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ANTONIO ROSMINI

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CONFERENZA

DI

ANTONIO FOGAZZARO

Signore, Signori,

Nel maggio del 1897, dopo le feste roveretane per il centenario di Antonio Rosmini, io scendevo dal Trentino per le gole precipitose che versano alla mia pianura i larghi fiotti del Brenta. L'eguale fragore delle acque nel profondo mi ripeteva parole tristi che tutte, prima, non intesi, preso, rapito com'ero nello spirito dalla violenza di tante immagini recenti, che mi riconducevano a Rovereto. Gaia nel vento e nel sole la bianca città: alto, lucente un diadema di nevi sulle montagne che la guardano: vie gremite di gente festosa: archi, fontane, ghirlande, musiche: raggianti volti di apostoli e discepoli del Rosmini convenuti da ogni parte d'Italia: fiori pioventi dai balconi, favolosamente, sul capo di tanti metafisici punto giovani, punto eleganti o avvezzi, come rosminiani, a tutt'altra pioggia: sale accademiche parate a festa, immagini glorificate di don Antonio, stormi di cravatte bianche e di abiti neri, discorsini eleganti di oratori ufficiali, discorsoni trionfali di oratori illustri: uditorii quali un conferenziere ambizioso li sogna, vibranti a ogni tocco di parola calda, pronti a cogliere ogni dolcezza nascosta in inviluppi di parole prudenti: uditorii di dame, di cavalieri, di popolo e di ombre, sì, anche di ombre perchè noi, sognatori, vedevamo nella sala tre nebulose tiare di fantasmi, le tiare di Pio VIII, di Gregorio XVI e di Pio IX, protettori di Rosmini, e vedevamo gli amici suoi più illustri, il pugnace vecchio Bonghi in prima fila, il cieco vecchio Tommasèo molto più indietro e, peritoso sulla soglia, il gran vecchio Manzoni. Ci vedemmo pure il signorile aspetto del marchese Gustavo di Cavour e qualcuno di noi giura avergli veduto accanto il volto di un antico giornalista e collega, in certo modo, di redazione del Rosmini, un caro paterno volto impresso nel cuore di noi tutti, sorridente allora, fra bonario e malizioso, di quest'arguzia pensata: «l'abate e io non andavamo d'accordo in tutto ma però siamo stati collaboratori nel Risorgimento

Assorto in queste immagini non udii che tardi la insistente parola triste del fiume. «È finito» mi diceva «è passato, il vostro sottile fascio è già disperso, il picciol vento rosminiano già cade lasciando il mal tempo di prima.» Ebbene, no. Non tutto il suono della commemorazione centenaria si è dileguato invano malgrado certi meditati silenzii che le si fecero intorno. E prima che io ne ragioni, lasciatemi ricordare ciò che per la fama di Antonio Rosmini hanno fatto in altri tempi i suoi avversari. L'odio implacabile di costoro ha servito per un disegno provvidenziale a preservare dall'oblìo delle moltitudini il nome del sublime filosofo che le moltitudini non possono intendere. I colpi menati sull'opera bronzea di lui diedero non altro che suono e faville vive del nome percosso. Il bavaglio posto ai sacerdoti rosminiani giovò ai loro persecutori, quanto la cuffia del silenzio giovò ai Borboni; per l'uomo che taceva gli stessi strumenti di tortura gridavano. Così avvenne che il nome di Antonio Rosmini, quarant'anni dopo la morte di lui e fra generazioni affatto incuriose di filosofia, fosse fra i nomi noti a ogni persona civile. Ma era uno di quei nomi vuoti e morti, che le persone civili portano in mente magari per tutta la vita senza curarsi mai di ricercarne il perchè, di saper bene quali creature umane li abbiano portati. Quando si parlò del centenario molti si accorsero di questa loro ignoranza, molti convennero nelle sale dove si tenevano conferenze su Rosmini, ascoltarono attenti e ne uscirono più curiosi di prima. Se quest'uomo era stato un grande cattolico, perchè tante condanne del Sant'Ufficio, tanto veleno di odium theologicum? Perchè nè Pontefice nè cardinali nè vescovi si movevano a rendergli onore? Perchè venivano a recitarne l'elogio dei signori vestiti da borghesi e tante poche tonache si vedevano negli uditorii? Ma se non era tale perchè lo avevano tre Papi lodato pubblicamente e come aveva egli potuto fondare un ordine religioso? Per quale follìa si eran fatte suonare dopo la sua morte tutte le campane di Stresa mentre il Ministero presieduto dal Conte di Cavour partecipava l'evento alle corti d'Europa? Chi era in fondo quest'uomo e sopra tutto, qual è il valore della sua filosofia per la vita? – Queste curiosità sono il miglior frutto della commemorazione centenaria, e se per lunghi anni provvidero alla fama del roveretano i persecutori che neppur la morte placò, adesso tocca a noi suoi fratelli, sorti al cadere d'un secolo come ad un segno di comando, provvedervi. A chi c'interroga intorno a Rosmini mai non s'è abbastanza risposto; e io stesso che già più volte, altrove, parlai di lui, mi felicito di poterne parlare adesso qui, dove le ceneri disperse di un rogo infame dopo quattro secoli si raccolgono, si riaccendono, s'innalzano, ricompongono in una fiamma di gloria la figura del grande frate che protestò morendo di appartenere alla Chiesa trionfante; alla stessa Chiesa che serba un simile trionfo, nel secolo futuro, ad Antonio Rosmini.

