Читать книгу Strada senza uscita. Storia di due amori e un’amicizia - Роберто Борзеллино - Страница 4

CAPITOLO SECONDO – GLI ANNI DEL LICEO

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Fin dall’adolescenza mi chiedevo chi fossi in realtà, se avessi un vero talento e la capacità di realizzare tutti i miei sogni che all’epoca, per un ragazzo di sedici anni, sembravano ancora troppo grandi. Ogni giorno percorrevo a piedi la strada per andare a scuola, evitando di passare per il centro pur di camminare sul lungomare e ammirare quei bellissimi promontori della costiera Amalfitana.

Era soprattutto durante quelle primaverili mattinate di tiepido sole che li guardavo stagliarsi diretti contro di me, in tutta la loro potenza e maestosità. A volte mi fermavo su di una panchina e chiudendo gli occhi aspettavo che arrivasse quell’anelito di vento che trasportava la brezza marina del mattino e poi, come sempre, restavo incantato ad ascoltare il canto dei gabbiani che, in cerca di cibo, si tuffavano voracemente nell’azzurre acque del mare. In quei due chilometri, tra casa e scuola, nascevano e morivano mille idee, mille progetti e tutt’intorno sembrava rallentare come un film già visto alla moviola.

Immaginavo come sarebbe stato “figo” arrivare a scuola a bordo di una fiammante e nuova spider Alfa Romeo, tutta rossa, decappottabile e quale invidia avrebbero provato i miei compagni di classe nel sentire il rombo del motore salire di giri, sempre più forte, un rumore quasi assordante. Ma soddisfazione ancora più grande sarebbe stata vedere le ragazze più” carine della scuola fare la fila e mostrarsi pronte a tutto pur di poter salire su quell’auto e correre in giro per la città, per sentire l’ebbrezza della velocità e il vento nei capelli. Purtroppo per me quelli erano solo i pensieri di un adolescente che, intanto, continuava ad andare a scuola a piedi, mentre in quegli anni ’80 un semplice motorino, anche usato, avrebbe potuto fare la differenza tra uno “sfigato” e uno che “ci sapeva fare”.

Quei sogni, quelle illusioni, duravano solo il tempo di quel breve tragitto e poi avrebbe avuto inizio, come sempre, il tormento di quella giornata. Così come ogni giorno, anche quel lunedì mattina bisognava trascorrere cinque lunghe ore chiuso in una grande stanza al piano terra, insieme ad altri tredici disperati che, come me, avevano la sensazione di essere come dei prigionieri in attesa della libertà. Con passi sempre più lenti ormai mi avvicinavo inesorabilmente all’entrata della scuola; adesso potevo distinguere perfettamente il palazzone color rosso porpora mentre con lo sguardo controllavo gli altri studenti che, come me, svogliatamente, arrivavano alla spicciolata formando e dividendosi in piccoli gruppi di tre o quattro elementi.

Qualcuno fumava nervosamente, altri sembravano ancora assonnati, qualcun altro parlava ad alta voce e cercava di vantarsi della sua nuova conquista del sabato sera, avvenuta come sempre in discoteca, quasi che avesse piacere affinché tutti gli altri, oltre al suo piccolo gruppetto, potessero ascoltare e condividerne i particolari più piccanti.

Intanto osservavo se tra quei ragazzi ci fosse qualche volto noto, un compagno o compagna di classe con la quale fare due chiacchiere prima dell’inizio delle lezioni, ma non riuscii a scorgerne nessuno e sembravo, stranamente, essere arrivato in anticipo. Quel giorno dovetti restare ancora da solo per qualche minuto ed ebbi il tempo per continuare a fantasticare con la mente: mi chiedevo se non sarebbe stato un comportamento “rivoluzionario” se, quel lunedì mattina, tutti noi adolescenti, avessimo proclamato uno sciopero improvviso, magari adducendo come motivo l’insalubrità di quelle grandi stanze umide e fredde in cui eravamo costretti a stare per lunghe ore durante la giornata e dove, ormai sempre più spesso, era possibile notare anche i calcinacci che pendevano dal soffitto.

Mi chiedevo quand’era stata l’ultima volta che avevano provato a dare una sistemata o, almeno, una mano di colore.

Il povero bidello Gianni faceva quello che poteva, ma oltre alle pulizie generali s’interessava solo di cambiare qualche lampadina o sostituire le serrature delle porte delle nostre aule, che qualche buontempone aveva provato a divellere. Quel Gianni era un tipo davvero strano, aveva un aspetto tarchiato e corpulento e la statura più bassa della media, ma con delle grandi mani, ruvide e callose. Era evidente la sua origine contadina e, quando aveva del tempo libero, si divertiva a coltivare il piccolo giardino che si stendeva tutt’intorno al perimetro della scuola. Qualche volta, tra una lezione e l’altra, mi affacciavo dalla finestra al piano terra e mi divertivo a fare ambigui commenti sul tipo di ortaggi che avrebbe potuto coltivare durante la giornata.

