Читать книгу Giustizia È Fatta! - Saša Robnik - Страница 3

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Tunnel K-14, Azra

Pago il conto, indosso la giacca e lascio quel luogo di derelitti e disperati. Le loro voci indugiano dietro di me mentre cammino nella notte lungo il marciapiede bagnato. La luce al neon del pub si mescola con i miei passi sul cemento.

La notte è immacolata come il sorriso di un neonato. La inspiro fino a quanto i miei polmoni riescono a sopportare. E’ rassicurante sapere che quell’aria oscura possa espellere i veleni che hanno permeato il mio corpo nel bar, eppure lo sapevo e lo so ancora: non c’è veleno più grande del rimpianto e del senso di colpa che mi perseguitano. Un bicchierino di rakija non è la soluzione, solo un ritardo dell’agonia che devasta il mio io interiore. Eppure, il liquore ti fa dimenticare qualsiasi cosa un momento se non sei solo, mentre se lo sei, non fa altro che intensificare il veleno ad ogni sorso.

Quando apro la porta e accendo la luce, il corridoio mi accoglie con il suo vuoto e la sua lampadina spoglia la cui luce rende tutto inquietante. Appendo la giacca e mi tolgo le scarpe, esitando, sapendo che c’è qualcosa, in agguato: spesso in stanza da letto, a volte in cucina, raramente in bagno, ma soprattutto in soggiorno.

Eccolo, nel suo cappotto verde, pantaloni bianchi e un berretto in testa, in piedi in un angolo, di fronte al muro. Sempre di fronte al muro, non ho mai visto la sua faccia. A volte vorrei ma non riesco proprio a farlo voltare e non ho il coraggio di toccarlo. La paura dell’ignoto è più forte della mia volontà.

Il suo nome mi è noto, Dio ne è testimone che l’ho pregato cento volte di guardarmi negli occhi, ma non ci sono mai riuscito.

Mi sistemo sul divano e accendo la televisione. Le immagini sullo schermo e la voce dell’annunciatrice svaniscono nella mia coscienza. La luce dello schermo irradia il soggiorno, dove mi siedo incapace di fare qualcosa mentre la mia memoria rimbalza da com’era a come avrebbe potuto essere. Un destino avverso è diventato la mia colpa. E la sua. La nostra.

Da tempo ho smesso di notare l’odore intorno a lui, quell’odore aspro e pungente della polvere di carbone, tipico di ogni minatore, ora mi riempie le narici e mi riporta alla memoria i ricordi. Li rifiuto, sono indesiderati. Sullo schermo si alternano spot pubblicitari e la stanchezza mi travolge. Non vedo l’ora di addormentarmi; il sonno mi porta sollievo e oblio che li fa scomparire in un batter d’occhio, tra l’oscurità e il risveglio. E mentre le mie ciglia si chiudono e il sonno mi abbraccia, lo sento piangere. Singhiozzare e piangere. È così che mi saluta ogni notte.

La sveglia suona e mi risveglia. Mi preparo lentamente e con calma per andare a lavorare. Non arrivo mai in ritardo. L’aroma del caffè e del sole che filtra dalle persiane leggermente aperte mi annunciano un nuovo giorno. Lui è scomparso dall’angolo, molto probabilmente è nel corridoio. Spengo i fornelli, prendo la tazza, torno sul divano e allungo il collo. Eccolo, che inizia a sussurrare contro il muro, veloce e indistinto. Accendo una sigaretta e alzo il volume. Dicono che sarà una bella giornata, senza neve.

Con pochi tentativi, il motore si sforza di uscire dal gelido letargo. Con una piccola pressione sul pedale, ci riesce. Lo lascio in folle ed esco a grattare via il ghiaccio dal parabrezza. Mentre le mie dita si contraggono per il gelo, il mio sguardo va alla finestra del quarto piano e mi sembra di vedere la sua sagoma, illuminata dal sole invernale e sono sicuro che mi stia guardando, nascosto dietro la tenda grigia.

