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CAPITOLO 2
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Guglielmo dei Franciolini, Capitano del Popolo di Jesi, era un saggio amministratore, e sapeva bene che non era il caso di autorizzare una sontuosa festa proprio nei giorni in cui il nemico era alle porte della città. Ma non poteva andare contro il Cardinale, rinverdendo ancora una volta i dissapori tra autorità civili ed ecclesiali. Giusto pochi anni prima, il Palazzo del Governo era stato terminato e inaugurato con la benedizione dello stesso Papa Alessandro VI, che aveva concesso alla cittadinanza jesina di continuare a fregiare il leone con la corona regale, purché nella città e nel contado fosse osservata l’autorità ecclesiastica. Tanto che sulla facciata del palazzo si poteva leggere, al di sopra del simbolo della città, la scritta “Res Publica Aesina - Libertas ecclesiastica – MD”. E quindi il famigerato Papa Rodrigo Borgia aveva accordato una certa libertà alla Repubblica Jesina, purché si assoggettasse comunque al potere della Chiesa. Con quest’accordo, agli jesini furono anche risparmiati gli orrori perpetrati nel resto delle Marche dal figlio del Papa, Cesare Borgia, che si era proposto di diventare signore assoluto della Romagna, dell’Umbria e delle Marche con la ferocia e il tradimento. Era storia passata, di quasi vent’anni prima, ma comunque Guglielmo doveva rispettare i patti. Inoltre, era proprio il fidanzamento di suo figlio Andrea con la nipote del Cardinale a suggellare ancor di più l’accordo tra guelfi e ghibellini della sua città. In fin dei conti, il nemico era accampato da qualche giorno sulle rive del fiume, parecchio più a valle, e non accennava a muoversi. In quelle notti di coprifuoco, le vedette e le scolte non avevano notato movimenti; i fuochi di bivacco dell’accampamento erano ben visibili, quasi tenuti accesi a bella posta per tutta la notte dagli anconetani. Il timore, non infondato, di Guglielmo e di suo figlio Andrea, era che tutto ciò fosse un trucco. Forse i nemici aspettavano rinforzi per attaccare, o forse attiravano l’attenzione degli jesini su quel piccolo accampamento, mentre il grosso dell’esercito sarebbe apparso altrove. Il pomeriggio di giovedì 3 giugno era stato particolarmente caldo. Mentre Guglielmo si preparava per la cerimonia, aiutato da alcuni servi a indossare eleganti e colorati abiti di broccato, che contribuivano ad aumentare in maniera notevole la sua produzione di sudore, finiva di impartire ordini ai comandanti delle sue guardie.
«Dai vespri in poi tutte le porte della città devono essere chiuse. Predisponete anche delle catene nelle strade principali, in modo che, in caso di irruzione del nemico, venga ostacolato il suo procedere.»
Il luogotenente lo interruppe.
«Il Cardinale ha dato disposizioni opposte, mio Signore. Vuole che tutte le porte della città siano lasciate aperte, in modo che i nobili che risiedono nel contado abbiano facile accesso al centro abitato, per raggiungere il suo palazzo e la festa. Non possiamo contraddirlo.»
«Rafforzate la guardia alle mura!», gridò concitato il Capitano, battendo un pugno sul tavolo a sottolineare il suo ordine.
«Anche qui, ho i miei dubbi di poterlo fare. Il Cardinale, ai fini della sicurezza, vuole la maggior parte delle guardie armate schierate intorno al suo palazzo.»
«Il Cardinale, il Cardinale!» Guglielmo stava diventando paonazzo per l’ira e per il caldo. «Così rischiamo di consegnare la città al nemico! E sia, ma chiuderemo tutte le porte della città all’imbrunire. Lasceremo aperta solo Porta San Floriano, da dove i nobili ritardatari potranno raggiungere agevolmente Palazzo Baldeschi. Non abbiamo mai subito assalti dalla parte occidentale della città. Il nemico assale sempre da Valle, giungendo dalla piana dell’Esino. Sarebbe poco agevole per un esercito giungere dalla parte delle colline. Inoltre a occidente le mura sono parecchio alte e subito dentro Porta San Floriano abbiamo un fortino dotato di una bombarda, a ulteriore difesa. Preparate il mio destriero, e chiamate mio figlio. È ora di andare: sfileremo in corteo con i cavalli bardati per le vie del centro prima di giungere al Palazzo del Cardinale.»