Comunque Gianni era un tipo simpatico e non reagiva mai in modo sgarbato o violento ai nostri scherzi anzi, a volte ci invitava a prendere un caffè che era solito preparare nel suo stanzino, quello delle scope e dei detersivi. Con il tempo aveva saputo organizzarsi bene portandosi da casa un piccolo fornello da campeggio al quale aveva collegato una minuscola bombola da gas e con quello si preparava spesso da mangiare; non era raro respirare l’odore della carne arrostita che, dopo aver attraversato tutto il corridoio, giungeva in tutte le aule, compresa la nostra. All’ora di pranzo quel profumo diventava una vera tortura, mentre dovevamo aspettare ancora qualche ora prima di poter tornare a casa per mangiare. Dal preside all’ultimo dei professori tutti chiudevano un occhio per quei comportamenti poco “ortodossi”, ma Gianni sapeva farsi perdonare, perché era sempre gentile e disponibile con tutti.

Mi riportò alla realtà il crescente brusio delle voci dei ragazzi che nel frattempo avevano quasi riempito tutto l’atrio dell’entrata della scuola; decisi di sedermi sul piccolo muretto che mi avrebbe allontanato di qualche metro da quella “mandria”, che poteva dirsi mansueta solo all’apparenza. Adesso ero seduto in un posto considerato strategico ed ero sicuro che nessun mio compagno di classe, entrando, avrebbe potuto non vedermi. Anche da seduto potevo vedere quello strano cancello di ferro, rosso e nero, che per me segnava il confine tra la libertà e l’agonia di una giornata da trascorrere ad ascoltare lezioni spesso inutili. Tutti quei professori, messi insieme, non erano in grado di dirti o di spiegarti chi eri, in quale direzione andare o di orientarti nelle scelte future della vita. Tra le altre cose dovevamo imparare anche il latino, una lingua considerata morta, ed io riflettevo “ma se è una lingua morta ci sarà stato un motivo e perché resuscitarla proprio con noi, non sarebbe stato meglio insegnare un’altra lingua, magari l’inglese, che con il francese ci avrebbe fornito le basi magari per trovare un lavoro migliore e consentirci di fare delle esperienze all’estero?”.

Era evidente che non potevo immaginare la scuola se non come una gabbia, una fabbrica di nozioni, un posto tetro e ormai obsoleto, dove nessuno si curava delle idee di noi giovani che, in un futuro non lontano, saremmo stati la spina dorsale sulla quale si sarebbe poggiata la nostra Nazione.

Cosa fare delle nostre aspirazioni? Come assecondare la nostra voglia di conoscenza?

Eravamo una generazione che non aveva internet ne telefonini e spesso le nostre idee restavano confinate nei cassetti della nostra mente. Di quei cinque anni trascorsi al liceo non ricordavo neppure un episodio insolito accaduto come forma di protesta nei confronti di quel sistema scolastico.

Ricordavo solo che quel lunedì mattina cercavo una via d’uscita, forte era la tentazione di voltarsi e di tornare indietro.

Sì, ma per andare dove?

Certamente non a casa dove avrei trovato mia madre già pronta a minacciare chissà quale esemplare punizione al ritorno di mio padre dal lavoro.

Nemmeno volevo trascorrere l’intera mattinata da solo, seduto su di una panchina al lungomare a dividere il mio panino con i gabbiani. Alla fine di quel mio girovagare nella mente mi resi conto che, probabilmente, entrare a scuola era la scelta più saggia, il male minore.

Guardai l’orologio e solo pochi minuti mi separavano dal suono di quella “maledetta” campanella: l’avevo sempre immaginata come una “campana a morto” che salutava il carro funebre al termine della funzione sacra. Invece della campanella giunse al mio orecchio il suono di una voce familiare provenire dalle mie spalle, era una voce dolce e gentile che avrei riconosciuta ad occhi chiusi, tra mille altre. “Ciao Roberto, sono felice di vederti, allora ci siamo proprio tutti questa mattina?”. Mi voltai lentamente cercando di incrociare subito il suo sguardo e, in quel momento, la luce di due occhi grandi e azzurri illuminò subito il mio viso, così come un faro nella notte buia. Era Marina, la mia compagna di classe che mi veniva incontro sorridendo. Non aspettavo altro e noncurante di essere rimproverato, il mio sguardo cadde inesorabilmente sulla sua camicetta bianca sbottonata al punto che potevo quasi intravvedere il suo reggiseno. Le risposi con un sorriso mentre a stento riuscii a dirle “ciao”. La osservavo ormai da quasi cinque anni, sempre seduta in prima fila, nel banco centrale, accanto alla sua amica del cuore, Marta, sempre mi era mancata l’iniziativa e il coraggio di dirle quello che provavo, di confessarle tutto il mio amore.