Scendo dalla macchina e incontro i miei apprendisti, giovani ragazzi appena usciti dalla scuola. Bevono caffè e chiacchierano sull’anno nuovo. Sento che stanno programmando qualcosa con alcune ragazze e ridono felici e spensierati.

Dopo aver salutato educatamente, mi riempiono una tazza di caffè con uno sguardo meravigliato sui loro volti. Annuisco con la testa e mando Goran in ufficio. Torna con una bottiglia di liquore e alcuni bicchieri, li riempie per tutti e brindiamo al nuovo anno.

- Un altro? - Chiedo io. Sono tutti bravi ragazzi, scuotono la testa e iniziano a parlare di lavoro, quindi gli assegno i loro compiti. Ivica dovrebbe fare un controllo sulla VW Golf: il proprietario è impaziente perché deve guidare fino a Belgrado. La Peugeot, che è in fermento da ieri sera, è assegnata a Goran. Deve sostituire le pastiglie dei freni e i cavi del freno a mano. La Fiat la prenderò io, non appena Boris mi avrà riportato la testata del cilindro, dopo la rettifica. Lavorerà da solo, ma lo sto supervisionando. È un lavoro preciso, dovrebbe montare la cinghia di trasmissione e posizionarla correttamente in modo che non scivoli e rompa le valvole.

Finalmente arriva Stojan. Non sono arrabbiato con lui per il ritardo, il ragazzo vive molto lontano dal laboratorio. Senza una parola iniziano a svolgere i loro compiti. Come ho detto, sono dei bravi ragazzi.

Canzoni popolari della radio riempiono il laboratorio. Ai ragazzi piace ascoltare la musica mentre lavorano. Non ho niente da ridire su questo. A volte non sento il telefono in ufficio, ma non tutto può essere perfetto. Offro loro questa piccola gioia che accompagna la giovinezza e non ho il diritto di portargliela via.

Così com’è stata portata via a me.

- Buon giorno, capo! - Una voce sconosciuta riecheggia in tutto il laboratorio. Mi giro e lascio che Boris finisca il lavoro da solo, la mia supervisione non è più necessaria, può mettere da solo il coperchio della valvola.

Saluto il nuovo arrivato e gli do una rapida occhiata. Uno zingaro molto giovane. Gli zingari sono buoni clienti, apprezzano il lavoro professionale e lasciano sempre una mancia. Dietro di lui vedo una vecchia Fiat che sbatte in modo irregolare in folle e mi chiedo come quella macchina possa ancora viaggiare per strada.

L’auto mi guarda minacciosa con i suoi doppi fari, innescando una marea di ricordi che mi costringe ad entrare nei bar, tra gente e alcol, in cerca di una via di fuga. Il mio cuore batte più forte mentre mi avvicino ad essa. Non può essere, non può essere, urla ogni fibra del mio corpo. Come se il diavolo stesso avesse fatto rotolare questo veicolo nell’officina, si fosse goduto la scena e mi avesse avvertito che non esiste l’oblio.

Le fasce laterali sono marce, la vernice è diventata opaca e la corrosione si fa strada nei cerchioni. Il paraurti anteriore e quello posteriore sono stati sostituiti. La carrozzeria irregolare e ammaccata racconta storie di mancanza di attenzione e manutenzione superficiale. Ho preso atto di tutto questo inconsciamente, gli anni da meccanico mi guidano sistematicamente e mi riportano indietro nei ricordi. Come da lontano, lo zingaro parla con voce supplichevole del motorino di avviamento, di come spinga per avviarsi, della tristezza e dell’ultima notte dell’anno. La sua voce si perde in un flusso di rabbia, ricordi e rimpianti.

Apro la porta ed esamino l’interno. Gli stessi copri sedili sono lì, intatti nonostante tutti questi anni. Un grosso graffio sul cruscotto, una pallina bianca con punti neri sul pomello del cambio e un adesivo di Puffetta sotto la radio.

L’adesivo che avevo messo io molto tempo prima.

Nuvole scure iniziano a turbinare davanti ai miei occhi e il sangue mi ruggisce nelle orecchie. Faccio un respiro profondo e mi rivolgo allo zingaro mentre sta ancora parlando:

- ... è dura, amico mio, non riesco ad avviarla, ti prego, non importa quanto costi ...