Arrosti della più disparata varietà di selvaggina, zuppe, insalate e paste, già nel tardo pomeriggio erano state disposte sulla grande tavolata in cui avrebbero preso posto gli ospiti. Il Cardinale teneva Lucia per mano, mentre i servi spruzzavano gli arrosti, in particolare le gru, i pavoni e i cigni, di succo d’arancia e di acqua di rose, al fine di renderli più appetitosi. I filetti di manzo, una volta bolliti, venivano cosparsi di spezie e zucchero. Particolare attenzione era stata riservata ai contorni, verdure di tutti i tipi e di tutti i colori, che più che per essere mangiate, servivano ad allietare gli occhi dei commensali e stimolare l’appetito. Nelle zuppiere facevano mostra di sé minestre dei vari colori. Le zuppe, che di solito venivano servite come dessert, avevano un sapore dolce ed erano condite con zucchero, zafferano, semi di melograno ed erbe aromatiche. Il vero brodo, quello preparato facendo bollire una miscela di carni, verdure e spezie in acqua, era utilizzato come primo piatto, soprattutto nelle campagne e nei castelli della nobiltà contadina. Il brodo veniva bevuto mentre la carne, tolta dal brodo, veniva mangiata a parte e servita con erbe aromatiche. Il Cardinale aveva dato ordine ai cuochi di non servirne, mentre aveva fatto invece cucinare una novità, originaria della corte di Carlo VIII, i maccheroni, ottenuti dalla semola del grano modellata in forma di vermicelli e conditi in salse a base di olio d’oliva, burro e panna. In due tavoli a parte erano stati disposti i dolci, torte alle mele e pan di Spagna, e la frutta, mele, mele cotogne, castagne, noci e frutti di bosco. I vini nelle brocche erano quelli tipici del contado, Verdicchio e Malvasìa. Solo due brocche contenevano un vino rosso, pregiato dono fatto al Cardinale dal Granduca di Portonovo qualche anno prima. Nel tavolo dei dolci, invece, il vino era quello di visciola, proveniente dalle campagne di Morro d’Alba.
«Gli ospiti inizieranno ad arrivare a momenti», disse il Cardinale, rivolto a Lucia, liberandola finalmente dalla stretta della sua gelida mano. La giovane non era mai riuscita a capire come mai lo zio avesse delle mani sempre così fredde, quasi il sangue non scorresse sotto la sua pelle. Neanche il contatto prolungato con la sua, molto più calda, era stato in grado di far aumentare di un poco la temperatura di quella di Artemio. «Andiamo a preparaci.»
Così dicendo, si ritirò nelle sue stanze per agghindarsi in pompa magna, mentre due giovani serve si avvicinarono alla nipote. L’avrebbero condotta nella toilette, per dedicarsi a lei, facendole fare prima un bagno profumato, poi imbellettandola e infine facendole indossare un sontuoso abito di seta verde. Mentre si lasciava accudire, Lucia ripensava agli occhi di Andrea Franciolini. E già! In quei giorni si era informata, e il bel cavaliere di cui aveva incrociato fugacemente lo sguardo era proprio il suo promesso sposo. E si era innamorata dei suoi occhi, del suo viso, del suo portamento, era come se da sempre ci fosse stata un’affinità alchemica con lui. Già lo sentiva parte di lei stessa, parte della sua stessa anima, tutto il suo corpo vibrava al pensiero che da lì a poco avrebbe potuto parlare con lui, conoscerlo meglio, fissare lo sguardo nei suoi occhi, che non le avrebbero di sicuro celato nulla. Si affacciò dalla finestra della stanza, provando però una sensazione strana: il cielo di quella lunga giornata che stava volgendo al tramonto era plumbeo. Una cappa di afa, di umidità, attanagliava la città, infondendo nel suo cuore la sensazione che qualcosa di brutto sarebbe accaduto a breve, e che questo qualcosa si sarebbe ripercosso anche nel lungo termine. Ma che cosa? Non riusciva a capacitarsene, neanche con i suoi poteri di veggenza. La mente dello zio, come al solito, anche quel giorno era stata ermeticamente sigillata, ma quando guardava i suoi occhi solo una parola continuava a risuonare nella sua testa: “Tradimento”. Perché? Avrebbe voluto far materializzare la sua sfera, lanciarla in alto nel cielo affinché vedesse per lei, ma non poteva farlo proprio ora, davanti a dei testimoni. Mentre la serva bionda e alta le finiva di allacciare il vestito dietro la schiena, quella di corporatura più minuta e dai capelli scuri, le faceva indossare i gioielli, collane e braccialetti d’oro e pietre preziose, di squisita fattura, fatti forgiare dal Cardinale apposta per lei da orafi della scuola di Lucagnolo. In quel momento, Lucia avvertì come un mancamento, sentì una fitta al cuore come se qualcuno lo stesse trafiggendo con un pugnale, o con una spada. Si accasciò sulla sedia perdendo conoscenza per qualche istante.