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Poco prima del passaggio ch'egli chiamò «unirsi al suo fine» Rosmini disse a Manzoni: «È il tempo della mèsse. Il lavoratore è ricompensato quando la mèsse arriva.» Io mi figuro che in qualcuna delle ultime sue notti il battere monotono delle onde alla riva di Stresa gli abbia ricordato i passeggi vespertini di un tempo lungo il lago, le conversazioni piacevoli col suo don Alessandro, con lo Stampa, con il Cavour, con il Bonghi, le ore sue più serene scomparse per sempre. E mi figuro che a poco a poco la visione solenne dei morenti sia sorta nell'ombra davanti agli occhi suoi, ch'egli abbia veduto passare come fantasmi silenziosi per uno specchio le immagini della propria vita, dalle più recenti alle più lontane, le immagini del tempo in cui aveva seminato, coltivato con assiduo studio, consultando i venti e le nuvole, la mèsse finalmente matura. Gli ultimi anni tribolati dai patimenti: una gran gioia, l'assoluzione delle sue opere denunciate a Roma: una grande angoscia, l'attesa della sentenza: più lontano le bufere del '49 e del '48, Gaeta, Napoli e Roma, le angherie della politica borbonica, la fede serbata al Papa, le faccie ostili dei cortigiani pontificii, le ore date tra tanti trambusti al commento di San Giovanni, i terribili giorni di Roma, i suoi vani consigli patriottici e liberali, l'assassinio di Rossi, il suo nome acclamato dal popolo, il potere offertogli e subito deposto, per obbedienza, ai piedi del Santo Padre: più lontano, la missione avuta dal Piemonte, il triste pranzo con Carlo Alberto a Vigevano fra il disordine di un esercito in rotta, l'incontro con Gioberti: più lontano, i lunghi anni di preghiera, di meditazione e di lavoro, l'Istituto della carità e il Sistema della verità, i segni ottenuti, riguardo al primo, del volere divino e gl'intimi lampi in cui gli era stato rivelato il secondo: più lontano, la sua giovinezza pensosa e ardente, Milano e Padova, la gioia secreta e l'ansia dei disegni che maturavano nella sua mente: più lontano ancora, le care montagne, le care acque della natia Rovereto, l'adolescenza sua fervida di affetti, di alti pensieri, di pietà, la subitanea visione, in via della Terra, di un sublime principio di scienza, e la casa, la dolce casa paterna dove bambino aveva cominciato ad amare prima ancora che a intendere: tutto questo egli rivide rapidamente nel suo patire sereno, e anche occulte battaglie, segrete glorie dell'anima, volte e raggianti verso l'altro mondo e che nessuno in questo conobbe mai. Come avrà egli giudicato allora la propria vita? Io penso che standovi dentro egli non ne abbia veduto l'aspetto di severa dignità e grandezza in cui apparve agli uomini, ma che ne abbia veduto con soddisfatta coscienza i fondamenti, la compagine, l'ordine sapiente, il lume centrale. Il lume centrale della vita di Rosmini è un lume di ragione. Tutta l'opera sua intellettuale, tutta l'opera sua morale, la sua carità, la sua fede risplendono di ragione. Egli ha glorificato la ragione umana. Non la oppose alla fede, ma dimostrò con essa che vi ha una prima fede naturale, anteriore a ogni religione, una fede necessaria per la quale uno crede senza prova possibile, una fede sulla quale la ragione sorge e sta. Non si appagò di descrivere questo nesso indestruttibile della ragione con la fede, ma lo visse. Il comune della gente suole opporre la ragione al cuore, e stima fredde le nature in cui la ragione è potente. L'anima di Rosmini, tutta ordine e misura, non fu più fredda che non lo sia stata l'anima dove sorse, tutta ordine e misura, la concezione della Divina Commedia. Dante e Rosmini posero il principio della ragione umana fuori di lei. Allo stesso modo che l'occhio, nel primo aprirsi, è fatto veggente dalla luce, l'uomo è fatto intelligente, secondo Rosmini, da un raggio nel quale intende che le cose sono e ch'egli stesso è; lo intende e lo crede, senza dimostrazione possibile. Rosmini riconobbe la ragione propria da questo raggio, lo risalì con uno slancio di passione intellettuale, si convinse che gli veniva da un Infinito vivente e amò l'Infinito vivente con un sentimento di cui il sentimento filiale fu per esso pallida immagine. Lo amò in sè stesso, lo amò nelle cose a cui diede l'essere, lo amò nell'ordine che diede alle cose. Lo amò con quella sete di annientarsi che anche l'amore terrestre conosce quando è tanto forte da voler creare un Dio. E n'ebbe pure i ritorni di esigente passione. Afferrò una volta la penna e per la gioia di vedere le parole vive dell'anima sua scrisse: «Infinito, ti domando l'infinito.»