- No - l’urlo esce spontaneo. Non voglio guardare né lui né la macchina, mi causa troppo dolore.

Mi fissa spaventato.

- Porta questa macchina fuori di qui, ora! Non lavoro su vecchie cianfrusaglie! - grido e gli volto le spalle. I ragazzi sono in piedi all’ingresso del laboratorio con gli strumenti in mano, sorpresi dal mio disgusto.

Poi corro in ufficio, verso la bottiglia. Dietro di me, lo zingaro impreca, sale in macchina e si allontana.

Mi verso un bicchierino. Non ho l’abitudine di bere la mattina. Il lavoro mi assorbe, sono circondato da persone e non ne ho bisogno. Adesso però sì.

Infuriato, apro un cassetto della scrivania, trovo una foto sbiadita sotto una pila di cartelle e guardo il viso di un giovane soldato, non più vecchio di 19 anni.

Sulla testa, la titovka, il berretto con la stella comunista e sullo sfondo i vagoni di un treno. I suoi occhi sono seri e neri, le sue guance scavate.

Mio padre. Una foto scattata prima che io nascessi.

Mi ritornano alla mente i ricordi della mia prima infanzia:

Mio padre torna a casa dal lavoro. Io e mia sorella minore siamo seduti su una coperta nel giardino della nostra modesta e piccola casa e stiamo giocando. Lui attraversa il cancello; l’ampio sorriso sul suo volto ci invita a correre da lui. Lui solleva mia sorella, in alto sopra la sua testa e lei ride strillando allegramente. Io gli abbraccio la gamba, ma non riesco a raggiungere la cintura del suo vestito nero da minatore. Il fetore della miniera si fa sentire. Gioca con noi, corriamo per il giardino facendo schiamazzi divertenti. Mia madre appare in veranda e ci chiama a cena.

La porta dell’ufficio si apre. Goran entra e si chiede se possono tornare a casa prima per prepararsi per la festa di Capodanno. Sono d’accordo e verso più liquore nel bicchiere. I ragazzi tornano e mi fanno i migliori auguri. Posso dire che mi stanno guardando in modo strano, ma è una benedizione che non riescano a sentire gli orrori che mi perseguitano, quelli nati in una notte dell’ultimo dell’anno di molto tempo prima.

Nell’ora successiva finisco il lavoro, pulisco l’officina e accolgo i proprietari delle auto. Pagano il conto, mi augurano ogni bene e mi lasciano per andare incontro al nuovo anno. L’ultimo veicolo lascia l’officina ed io sono finalmente solo.

Mentre mi cambio, la stanza si riempie del profumo della polvere di carbone.

Pensavo di esserci abituato, ma sempre in casa, mai fuori. Da quando ho lasciato l’orfanotrofio tre decenni prima con un diploma in tasca e l’indirizzo del laboratorio dove avrei lavorato, era sempre successo in casa.

Mi giro lentamente e vedo la sua schiena. Con la testa china, è in piedi contro il muro, di fronte a un poster di una Ferrari rossa brillante.

- Che cosa stai facendo qui? - Non c’è risposta. In tutti questi anni non ce n’è mai stata una.

La mia mente si scatena, mi verso il terzo bicchiere e accendo una sigaretta. Lui comincia a far schioccare le dita, riecheggiando nell’ufficio. Di tanto in tanto si ferma e si stropiccia gli occhi. O si asciuga le lacrime. La tentazione di toccarlo mi travolge molto, non ho mai osato, ma ora le circostanze sono cambiate.

La mia mano raggiunge la spalla del cappotto verde e mi fermo. Lui solleva bruscamente la testa e lo scrocchio delle dita s’interrompe.

Disperato, esco velocemente dall’ufficio, chiudo l’officina, salgo in macchina e me ne vado con lo stridore delle gomme.

Da venti minuti sono bloccato nel traffico. Un incidente all’incrocio, si possono vedere chiaramente le luci rotanti blu nel tramonto in lontananza. Accendo un’altra sigaretta, apro a metà il finestrino e maledico i guidatori ubriachi che si ubriacano nei loro uffici e poi si mettono al volante.