«Mia Signora, mia Signora, come vi sentite?» La voce della serva mora arrivava ovattata alle sue orecchie.
«Non è nulla, è solo colpa del caldo, di quest’afa maledetta, e dell’emozione. Già sto meglio.»
Lucia non aveva associato la sua sensazione a ciò che, di lì a poco, sarebbe accaduto a breve distanza dal suo palazzo, al suo amato Andrea.
Esecutrice della barbara aggressione di quel giorno fu la soldataglia di Francesco Maria della Rovere, duca di Montefeltro e già gonfaloniere della Chiesa. Poiché il nuovo Pontefice, Leone X, l’aveva spogliato del suo Stato, egli per vendicarsi aveva assoldato come mercenari soldati spagnoli e guasconi e, dopo aver saccheggiato molti castelli devoti al Papa, si era diretto verso Jesi, al fine di conquistare questa roccaforte papale, con l’aiuto degli anconetani guidati dal duca di Montacuto e grazie al segreto appoggio della più alta carica ecclesiastica della città, il Cardinale Baldeschi. Come promesso dal Cardinale, la soldataglia proveniente dalle colline a occidente di Jesi, trovò Porta San Floriano aperta, ebbe facile ragione delle guardie del Fortino, attaccate di sorpresa, e si trovò in breve nella Piazza del Mercato, proprio nel momento in cui il corteo del nobile Franciolini, proveniente da Via delle Botteghe, giungeva nella stessa piazza.
Il Franciolini e i suoi non erano pronti alla battaglia, non indossavano armature, stavano andando a una festa e avevano con sé solo armi leggere.
«Tradimento!», gridò Guglielmo scendendo da cavallo e affrontando uno spagnolo armato di spada con un corto pugnale. «Incatenate le strade, non lasciateli andare verso valle, o apriranno le porte all’esercito anconetano, e saremo stretti tra due morse.»
Solo con la forza delle braccia e il suo corto pugnale, aveva già atterrato due spagnoli, lasciandoli in una pozza di sangue. Guglielmo era un abile combattente ed era veloce a spiazzare il nemico. Non appena vedeva l’avversario titubante, gli piantava il coltello nel cuore, poi lo estraeva, puliva la lama sui suoi vestiti e ricominciava a combattere. Le avanguardie nemiche non indossavano infatti armature ed era facile aver ragione di loro. Ma i nemici uscivano da Via del Fortino a decine, a centinaia, come un fiume in piena i cui argini non riescono a trattenere le acque. Un balestriere spagnolo prese la mira e puntò la sua arma contro Andrea, che era ancora fiero in sella al suo cavallo. Il giovane si era trovato altre volte nel pieno della battaglia e non aveva dato peso al fatto che in quel momento non indossava un’armatura, ma un colorato abito di broccato. Fece impennare il suo destriero, per lanciarsi nella mischia, quando fu colpito alla coscia destra. Altre frecce raggiunsero sia il cavallo che il cavaliere. Andrea cadde al suolo, con almeno quattro dardi che lo trafiggevano. Il suo cavallo, colpito in pieno petto, rovinò senza vita sopra di lui. Cercò, senza riuscirci, di sgusciare via dalla massa del pesante animale, ma le forze lo stavano abbandonando. Guglielmo, accortosi del figlio atterrato, si girò verso di lui, distraendosi dalla tenzone e girando le spalle al nemico per andarlo a soccorrere. Vide le palpebre di Andrea abbassarsi, lo chiamò, ma non ebbe risposta. Capì che il suo cadetto stava ormai perdendo i sensi, forse stava per morire. Proprio in quel momento una lunga lama lo trapassò, penetrando da dietro la schiena, facendosi strada tra le costole, squarciando il cuore e fuoriuscendo dal petto, accompagnata da un potente fiotto di sangue. Guglielmo sbarrò gli occhi che, nel momento del trapasso, stavano ancora fissando il prode figliolo agonizzante.