Però non fu mistico. La sua ragione imperiosa glielo vietò. Pregò, fece pregare mesi e mesi, più ore ogni giorno, per aver qualche segno della volontà Divina circa il luogo dove pose la prima sede del suo Istituto. Ecco, due amici suoi, senza sapere l'uno dell'altro, vengono a dirgli che han pensato, Dio sa perchè, ad un colle presso Domodossola. Un mistico avrebbe detto senz'altro: «Il Signore mi vuole a Domodossola: andiamo.»

Invece Rosmini mandò a vedere, secondo ragione, se il luogo era adatto. Anche l'umiltà sua era secondo ragione. Sconfinatamente umile rispetto a Dio, non parlò mai con dispregio del proprio intelletto, divino dono, nè della opera propria. Non conobbe questa specie di superba umiltà. E sapendo che tutto il suo bene gli veniva da Dio, ebbe onesta coscienza della propria grandezza morale. L'uomo umile che in una sala d'albergo sorrise e tacque mentre un suo inferiore lo tacciava di vanità per una nappina troppo grossa, e, impugnate le forbici, gliel'assottigliava, fu in pari tempo magnanimo, parlò schietto a Pontefici e a Re, alzò la fronte e la voce per quello che a lui parve giusto, e contro accuse di errore scese risoluto in campo. La natura ne aveva fatto uno schermitore formidabile, pronto alla risposta quanto alla parata, un ragionatore acuto, duro e tagliente, un maestro d'ironia. Si represse a tutta forza. Appena gli sfuggì qualche lampeggiante puntata della quale certi amici di piccolo animo si dolevano con esso. Egli rispondeva umile, si faceva piccino ai piccini senza tuttavia ceder loro un atomo solo del diritto e del dovere di difendere virilmente la verità. Lo zelo del vero lo accendeva e non lo accendeva l'amor proprio. All'amor proprio disordinato non permise una sola parola mai. Quando morì il professore Tarditi, fu trovato nelle sue carte certo scritto di pedagogia. Era di suo pugno e fu pubblicato per suo. In fatto egli aveva copiato un manoscritto del Rosmini tuttora inedito. Rosmini seppe e tacque. Certo gli parve disordinato amor proprio far valere sull'idea ragioni di proprietà personale. Gli bastò che, liberata, parlasse.

L'amore di Dio non gli assiderò gli altri. Tutti gli amori che sono nell'ordine della natura umana lo infuocarono. A nove anni, ancora come Dante, conobbe l'amore che ha più del terrestre e più del divino. Parve a Nicolò Tommasèo che di questo fatto, da lui asserito, permanesse nella mente dell'uomo grande un'orma profonda, un particolare dilatamento di visione. Represse il fuoco dell'amore, e se qualche minore ordine appare nella sua natura n'è causa, penso, la calcata fiamma che deviando dall'amore rapì l'animo di lui nelle fervide amicizie. Quanti amici ebbe e con quale passione li amò! Giovinetto ancora, medita un'associazione di amici spirituali per la gloria di Dio, ne fa un ideale, un sogno. La gioia di sapere che uno sperato compagno del suo sogno sarebbe venuto ad abitare Rovereto è tale ch'egli ne scrive: «mi empie, mi ravviva, mi anima, mi affuoca.» Fatto uomo, non è men pronto all'affetto. A Milano, in casa del conte Mellerio, s'incontra con Loewenbruck, un prete francese pieno di fuoco e di zelo religioso, tuttavia disforme da lui, posta la comunanza di fede e di propositi, quanto è possibile. Il fuoco di Loewenbruck è fiamma scoperta che va fluttuando ad ogni vento; il fuoco di Rosmini è fiamma nascosta e ferma dentro un vaso di alabastro, fiamma che non si sdegna nelle forme sue ma che illumina. Quando Loewenbruck, dimentico di promesse date, non comparisce all'eremitaggio dove Rosmini lo aspetta, questi gli scrive e gli riscrive sino a sei volte senz'averne risposta; supplica, ripete come non altro desideri che stringere l'amico fra le sue braccia. A quanti gli domandano aiuto, consiglio, conforto, Rosmini si prodiga: e con quale ardore! Da 15 a 20 mila lettere esistono tuttavia di lui. Fin sul letto di morte, fra i dolori più crudeli, fra gli slanci della preghiera e le immagini del mistero imminente, amò i suoi amici. Quando Alessandro Manzoni entrava nella sua camera, gli occhi suoi raggiavano di luce immortale. «Manzoni sarà sempre il mio caro Manzoni» gli sussurrò egli una volta «nel tempo e nell'eternità.» E gli afferrò, gli baciò ambe le mani. Manzoni si ritrasse quasi sgomento, si volse, con impeto umile, e baciò i piedi del santo amico. «Ella fa questo» disse il morente «perchè non ho più la forza d'impedirlo.» Poche ore ancora, e un silenzio solenne si fece nella camera, sul letto di Antonio Rosmini rimase la sua spoglia sola. Manzoni si alzò, afferrò un volume, la terza cantica della Divina Commedia, impresse forte la bocca sulle pagine eterne, baciò il suo Rosmini nel paradiso, si unì terzo, in quell'avido bacio, agli spiriti più grandi che Iddio abbia donato, pieni di Lui, all'Italia.