Sul marciapiede c’è una mamma con due figli. I due stanno portando regali e palloncini con espressioni serie sui loro volti. Staranno sicuramente pensando freneticamente a cosa c’è nei pacchi regalo che hanno ricevuto all’asilo. Sorrido vedendo i loro visi e ripenso nel passato.

Gli amici di papà sono seduti in giardino. Mia madre serve spuntini e mio padre sta versando la birra. Noi bambini giochiamo a calcio, siamo abbastanza da formare due squadre.

Mio padre è raggiante d’orgoglio. Davanti alla casa c’è una Fiat nuova di zecca che brilla nel sole autunnale e lui sta banchettando con i suoi amici minatori. Brindano, gli augurano buona fortuna. Con il passare del tempo, le chiacchiere intorno al tavolo si fanno serie, come se nuvole di piombo circondassero il tavolo, riempiendo gli occhi dei suoi amici. Non brindano più, non ridono, i loro volti si fanno duri come le rocce nelle miniere. Solo l’odore della polvere di carbone rimane immutato nel nostro giardino.

La palla cade sul tavolo e rovescia un bicchiere. La birra si rovescia sulla tovaglia bianca e scivola sotto i piatti. Il cuore mi batte forte nel petto e mi si annoda lo stomaco. Silenziosamente, guardo mio padre prendere la palla; i suoi occhi mi stanno cercando.

Con riluttanza, mi avvicino a lui, pronto a essere schiaffeggiato in faccia. I capelli sulla parte posteriore del collo sono setosi per lo schiaffo previsto, ma non succede niente.

Distrattamente, lui mi porge la palla; sono confuso e non mi muovo mentre la conversazione arriva al mio orecchio:

- Te lo dico, il diavolo in persona cammina per Azra.

- Nusret, non fare l’idiota. Cosa ti è preso?

- Ha ragione, ieri stavo scavando lì. Questa è una faccenda pericolosa.

- Sei pazzo, come può essere maledetto quel tunnel? Branko, tu hai lavorato lì, cosa hai da dire?

- Sai esattamente cosa mi è successo.

- Cazzate!

I bambini mi chiedono di continuare la partita di calcio e, mentre mi avvicino a loro, sento mio padre che inizia a parlare:

- Non so cosa dire, sono stato assegnato lì, me l’hanno messo per iscritto, tunnel K-14, chiamato Azra, per tutto il mese di dicembre e non mi fa per niente piacere. Ma brindiamo, al diavolo queste storie!

Un clacson impaziente risuona dal veicolo dietro di me. Abbandono i miei ricordi e metto la marcia, guidando per la città addobbata e respirando l’atmosfera allegra. Tutti corrono da qualche parte, con i loro sorrisi e le borse piene. Mi fermo davanti a un supermercato; per pura fortuna ho trovato un parcheggio libero.

Il calore e la musica soft del supermercato non mi fanno rilassare; mi chiedo per la millesima volta se la maledizione del tunnel Azra, lontano oltre la Serbia, abbia causato il terrore che ha segnato la mia vita e portato via tutto quello che m’importava? O erano solo le classiche storielle dei minatori? Senza speranza cerco di capire ciò che non può essere capito. È lì che mi aspetta, ha lasciato l’appartamento per la prima volta. Non sono pazzo, ne sono sicuro, così come sono sicuro che domani sarà un nuovo giorno.

Concludo che l’improvvisa comparsa della nostra vecchia macchina abbia innescato quei ricordi.

E lo abbia costretto a lasciare l’appartamento.

Il cellulare squilla. Qualcuno sta chiamando, ne sono sicuro.

- Vieni stasera. È l’ultimo dell’anno.

Voglio stare con lei, ultimamente l’ho trascurata e sono sorpreso che mi abbia chiamato.

- Non sono di compagnia, non stasera - rispondo, raccogliendo la spesa nel carrello. Non dimentico la rakija.

- Lo so, ma vieni lo stesso. È ora di lasciar andare i brutti ricordi, per l’amor del cielo, sono passati così tanti anni!

