolta, con la traduzione dei due deliziosi etchings che seguono, racconti di buffoneria, dove Wilde, come sempre, rimane serio.
G. Vannicola.