Dopo Dio e la Chiesa, Rosmini amò sopra ogni cosa la patria. Mentre Giuseppe Mazzini e pochi seguaci suoi congiuravano per un'idea che parve sogno ed era germe, Rosmini, solitario, sdegnoso di ogni via torta o coperta, pieno di fede nella potenza del pensiero, afflitto dalle dissensioni che travagliavano la patria sua discorde perchè divisa, e perchè divisa debole, infingarda, si proponeva di richiamarla all'unità intellettuale. Era in lui la passione di Petrarca e di Dante, la fiamma che balena, con rapida vicenda, dall'amore allo sdegno e dallo sdegno all'amore, come balena e si trasmuta dall'azzurro al vermiglio, dal vermiglio all'azzurro la luce di certe stelle. Talvolta, parlando dell'Italia, neppure vuol proferirne il nome, la chiama «nazione dormiente.» Talvolta insulta la «vecchia fanciulla che va recitando lezioni apprese alle scuole altrui» e con rapido trapasso dall'insulto all'amoroso appello «sorgi,» le dice «tendi all'unità intellettiva che, se lo vuoi, non ti può esser contesa, e diverrà allora fortissima la tua sciagurata bellezza.» Combattendo la dottrina di errore imperante in Italia nel tempo di Gioia e di Romagnosi, il sensismo, egli aveva, senza dubbio, il supremo proposito di strappare a un antico sofisma la sua veste nuova, ma era pure suo proposito di allontanare gl'italiani da una filosofia che innalzando i sensi alla dignità di soli maestri del vero, riusciva a distruggere ogni fede nell'assoluta giustizia, in un ordine ideale delle cose collegato a principii immutabili e quindi nel diritto eterno alla indipendenza e alla libertà; da una filosofia tendente a diffondere la concezione materialistica e utilitaria dell'universo, a perpetuare il tristo sonno in cui giaceva la patria nostra quando, nell'ombra, il suo agitatore infaticabile al nome del popolo univa il nome di Dio e nella luce, Rosmini, ministro più grande di un ideale più intero, preparava la prima pietra del suo sistema, il Saggio sulla origine delle idee. Ma Rosmini non credette aver soddisfatto con libri di metafisica il suo debito verso l'Italia. Allorchè gli parve esser venuto il momento di scendere dalle altezze vertiginose della speculazione filosofica per farsi maestro e consigliere alle moltitudini che udiva fremere nel basso, scese. Scese come Mosè con un tesoro di sapienza conquistato su cime nascoste al popolo da impenetrabili nubi. Parlò della Chiesa al clero cattolico, parlò dell'Italia agl'italiani. Il manoscritto Delle cinque piaghe della Chiesa, pronto da molti anni, fu consegnato al tipografo Veladini di Lugano nel 1847. L'opuscolo La costituzione secondo la giustizia sociale, con l'appendice sulla unità d'Italia, uscì nei primi mesi del 1848. Niente di più infuocato sgorgò mai dalla sua penna. Il fuoco che prevale nello scritto religioso è fuoco di sdegno. La tirannia dei governi che si atteggiavano a protettori della Chiesa cattolica per atterrirla, l'affliggente mediocrità dei vescovi, la ignoranza del basso clero, la separazione del popolo dai suoi pastori, la profonda indifferenza pubblica furon soggetto di pagine sfolgoranti a quest'uomo che passava ogni giorno più ore nella preghiera e nella meditazione religiosa, che si umiliava sino a ministrare ai suoi fratelli di religione quando pranzavano, a usar la granata in loro servizio; che venerava la Santa Sede tanto da desiderar di cadere in qualche lieve errore per aver poi la gioia di sottomettersi. Io ho citato altrove una di tali pagine ma non posso a meno di rileggerla qui. È una invettiva contro i libri di teologia usati al suo tempo nei seminari: «libri dove tutto è povero e freddo: dove l'immensa verità non comparisce che sminuzzata, e in quella forma in che una menticina l'ha potuta abbracciare, e dove all'Autore, spossato nella fatica del partorirla, non è restato vigore d'imprimere al libro altro sentimento che quello del suo travaglio, altra vita che quella d'uno che sviene; libri a che il genere umano, uscito dagli anni della minorità fanciullesca, volge per sempre le spalle poichè non vi trova sè stesso nè i suoi pensieri nè i suoi affetti, e a cui tuttavia si condanna barbaramente e ostinatamente la gioventù che pur col senso naturale li ripudia, e che bene spesso per un bisogno di cangiarli in migliori cade nella seduzione di libri corrompitori o acquista un'avversione decisa agli studi o da lungo patir violenza nello stringimento delle scuole prende un odio occulto, profondo, che dura quanto la vita, contro i maestri, i superiori tutti, i libri e le verità stesse in quei libri contenute.» Voi avete udito, signori. Sono parole di un Santo a cui fu cara la libertà della coscienza e della parola cristiana fuori dei confini del dogma, nel campo aperto alle opinioni, che nessuna tirannia di parte religiosa o politica ebbe nè può avere in suo arbitrio mai.