Avuto facilmente ragione di quel piccolo manipolo di uomini, spagnoli e guasconi dilagarono per le strade della città. Alcuni risalirono Via delle Botteghe fino alla Porta della Rocca, sorprendendo i militi a guardia, uccidendoli e aprendo la porta. Altri scesero verso valle per aprire Porta Valle e Porta Cicerchia e favorire così l’ingresso in città dell’esercito anconetano, che da giorni non aspettava altro che quel momento. Seppur colti di sorpresa, gli abitanti cercarono di organizzare una difesa nell’interno del centro abitato, spronati da alcuni nobili, in particolare da Fiorano Santoni, che radunò subito uno squadrone di genti che, incatenate le strade come predisposto dal Capitano del Popolo, s’approntò a combattere il nemico tra le vie, i vicoli e le piazze. Ma quest’ultimo, forte dell’apporto degli anconetani, era troppo numeroso e gli Jesini, avviliti dalle grida e dal pianto delle donne e dei fanciulli, abbandonarono la difesa.
Soprattutto i mercenari al soldo di Francesco Maria Della Rovere erano assetati di razzia e gli abitanti, considerando che non avevano potuto salvare la patria, cercarono almeno di mettere in salvo i loro beni, ma anche in questo non ebbero successo: i gentiluomini ricchi vennero fatti prigionieri e le loro donne, che avevano cercato scampo, con i gioielli, nelle chiese, si videro raggiunte dagli spagnoli anche all’interno dei luoghi sacri, dove essi non disdegnarono di spogliarle di quanto di prezioso avevano addosso e di stuprarle. A un certo punto, una donna, tale Eleonora Carotti, dal portamento altero e maschio, riuscì a sferrare uno schiaffo a un guascone che le stava ponendo le mani nel seno per toglierle i gioielli che vi aveva nascosto e al contempo approfittare per palpeggiarla.
Si ritrovò tra lui e un altro gruppo di soldati spagnoli. Se il guascone schiaffeggiato era rimasto di stucco, senza reagire, gli altri non si erano persi certo d’animo, avevano atterrato la donzella, l’avevano spogliata dei suoi abiti e, assicuratisi che era una donna a tutti gli effetti, l’avevano violentata uno dopo l’altro, tenendole un coltello piantato alla gola. L’ultimo soldato, raggiunto il suo malsano piacere, affondò il coltello, sgozzandola senza pietà.
Il saccheggio di Jesi durò otto giorni, molti palazzi furono incendiati, alcuni con gli abitanti all’interno, legati perché bruciassero vivi dentro la loro abitazione, colpevoli del fatto che i saccheggiatori non avevano trovato abbastanza denaro o preziosi da portare via. Non ci fu alcun rispetto neppure per le cose sacre, né per i religiosi, e molti sacerdoti vennero torturati e martoriati, affinché confessassero in quali luoghi segreti avevano nascosto gli ornamenti delle chiese. Il saccheggio si estese a tutto il contado e nessun luogo, di città e campagna, venne risparmiato.
Palazzo Baldeschi, che era rimasto sbarrato per tutto il tempo, l’ottavo giorno aprì le porte al Granduca Francesco Maria della Rovere e al Duca Berengario di Montacuto, che venivano accolti a colloquio dal Cardinale. Quest’ultimo si era infatti arrogato il diritto di trattare la resa con gli avversari, non essendo più presente in città autorità civile o ecclesiale più alta in grado di lui.
Dopo che i servi ebbero offerto vino di visciola e dolcetti a base di uva sultanina, a un cenno del Cardinale, si ritirarono chiudendo i tre uomini da soli nello studio.
«Avete superato ogni limite. Gli accordi erano che non avreste trovato ostacoli e avreste dovuto uccidere il Franciolini e il figlio, impadronendovi della città. Una facile conquista, invece per giorni e giorni avete seminato terrore, distruzione e morte», tuonò il Cardinale rivolto ai due Duchi.