In silenzio, ascolto il suo respiro. Lei sa che ne dubito e che è inutile cercare di convincermi. Mi lascia condurre la battaglia tra ciò che desidero e il mio destino segnato. Una battaglia persa.

- No, tesoro, non posso, mi dispiace.

- Lo sapevo, ma dovevo provare. Vieni a pranzo domani?

- Assolutamente sì. Ti auguro tutto il meglio. Ti amo.

Quindi riattacco, vado alla cassa e mi chiedo da dove derivi tanta tenacia. È sola con un bambino ed io non voglio stare con i bambini. Non stasera. Immagino che si chiami amore. Amore cieco, una cosa da donne.

Stasera evito il bar. Le risate sguaiate, dall’interno del bar, m’impediscono di entrare, ma non voglio tornare a casa per ciò che mi sta aspettando lì.

Tuttavia, torno subito a casa. Per un attimo penso ai ragazzi. Probabilmente si stanno vestendo e preparando per la festa. Spensierati e felici, lontani dall’oscurità che emana da Azra. Se ci fosse un centro di raccolta degli auguri di Capodanno, ne manderei uno intitolato ‘Urgente’: fate crollare il tunnel K-14 Azra per sempre con dentro sia vivi sia morti.

Quando entro nell’appartamento e metto giù la spesa, mi preparo per farmi una doccia. In un istante, il bagno si riempie di vapore. Mi strofino energicamente; il fetore dell’olio meccanico è in ogni poro della mia pelle. Il fetore del duro lavoro. Come quello di mio padre.

Lui è in piedi accanto alla lavatrice, dandomi le spalle. Attraverso il vapore non riesco a vedere cosa sta facendo con le sue mani e attraverso l’acqua non riesco a sentire se sta sussurrando. Sussurra sempre, non parla mai ad alta voce.

In cucina mi verso un bicchierino per farmi compagnia mentre preparo la cena. La televisione illumina la stanza, dove non accendo mai le luci. Mi sento più a mio agio al buio e anche lui, credo. Si nasconde nell’ombra quindi non posso vederlo, anche quando cerca di farmi sapere che è lì.

Mentre taglio la carne con un grosso coltello affilato e basta un momento di sbadataggine per farmi sanguinare il dito. Impreco e lo tengo sotto un getto di acqua fredda. Un filo di sangue è attaccato al coltello.

Quella notte non c’era acqua per lavare via il sangue. La pozza di sangue era in cucina e nella pozza c’erano loro. Tutti loro. Scuoto la testa per dissipare quei pensieri, mi lego una benda attorno al dito, mi verso un altro bicchiere e riprendo a sistemare la carne. Ogni taglio mi ricorda le ferite che ho visto e che ho causato.

Azra. Il male. Lui.

Finisco il mio drink e ne verso un altro.

Non sono mai stato nel tunnel, nonostante le innumerevoli richieste che avevo fatto a mio padre. Aveva capito il segreto di Azra ed era per quello che non mi aveva portato mai lì, ora lo so. Anche i minatori l’avevano percepito e volevo controllare il tunnel dopo la loro visita e la breve conversazione al tavolo.

E ora bevo dalla bottiglia.

Maledetta Fiat. Tra le tante officine in Serbia, aveva scelto la mia. Azra me l’aveva mandata per ricordare. Dopo un altro sorso, metto la carne nel forno e porto in soggiorno il piatto con gli spuntini. La televisione trasmette il programma dell’ultimo dell’anno, proprio come allora. Cerimoniale e pomposo.

Invece di conduttrici televisive scadenti e cantanti folkloristiche mezze nude, vedo gli amici di mio padre a tavola, mia madre in cucina e la mia sorellina sull’altalena. Su altri canali, le stesse immagini dei miei ricordi si mescolano agli spettacoli dell’ultimo dell’anno. Mi alzo e controllo la carne, non sarà pronta ancora per un po’. Voglio mangiare, ubriacarmi, sdraiarmi e tuffarmi nell’oblio. Prima di mezzanotte.