Qui è, in fondo, il segreto delle inimicizie mortali che nel seno stesso della Chiesa cattolica germinarono, covarono, insorsero, mal piegarono al comando di Pio IX, attesero con pazienza feroce il loro giorno e, quando venne, fecero di quest'uomo, de' suoi scritti, del clero a lui devoto, rabbiosamente, tutto lo strazio che poterono. Ciò fu attribuito alle fallite speranze di un Ordine religioso che ambiva contare Antonio Rosmini fra i suoi, al dispetto di quest'Ordine per il nuovo Istituto da lui fondato e per le dottrine morali difese nel Trattato della coscienza contro moralisti cari alla Compagnia. Queste spiegazioni bastavano forse un tempo; adesso le credo insufficienti. La causa vera, fondamentale, permanente dell'odio implacabile onde una parte della Chiesa persegue ciò che battezza, quasi con un nome di eresia, rosminianismo, è l'opera data senza tregua da questa parte a spogliare la coscienza e la parola cattolica delle loro legittime libertà, a fare della Chiesa una specie di grande monarchia dispotica e militare, tanto più potente quanto più silenziosa; ed è la resistenza invitta ch'essa trova nello spirito di Rosmini tuttavia vivente nei suoi libri e nei suoi discepoli: vivente e immortale.

Nell'altro opuscolo prevale il fuoco dell'amore. Correvano i primi mesi del quarantotto ed era per tutta Italia una primavera delle anime, un calore nuovo di sentimenti fraterni, un rinverdire di speranze immense. Rosmini teneva nella sua scrivania, fin dal 1822, un progetto di costituzione. Lo riprese, ne fece un progetto di Statuto per il Santo Padre. Alcuni Cardinali amici suoi lo volevano a Roma. Il Papa non aveva parlato e Rosmini non si mosse da Stresa, mandò il progetto con una lettera e scongiurava che non si affrettasse nulla, che a nessun patto si prendesse una costituzione di tipo francese. Gli amici insistevano, gli dicevano che il Papa stava leggendo con soddisfazione le Cinque Piaghe, che lo vedrebbe volentieri. Ma il Papa taceva e Rosmini non si mosse.

Intanto gli avvenimenti mutavano faccia: il Papa, di bellicoso diventava pacifico, e tutta Italia ne fremeva. Rosmini ne fu atterrito. Divinò tosto, nella sua mente sovrana, che rifiutando di mover guerra all'Austria, Pio IX segnava la fine del potere temporale dei Papi. La guerra all'Austria era un dovere del principe; se il Pontefice giudicava non poterlo compiere, il mondo avrebbe detto che gli uffici della signoria terrena non sono conciliabili con gli uffici della signoria spirituale. Ciò non piaceva a Rosmini. In politica Rosmini era insieme un idealista e un pratico. Il suo ideale fu l'unità della patria; il senso pratico gli rappresentò la difficoltà di stringere frettolosamente in un solo Stato popolazioni fatte disformi dalla storia più ancora che dalla natura e la difficoltà creata dal dominio temporale del Pontefice. Gli parve che al desiderio comune di una Italia libera e potente, alle condizioni del popolo italiano partito fra sei principi e una signoria straniera, alla dignità e allo splendore della Santa Sede si sarebbe provveduto bene istituendo una Lega italiana, affidandone al Pontefice la presidenza d'onore e il governo effettivo a una dieta sedente in Roma, composta per due terzi di rappresentanti del popolo e per un terzo di rappresentanti dei principi i quali, a cominciare dal Santo Padre, avrebbero promulgato costituzioni identiche. Sottoponendo il Santo Padre all'autorità suprema della dieta, Rosmini sperava ottenere da lui che almeno per la fede giurata al patto federale, quando la dieta avesse deliberato di romper guerra all'Austria, egli obbedisse.

La guerra all'Austria era il sogno di Rosmini. A fronte di privati offensori, Rosmini si ricordò sempre ch'era Ministro di un Dio di pace, e imparò il perdono da Lui che fu mite e umile di cuore. A fronte degli offensori della verità Rosmini sempre si ricordò di avere a maestro il Divino che sui farisei girò lo sguardo con ira e ai profanatori del tempio fu acerbo. A fronte di un governo che chiamò violatore della nazionalità, della giustizia, della moralità, della libertà naturale, Rosmini si ricordò sempre di servire il Dio degli eserciti. L'Austria era per lui la grande nemica della Chiesa e della patria. La protezione che il governo austriaco esercitava per fini tirannici sulla Chiesa gli parve oltraggiosa e odiosa come la protezione offerta da don Rodrigo a Lucia. Rispetto e libertà, non protezione, voleva egli per la sua Chiesa. Indipendenza e libertà voleva per la sua patria. Poichè solo si potevano ottenere in giusta guerra, Rosmini la predicò, e poichè con l'Austria non potevano gl'italiani misurarsi se non uniti, predicò ai principi e ai popoli d'Italia l'unità, minacciò di rovina coloro che rendessero l'unità impossibile.