«Nessun esercito che si rispetti, soprattutto se costituito da mercenari, rinuncia al bottino di guerra», replicò pacatamente il Della Rovere, concentrando il suo sguardo sull’unghia del dito mignolo della mano destra, forse rammaricandosi del fatto che durante i combattimenti questa si era spezzata. «Noi abbiamo mantenuto la parola data. Ora Voi mantenete la vostra, e ci ritireremo in buon ordine, lasciandovi Signore indiscusso di questa città.»
«E sia!», continuò il Baldeschi, ingoiando il rospo, e comunque soddisfatto in cuor suo di come era andata l’operazione. Se parecchi concittadini ci avevano lasciato la vita, peggio per loro, non era poi un grosso problema. «Come promesso, intercederò presso il Santo Padre affinché a Voi, Granduca Della Rovere, vengano restituite terre e titolo. Potrete ritirarvi a Urbino ed essere rispettato per sempre dai vostri sudditi. Per quanto riguarda Ancona, caro Duca, entro un mese farò versare nelle casse della vostra città diecimila fiorini d’oro, che serviranno ad ampliare e fortificare il porto, ma dovrà essere garantito lo scalo commerciale ai mercanti della città di Jesi. E ora, ritirate i vostri eserciti.»
Francesco Maria Della Rovere diede finalmente l’ordine alle sue truppe di abbandonare la città. Gli invasori se ne andarono con una carovana di ben mille bestie cariche di ogni ben di Dio, oltre che di un largo bottino di denari, preziosi e pezzi d’artiglieria. Dal canto suo, il Montacuto, non fidandosi appieno della parola del Cardinale, ritirò il grosso dell’esercito, ma lasciò una guarnigione a Jesi, che se ne sarebbe andata solo dopo che la città sconfitta avesse versato quanto pattuito.
In quei giorni, Artemio Baldeschi era stato troppo concentrato sul corso degli eventi, per badare a quanto stessero facendo sua sorella e sua nipote, e non si era neanche accorto che la ragazza, da quel famoso giovedì sera, era scomparsa. Dell’assenza si erano ben rese conto le due serve, la bionda e la mora, Mira e Pinuccia, che aspettavano la sicura sfuriata del Cardinale nel momento in cui l’avesse alla fine notata. Le due ancelle sapevano bene che, da quella sera, Lucia era rinchiusa nella dimora dei Franciolini, intenta a curare Andrea, ferito gravemente nello scontro con il nemico, e sapevano bene che se lo zio della ragazza lo fosse venuto a sapere si sarebbe infuriato ancor di più.
La sera della festa, Lucia, finitasi di vestire, era uscita sul balcone del palazzo che si affacciava sulla piazza sottostante e che dominava la stessa, per osservare il corteo del nobile Franciolini che arrivava sul lato opposto, da Via delle Botteghe. Era l’imbrunire e sembrava che tutto andasse bene, che tutto fosse tranquillo, e la brutta sensazione che aveva provato poco prima era già svanita. Ma all’improvviso, da Via del Fortino, erano cominciati a sbucare uomini armati, via via sempre più numerosi, che avevano ingaggiato subito battaglia con gli uomini del corteo al seguito del Capitano del Popolo. Aveva visto il suo amato Andrea colpito dalle frecce, e aveva visto Guglielmo colpito a morte alle spalle. Quel vigliacco con un’enorme spada aveva approfittato di un suo momento di distrazione, per aver visto il figlio ferito, per colpirlo da dietro. Lucia non poteva assistere impotente a quell’orrore, doveva correre in aiuto di Andrea, che oltre le frecce, era oppresso dal peso del suo cavallo che gli era rovinato addosso, forse senza vita. Si precipitò giù per le scale e guadagnò l’androne; stava per aprire il portone d’ingresso quando si rese conto che i combattimenti ormai imperversavano in tutta la piazza e che non era il caso di uscire da lì. Entrò nelle stalle e individuò la porticina laterale di servizio, quella utilizzata dagli stallieri, che dava sul vicolo. La porta di legno era sprangata con un catenaccio dall’interno, le fu facile aprirla e ritrovarsi in una viuzza buia e puzzolente, a pochi metri di distanza dall’antica cisterna romana. Pochi passi e sarebbe stata in Piazza, dal lato della chiesa di San Floriano. Per non farsi