Dagli appartamenti vicini sento risate e musica. Le sento ovunque intorno a me. Ed io, come fossi maledetto, resto seduto da solo con una bottiglia di liquore, i miei demoni e gli orribili ricordi di quella notte. Così prendo un altro sorso e mi godo il liquido che mi alleggerisce la gola e mi riscalda la pancia.

Un’ombra si sposta davanti a me. Lui.

Lo guardo entrare nel corridoio a testa bassa.

- Dove vai, papà? Hai visto la tua Fiat oggi? - chiedo beffardo.

Resta sulla soglia di casa. Bevo un altro sorso e continuo:

- Sotto la radio ha ancora l’adesivo che mi hai comprato al negozio all’angolo …

Non si muove e inizia a mordicchiarsi le unghie.

Dalla TV suonano le prime note: Love me tender, di Elvis Presley.

Ancora una volta il destino avverso segue il suo corso; non può essere una coincidenza, ce ne sono state troppe oggi. Questa canzone stava suonando anche allora, in quella notte di Capodanno, quando mio padre era tornato a casa dal lavoro, dal tunnel K-14, Azra.

All’improvviso tutto mi diventa chiaro, forse a causa dell’alcol o forse del suo comportamento insolito; tuttavia le nuvole di terrore lasciano la mia anima e scompaiono per sempre.

Non è stata colpa sua. L’ho sempre saputo, bruciava nel mio subconscio ma non l’avevo mai capito. Avevo bisogno della sua colpa come l’aria che respiro per giustificare la mia.

Elvis continua a cantare, riportandomi a quella notte.

Mia madre prepara una torta e canta la melodia con Elvis, mia sorella salta intorno al tavolo ed io sono seduto nell’altra stanza a leggere i fumetti. Non mi è mai piaciuto Elvis ed è per questo che non faccio caso alla TV. Il lampeggiare delle luci sull’albero di Natale che io e papà abbiamo montato e decorato mi annoia.

All’improvviso mia madre mi urla dalla cucina di prendere un grosso coltello dalla dispensa; è nel vassoio con le altre torte. Lo zio adora la torta della mamma, l’ha fatta apposta per lui. Quest’anno festeggiamo insieme il Capodanno.

Ho finto di non sentire, a causa di Elvis e della sua canzone disgustosa, che contagiava le donne della casa. Mio padre diceva sempre - figliolo, sono donne - e rideva, ma mia madre si accigliava e gli rispondeva con rabbia con parole cattive.

Mia madre mi chiama di nuovo e chiede il coltello. Pigramente mi alzo dal divano, percorro il corridoio verso la dispensa, apro la porta e trovo il vassoio sullo scaffale e il coltello su di esso. La porta d’ingresso si apre. Mio padre mi passa accanto, non mi vede e lascia una nuvola puzzolente di polvere di carbone. Prendo il coltello.

Non è andato in bagno a lavarsi, come fa sempre quando torna a casa dal lavoro, ma è andato subito in cucina. Non aveva nemmeno con sé i regali promessi. Sono sicuro che li abbia lasciati nella Fiat. Ora mia madre lo rimprovererà per essere entrato in cucina con i vestiti sporchi.

Lo seguo e sento mamma:

- Va a lavarti, perché ti muovi in quel modo?

Mio padre non risponde. Lei continua:

- Sei ubriaco? Per l’amor di Dio, lo zio sta per venire e tu ...

Lei non finisce la frase. Mio padre le afferra i capelli e le sbatte il cranio contro il tavolo. La sua espressione è fredda come la pietra e gli occhi neri come il carbone che sta scavando.

Mia sorella inizia a urlare. Elvis canta di tenerezza e amore.

Inorridito, non mi muovo dalla porta della cucina e non riesco a credere ai miei occhi, come se in sogno cogliessi le scene davanti a me. Mio padre continua, la testa di mia madre è insanguinata, e quando la solleva e la spacca, vedo che la sua faccia non c’è più. È scomparsa nella pozza di sangue sul tavolo. Mia sorella continua a urlare coprendosi gli occhi.