Non valendo a persuadere il Pontefice renitente alla guerra, Rosmini concepì un vasto disegno nell'intento di liberare la Lombardia e il Veneto senza guerra. Da grande uomo di Stato egli aveva letto nel libro del destino la futura unità germanica. Previde che si sarebbe compiuta a benefizio di un principe protestante. Questo era un pericolo per la Chiesa. Consigliò che il Santo Padre appoggiasse con tutte le sue forze le aspirazioni unitarie del popolo tedesco e la risurrezione del trono imperiale tedesco dentro la reggia di Casa d'Austria per ottenere da questa, in compenso, l'abbandono delle sue provincie italiane. Il trionfo del gran disegno avrebbe soddisfatto due popoli e raffermato il potere vacillante del Pontefice. Ma fortunatamente queste ultime parole non erano scritte nel libro del destino. Pio IX non aveva Ministri atti a concepire divisamenti così grandi nè a eseguirli; e non chiamò Rosmini. Lo chiamò invece, in un'ora dolorosa, dopo i disastri delle armi piemontesi, il governo di Re Carlo Alberto.

Rosmini, posposta ogni cura del corpo malato e stanco, posposte le antiche consuetudini di vita nascosta e di studio, corse a Torino, conferì con i Ministri che lo volevano negoziatore in Roma di una Lega per la guerra, chiese un mandato più largo, ne segnò i confini con ferma parola. Si accese una discussione. Vi era nella sala, fra i consiglieri del Re, il più grande e fiero antagonista del Roveretano, l'uomo che gli aveva scagliato non meno di tre grossi volumi col titolo: Errori filosofici di Antonio Rosmini e contro il quale Rosmini aveva scritto: Vincenzo Gioberti e il Panteismo. In tutta Italia e anche oltre le Alpi, durante il papato di Gregorio XVI, grande amico e protettore di Rosmini, era corso il suono di questo conflitto fra i due più potenti ingegni che tenessero allora il campo nelle regioni superiori del pensiero; conflitto fatto più acerbo dall'accanimento dei discepoli; tanto acerbo, che si disse Papa Gregorio essere intervenuto a reprimere il soverchio ardore di un dignitario della Chiesa avverso al Rosmini. Il momento era solenne, e quel che accadde fu bello. Quando Rosmini rifiutò il mandato ristretto ad un'alleanza offensiva con Roma e chiese tranquillamente poter trattare di tutto che riputasse utile all'Italia e alla Chiesa, i ministri sbigottirono. Com'era possibile abbandonarsi a tal segno nelle mani dell'abate? Allora Vincenzo Gioberti parlò. «Ascoltate Rosmini,» diss'egli «fate come Rosmini vuole.» Momento epico, parole in cui si sente con un brivido la grandezza di quei due uomini, la grandezza pure della patria cui tutto donavano, la grandezza di Dio che li riempiva, nel sacrificio, di sè. Rosmini uscì della sala per andar incontro a giorni terribili e amari, all'insuccesso della sua missione e de' suoi consigli, ai tumulti del popolo di Roma, alla fuga del Pontefice, alle persecuzioni borboniche, Gioberti ne uscì incontro a un destino più atroce, ad accuse di tradimento, a una caduta clamorosa, alla morte in un paese straniero. Io li vedo attraversar frettolosi, dopo la seduta, piazza Castello, passare accanto al Palazzo Madama, Certo nè l'uno nè l'altro potè immaginare che per effetto di luttuosi avvenimenti cui l'uno e l'altro avrebbe preso parte, bene salito un giovine principe sul trono del padre, male ricondotto un vecchio principe sul suo proprio, risorte le prostrate speranze della patria, meno di tredici anni dopo si sarebbero veduti uscire insieme da quel palazzo, raggianti, proclamato appena re d'Italia il figlio di Carlo Alberto, due vecchi amici di Rosmini, Camillo di Cavour e Alessandro Manzoni.

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Signori, io mi sono studiato di rappresentarvi la figura morale di Antonio Rosmini e ora mi pento di avere spese troppe parole a dire l'inesprimibile. Misero artefice di periodi, mi umilio davanti a un vecchio analfabeta che servì Rosmini e cui domandai in Rovereto che mi descrivesse il suo venerato don Antonio. «Ecco» mi rispose «quando io qui per casa lo incontravo, anche senza ch'egli parlasse, solo a guardarlo, era una predica.» Altro non mi disse, altro non gli chiesi. Poco prima, la baronessa Adelaide Rosmini mi aveva mostrato in un cortiletto la finestra dov'ella nascosta dietro un cortinaggio, soleva guardar nella camera del cognato, spiare il volto di lui orante. «Una cosa di Paradiso» mi disse la vecchia signora. Aggiungete a questi silenzi certe brevissime parole che ora vi ripeterò. Nel 1848, essendo Rosmini in Roma, appena si seppe che il Papa lo voleva Cardinale, disegno troncato poi dal coltello che uccise Rossi, un altro suo vecchio fidatissimo servitore, uomo semplice fra i semplici, andò diritto dal Papa. «Santo Padre,» gli disse «non vogliate far cardinale il mio padrone che non è nato per questo.» Compiuta la bella impresa, si presentò subito a Rosmini. «Signor padrone, sono stato dal Papa e gli ho detto di non far lei Cardinale, perchè lei non ci è nato.» «Avete ragione» rispose Rosmini, sorridendo «ma non mi pare che toccasse proprio a voi di andarlo a dire al Papa.» Aggiungete finalmente le tre parole ch'egli rispose, sul letto di morte, a Manzoni singhiozzante: «che faremo noi senza di lei?» «Adorare, tacere, godere.» Voi ne sapete ora di questo spirito soave, umile, fine, profondo, più che non ve ne possano apprendere volumi di panegirici.