notare dalla ressa di combattenti, e attraversare la piazza indenne, doveva utilizzare uno stratagemma. Giusto qualche giorno prima, la nonna le aveva insegnato una specie di incantesimo di invisibilità. Non che questo la rendesse proprio invisibile nel vero senso della parola, ma faceva in modo che potesse passare inosservata agli occhi degli altri. Sperò che funzionasse, recitò la formula e iniziò ad attraversare la piazza, tenendosi sempre rasente ai muri, prima del convento, poi della chiesa di San Floriano, poi di quelli di un palazzo di recente costruzione, poi di Palazzo Ghislieri, giungendo all’angolo dove sia Via del Fortino che Via delle Botteghe sbucavano nella piazza. Se fosse giunta fin lì grazie all’incantesimo di invisibilità o perché nessuno si era curato di lei in quanto indaffarato nella battaglia, non le era dato saperlo. Fatto sta che era giunta accanto al suo amore agonizzante. Ben quattro frecce l’avevano colpito, due alla gamba destra, una alla spalla sinistra, l’ultima trapassava da parte a parte il braccio destro all’altezza del muscolo bicipite. Aveva perso parecchio sangue, ed era in stato di semi-incoscienza, la gamba sinistra schiacciata contro il selciato dal peso del tronco del cavallo. Lucia si concentrò sulla bestia morta, ordinando con la mente la sua parziale levitazione. Il cambiamento di posizione dell’animale fu quasi impercettibile, ma bastò a far sì che, iniziando a tirare Andrea afferrandolo sotto le ascelle, la ragazza riuscisse a liberarlo da quell’infelice posizione. Gli occhi del giovane, come per incanto, ripresero luce, fissando quelli della ragazza per un attimo che lei ritenne sublime, poi si ribaltarono all’indietro, mentre Andrea perdeva del tutto conoscenza. Lucia non disperò, appoggiò due dita sulla doccia giugulare del suo amato e poté avvertire una sia pur fievole pulsazione.
Non tutto è perduto, pensò. Ancora la vita non lo ha abbandonato! Ma devo agire in fretta se voglio portarlo in salvo.
Confidando nei suoi poteri, ma anche e soprattutto nella forza della disperazione e nel profondo amore che già per la seconda volta le avevano ispirato gli occhi di lui, caricò il suo corpo inerte sulle sue spalle, rendendosi conto che non stava neanche facendo uno sforzo sovrumano. Estese l’incantesimo di invisibilità al suo giovane amore e si diresse giù per la Costa dei Longobardi, per raggiungere Palazzo Franciolini. Nessuno degli uomini che stavano combattendo per strada li degnò di uno sguardo, continuando a incrociare le armi e battersi come se Lucia, con il suo pesante fardello, neanche esistesse. Quando fu dinanzi al portone della dimora di Andrea, adagiò in terra il suo corpo esanime e si soffermò ancora una volta su quella piastrella decorata che tanto l’aveva incuriosita, quella rappresentante un pentacolo a sette punte. Ma non era il momento di lasciarsi prendere dalle distrazioni. Afferrò il batacchio attaccato al portone e iniziò a bussare con quanta forza ancora aveva. Uno dei servi di casa Franciolini, un moro muscoloso con un turbante in testa, che il Capitano del Popolo aveva acquistato come schiavo in un suo viaggio a Barcellona, aprì il portone giusto di uno spiraglio, per assicurarsi che non fossero i nemici a bussare alla porta. Quando si rese conto della situazione, in un batter d’occhio, fece entrare la ragazza e trascinò dentro il giovane padrone.
«Per Allah e per Maometto, sia benedetto il loro nome, possa essere io perdonato per averli nominati. Che ne è del Capitano?»
«Il Capitano è morto e se, anziché perder tempo a invocare le tue divinità, non farai quello che ti dico, la stessa fine sarà riservata anche al tuo giovane padrone!»
«Non sembra che ci sia molto da fare per lui. Fra qualche istante la sua anima lo lascerà per ricongiungersi a quella dei suoi avi, e di suo padre, che Allah lo abbia in gloria.»
«Non era musulmano, quindi Allah non lo avrà in gloria. Possiamo fare ancora qualcosa per lui. Portalo in camera e adagialo sul suo letto, poi segui le mie istruzioni e lasciaci soli.»