Lui fa cadere mia madre, che crolla come uno straccio dal manico della stufa e si volta verso mia sorella. Alla fine mi rimetto in sesto e riprendo forza nelle gambe, cammino verso di lui attraverso la cucina e gli grido: “Per favore papà, fermati, per favore, fermati!”

Lo ripeto, apparentemente innumerevoli volte, ma mio padre non mi sente. Lui afferra mia sorella, la solleva sopra la testa e la getta sul pavimento della cucina con tutte le sue forze.

L’orrore è permanentemente impresso nella mia coscienza.

Mia sorella è sdraiata sul pavimento come una delle sue bambole. I suoi occhi sono vitrei, sembra che la vita la stia lasciando. Il sangue esce dalle sue orecchie. Mio padre si china e la picchia con il pugno. Lentamente la solleva e colpisce di nuovo.

Lui mi volta le spalle, sento il peso del coltello nella mia mano, le mie gambe iniziano a muoversi e gli conficco la lama nella sua ampia schiena. Non sente il pungiglione, continua a colpire mia sorella senza curarsi di me e della ferita che gli ho inflitto. Lo pugnalo ancora e ancora con il coltello ma lui non smette di colpire la ragazza indifesa che la vita aveva già abbandonato. Alla fine crolla sul pavimento di linoleum, accanto al minuscolo cadavere, morto.

Le mani di mio zio mi afferrano, mia zia strilla ed Elvis finisce la sua canzone.

Un altro grande sorso dalla bottiglia mi scorre in gola mentre le lacrime mi scorrono sul viso. Non ricordo il viso di mia madre, né quello di mia sorella, ma ricordo ogni singolo momento di quella notte mentre Elvis cantava quella stessa canzone.

Asciugo le lacrime che non mi asciugo da decenni. Le ultime sono scese mentre pregavo mio padre di smetterla. Vivere in un orfanotrofio le aveva allontanate per sempre.

Fino ad ora.

Lui nel suo cappotto verde, pantaloni bianchi e berretto in testa, sta sulla soglia, immobile come una lapide. Non muove le mani né sussurra. Per la prima volta lo vedo in piedi, immobile. Come se potesse leggere i miei pensieri.

- Papà ... - Lo chiamo.

Gira lentamente la testa verso di me e finalmente, dopo tutti questi anni, vedo i suoi occhi. Non sono neri come quella notte, ma marroni e caldi, come lo sono sempre stati. Ci guardiamo per qualche istante, momenti che sembrano lunghi quanto gli anni che ho passato senza mia madre, mio padre e mia sorella.

- Papà, ti perdono. Ti perdono con tutto il cuore. Ti perdoniamo tutti. Per favore, perdonami anche tu.

Le lacrime gli rigano le guance. Lui si avvicina a me, allarga le braccia e mi offre un abbraccio.

Lo abbraccio, sento le sue mani e respiro il dolce profumo. Sento tutti gli anni passati, il sorriso di mia madre, le chiacchiere di mia sorella, il nostro giardino, l’altalena e la povera casa. Tutte le corse della nostra Fiat e gli anni rubati da Azra.

La sua voce, che non sentivo da tanti anni, improvvisamente riempie la stanza.

- Va tutto bene, figlio mio. Va tutto bene, non ho niente da perdonarti.

Poi scompare. E con lui, il suo odore.

- Papà?

Non ricevo risposta.

All’improvviso mi sento vuoto, ma questa sensazione non è nulla in confronto al sollievo che si apre come un pozzo nella mia coscienza, un pozzo in cui affondano tutta la colpa, il rimorso e il dolore, anche se so che il tunnel ha lasciato cicatrici di terrore in me e quel qualcosa che mi perseguita ancora.

Il telefono è sul tavolo. Lo prendo e compongo un numero, ora non voglio stare da solo.

- È troppo tardi se vengo adesso?

Non ottengo subito la risposta, lei è piuttosto sorpresa.

- Certo che no, sbrigati, sono molto felice.

Riattacco, mi preparo e cerco papà, ma non lo trovo.

Se n’è andato per sempre.

Ma la vita continua e anche la felicità. So cosa farne.

Nonostante il tunnel K-14 di Azra.

Giustizia È Fatta!

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