La santità sua fu radice e misura dell'altezza intellettuale ch'egli raggiunse. Vide la verità con il cuore puro prima di vederla con il genio. Questo fu straordinario. La nutrice di Rosmini giudicò ch'egli avesse a diventare un gran santo, perchè lo vide sorridere al momento del lavacro battesimale. Chi l'udì chiedere a due anni perchè mai l'improvviso bagliore di un lume oltre ad accecarlo gli facesse provare una scossa interna, avrebbe potuto divinare il grande filosofo. Conviene risalire ai Padri della Chiesa per incontrare altre nature umane così magnificamente ordinate nella trina unità dell'intendere, dell'amare, del volere. Il cuore di Rosmini è illuminato di ragione, il suo genio è illuminato di amore. Egli è avido di tutto il vero e tutto lo intende. Si profonda nell'algebra, è capace di pensare, viaggiando, un metodo nuovo per sciogliere le equazioni di secondo grado. Si profonda nella fisiologia, e i suoi compagni di Università lo antepongono al professore. Conosce l'ebraico, legge speditamente i papiri greci di Ercolano, intende il tedesco di Hegel. Porta senza parere una erudizione immensa. Nella filosofia del diritto cita 450 opere e non è uomo da citare di seconda mano. Non sdegna di leggere romanzi nè di studiare i fenomeni dell'ipnotismo. Indaga la natura divina, profunda Dei, con la potenza che si può vedere nella Teosofia: scruta profunda hominis, le regioni più oscure della natura umana, con l'acume che si può vedere nel Trattato della Coscienza. È insieme artista e poeta. Adora la pittura, afferma che se avesse più vite ne darebbe una intera ai pennelli. È poeta per il fuoco del sentimento, per il fervore dell'immaginazione. Nel verseggiare è minore di sè stesso; nell'illuminare la prosa d'immagini e di similitudini è uguale a sè stesso; nel creare sui confini della scienza umana ipotesi da gettar nell'ignoto, è maggior di sè. La sua concezione dell'universo fu concezione di credente, di filosofo e di grande poeta. Gli piacque credere nella generazione spontanea per dedurne che ogni atomo di materia è animato dall'origine, che la vita esiste già nella polvere prima di manifestarsi in un organismo. Tutto l'universo era per lui vivente, ma creato. Si figurava l'atomo in una forma piramidale che permette al principio animatore d'imprimergli un moto vorticoso. Al principio spirituale animatore attribuì la potenza di organizzare la materia, dottrina che trova un appoggio nei fatti ipnotici, nell'azione straordinaria che durante lo stato ipnotico un atto dello spirito esercita sull'organismo. Dieci anni prima che uscisse il libro di Darwin sull'origine delle specie ardì accennare all'ipotesi di un corpo animale fatto uomo invece della famosa statua di fango. Anche divinò, senza esperienze, i fenomeni telepatici. «Io sospetto» scrisse nella Psicologia «che nell'amicizia e nell'amore le anime stesse si sentano, le anime stesse esercitino scambievolmente qualche loro azione misteriosa.»