Avevo cercato di custodire gelosamente questo mio segreto ma i miei comportamenti, i miei sguardi da “pesce lesso” ogni volta che la incontravo, avevano reso evidente a tutti quelli della mia classe che ero innamorato di Marina. Sembrava che tutti avessero conoscenza di quel segreto – tutti tranne Marina. Questo che mi suggeriva il suo comportamento, a volte freddo e scostante, alternato a periodi in cui sembrava avvicinarsi tanto quasi da farmi sentire il suo calore. Questo bastava ogni volta a riaccendere in me la fiammella della speranza, a farmi pensare che non tutto fosse perduto.

Qualche volta avevo provato a fare il “giro largo” provando ad avvicinare la sua amica Marta per cercare, con modi gentili, di farla aprire e confessare l’inconfessabile e cercare di capire i reali sentimenti di Marina per me. Fu tutto vano, Marta sembrava tenere i segreti anche meglio di una cassaforte in banca e non accennò mai a qualche pettegolezzo né rivelò mai le “confidenze” di Marina.

Questo mistero mi contorceva fino dentro l’anima ma era solo colpa mia se fino a quel momento non ero riuscito a dichiararmi apertamente con Marina; avevo il terrore di un suo “no”, da cui sarebbe scaturito una vera catastrofe per l’immagine positiva che ero riuscito a crearmi in tutti quegli anni, oltre al fatto che quel suo eventuale rifiuto mi avrebbe provocato non pochi imbarazzi verso i miei compagni di classe ogni volta che fossi arrivato a scuola. A volte immaginavo i loro sguardi divertiti e i commenti idioti. Il rischio che correvo era troppo grande e non volevo ne potevo assolutamente macchiare la mia reputazione, anche a costo di perdere Marina.

Anche per questo non detti nessuna colpa a Marta per la sua scarsa “collaborazione” ma anzi, dovevo solo ringraziarla per le tante volte che mi aveva tirato fuori dai guai. Molto spesso, durante le mie interrogazioni alla lavagna, grazie ai suoi suggerimenti ero riuscito a salvarmi per il rotto della cuffia. Noi tutti l’avevamo soprannominata “la nostra ultima speranza”. Marta era considerata il genio dell’intera scuola e non era per niente facile tenerle testa perché aveva almeno due lunghezze di vantaggio su tutti, sempre preparata su ogni argomento, anche quelli tradizionalmente più impegnativi.

Quella ragazza era la nostra fortuna, la nostra ancora di salvezza, sempre disponibile ad aiutare quelli che restavano indietro, soprattutto in quelle materie che molti di noi trovavano particolarmente difficili: il latino, la fisica e la matematica. Per la “nostra ultima speranza” quelle materie sembravano non avere più segreti ed era raro vederla commettere degli errori. Era accaduto sovente che, durante la lezione, correggesse il professore di turno, il quale non poteva fare altro che ammettere la “distrazione”, non senza mostrare un mal celato imbarazzo.

Adesso Marina era lì, davanti a me, e mi sentivo preso come da una strana eccitazione, mentre un fremito improvviso e tumultuoso mi colpiva ad ogni suo sorriso, ad ogni suo sguardo. Come sempre era incantevole e pareva sprigionare un mix di dolcezza e sincerità che le illuminava il viso; questo suo modo di fare mi apriva il cuore in due, come un apriscatole. Sentivo le pulsazioni andare a mille ma cercavo di mantenere una calma, almeno apparente; dopo aver raccolto tutte le mie anergie mentali cercai di comportarmi come un navigato attore che, giunto sul set, è pronto a dire la sua battuta. Quindi, distolsi lo sguardo dai suoi occhi e provai a balbettare: “Ciao Marina, come va questa mattina, immagino che avrai studiato tutto il giorno oppure ieri sera sei andata in giro a divertirti con le amiche?”. Mi veniva naturale farle quelle domande “trabocchetto” tanto era il desiderio di scoprire cosa avesse fatto il giorno prima, se avesse trascorso tutto il tempo sui libri di scuola o fosse uscita con qualcuno dei suoi amici.

Strada senza uscita. Storia di due amori e un’amicizia

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