L'opera sua filosofica intera, tanto profonda nelle fondamenta, tanto solida nella struttura, tanto irradiata da intimi fulgori di sentimento e di fantasia, è veramente un poema sacro, in capo al quale si avrebbero a iscrivere le parole del suo autore ad Alessandro Manzoni: «Ciò ch'è divino e che luce nel seno del mistero è come il comune alimento pel quale il poeta e il filosofo vivono immortali.» Mi è impossibile, signori, esporvi il disegno di questo edificio che si chiama Sistema della Verità, e che Rosmini promise, sorridendo, di compiere in paradiso. Mi è altrettanto impossibile tralasciar d'indicarvene la pietra angolare. Malgrado la santità e il genio di Rosmini, malgrado le opere sue, la istituzione di un Ordine religioso, i servigi resi all'Italia, i suoi discepoli non avrebbero affrontato battaglie, umiliazioni e dolori: noi non ci saremmo raccolti in suo onore a Rovereto, nè io parlerei ora di lui per la terza volta se si trattasse della fama d'un uomo, dell'onore di una tomba e non della gloria di una verità. La pietra angolare del sistema filosofico di Rosmini è la dimostrazione che l'idea dell'Essere è il principio della intelligenza. L'idea dell'Essere, mediante la quale l'uomo può giudicare che le cose hanno la qualità di essere, ossia che sono, è il lume della ragione. È un lume implicito nel primo giudizio che l'uomo proferisce, quindi precede la prima sensazione di cui il soggetto ha coscienza, è anteriore alla intelligenza umana perchè la crea. L'Essere non è altro che la verità. La verità è dunque anteriore alla intelligenza umana perchè la crea. Appunto questo è il beneficio immenso che ci ha fatto Rosmini. Ha dato a tutti noi la visione razionale dell'Essere assoluto ossia la certezza razionale che vi è una verità infinita ed eterna, indipendente dall'uomo, origine della ragione umana; che le verità parziali, apprese dalla ragione umana nel lume del primo vero, non sono quindi proiezioni di lei, non peccano per un vizio radicale, insanabile, di relatività, ma sono certe in noi e fuori di noi. Questa è una grande forza che Rosmini ci ha dato contro lo scetticismo e le sue conseguenze. Il nostro dovere è di usarne, e urge, nell'ora presente, che noi ne usiamo perchè nell'ora presente la gente si burla dei filosofi, è vero, ma nello stesso tempo gli uomini e anche le donne fanno più che mai della filosofia per conto proprio. Ne fanno con pochissimo studio, con pochissimo sapere, e la maggior parte di queste filosofie private, nè solide, nè serie, riesce a base di scetticismo, il quale, nascosto o palese, si ripercote poi sulle energìe vitali e le abbassa. L'ora presente somiglia all'ora passata di quel sensismo contro il quale Rosmini insorse. La dottrina ch'eleva i sensi a soli maestri del vero ed esclude quindi l'assoluto, è alquanto scossa in teoria, ma il suo potere è tuttavia grande nel campo della politica dove si manifesta come opportunismo e regge la condotta di tutti i partiti con l'expedit e il non expedit; è grande nel campo del diritto penale, dove sostituisce il concetto di difesa al concetto di giustizia; è grande nel campo della scienza, dove nega il soprasensibile; è grande nel campo dell'arte, dove consacra i sensi a soli maestri della bellezza. Tutte queste manifestazioni di una dottrina di errore, noi, discepoli di Rosmini, siamo chiamati a combattere, ciascuno nel proprio campo e Rosmini non ci ha dato solamente un terreno fermo sul quale far testa, ci ha pure dato norme sicure per l'azione. Mettere in opera la verità: ecco la formola della morale rosminiana; dovunque e sempre corrispondere con l'azione alla verità: ecco la legge che noi dobbiamo proporci di seguire come uomini di scienza e come uomini di azione, come pensatori e come artisti. Operare la verità, per un artista, non è altro che conoscere con la mente la natura dell'arte e riconoscerla con l'opera. In questo concetto rosminiano, io, come artista, mi sono sentito libero dispositore della bellezza che appare ai sensi nella luce del sole e anche in certo modo negativo, nell'ombra; della bellezza che appare alla ragione nella luce del vero e del bene, e anche, in un certo modo negativo, nell'assenza di essi: della bellezza ch'è nella stessa anima mia come specchio della bellezza esterna, come idea, come fantasma, come amore. E se la visione delle cose belle conduce per via di ragionamento il discepolo di Rosmini a credere in un Essere vivente ch'è bellezza e dal quale ogni bellezza discende, il poeta perviene di slancio a tal fede nel palpito che l'oscuro tocco di questo Essere vivente gli suscita in cuore, come Shelley, rapito amante, cantò.

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Signori! Io chiudevo pochi mesi addietro un mio breve studio su Antonio Rosmini esprimendo il voto che per opera di qualche ricco munifico o di qualche gruppo di uomini devoti alle dottrine del Roveretano sorgesse in Italia una cattedra di filosofia rosminiana. Permettetemi di ripetere questo voto davanti a voi. Uscendo dalla cripta del tempio di Stresa dove dorme la spoglia mortale dell'uomo che tanto vide e tanto amò, che tanta gloria diede alla Chiesa ed ebbe da infelici ministri di lei tanto dolore, pensavo a profetiche parole sue piene di fede nel trionfo del suo sistema: «Conviene che io muoia e marcisca sotterra. Allora sarà il tempo.» E pensavo quanto è da invocare nello stato presente d'Italia che quest'ora suoni. A minor prezzo che non si sarebbe sperato quando in faccia al golfo poetico dove Stresa siede tendevan la gola da Laveno i cannoni austriaci, l'unità politica della nazione si ottenne. Ma l'unità intellettuale che Rosmini, severo e acceso, ammoniva dover precedere l'altra, è più che mai desiderio e sogno. Unità intellettuale perfetta neppure si spera, neppure è compatibile con le condizioni della civiltà presente; tuttavia i dissidii che più fiaccano la mole malferma del nostro Stato e più turbano le anime potrebbero felicemente comporsi secondo principii di libertà e di verità, se un largo consenso avvenisse nelle dottrine di quell'uomo grande. Lavoriamo a creare un tale consenso e possano, nel 1955, per il centenario della sua morte, i nipoti nostri ascendere alla tomba di Stresa, là dove più ride Italia, dire ginocchioni a Rosmini che finalmente la sua patria cara non è soltanto una, felice, forte di leggi e di armi, ma è anche una nel concetto del diritto e del dovere, nell'intelletto e nella pratica della libertà.

La vita Italiana nel Risorgimento (1831-1846), parte II

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