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FEDERAZIONE E UNITÀ

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CONFERENZA

DI

ERNESTO MASI

Il 18 febbraio 1861 s'adunò per la prima volta in Torino il Parlamento dell'Italia – «libera ed unita quasi tutta,» – come disse con voce sonora Vittorio Emanuele, e sento ancora nell'orecchio e nel cuore quelle parole e lo scoppio di grida entusiastiche, con cui furono accolte.

Pochi giorni dopo, il 17 marzo 1861, fu promulgata una legge d'un solo articolo: «Il re Vittorio Emanuele II assume per sè e suoi successori il titolo di Re d'Italia».

Nel presentarne il progetto ai deputati, il Conte di Cavour scriveva nella relazione, che lo precede: «un gran fatto s'è compiuto; una nuova èra incomincia!»

E il relatore parlamentare, Giambattista Giorgini: «ci sono delle oasi nei deserti della storia, diceva, ci sono nella vita delle nazioni dei momenti solenni, che potrebbero chiamarsi la poesia della storia; momenti di trionfo e d'ebbrezza, nei quali l'anima, assorta nel presente, si chiude ai rammarichi del passato, come alle preoccupazioni dell'avvenire.

«Rendiamoci una volta giustizia! Quanti sediamo su questi scanni, tutti abbiamo diversamente lavorato per la medesima causa; tutti abbiamo portato la nostra pietra al grande edifìzio, sotto il quale riposeranno le future generazioni. Qui i volontari di Calatafimi potrebbero mostrarci sul petto le gloriose cicatrici; qui i prigionieri di Sant'Elmo, intorno ai polsi, il callo delle pesanti catene; qui colla canizie, colle rughe precoci, oratori, scrittori, apostoli di quella fede, che fece i soldati ed i martiri; qui i generali, che vinsero le nostre battaglie, qui gli uomini di Stato, che governarono le nostre politiche: di qui parta unanime dunque (un) grido d'entusiasmo; qui finalmente l'aspettata fra le nazioni si levi e dica: Io sono l'Italia!»

Enfasi magniloquente, che però era allora di stagione (adesso par di leggere una delle Epistole famigliari, varie o senili del Petrarca); enfasi, che allora altresì, cosa insolita, era perfettamente esatta: il fatto grande e nuovissimo nella nostra storia, il sentimento di gioia suprema, che suscitava in tutti, dal re all'ultimo popolano, la presenza di tutti i principali uomini, che in tanti modi diversi vi avevano cooperato. V'erano tutti in realtà. Non mancavano che Garibaldi e Mazzini… Peccato!

Volle sottolineare tale mancanza il Brofferio, vecchio avversario del Conte di Cavour, accusandolo d'avere con questa legge usurpata un'iniziativa, che spettava tutta invece alla rappresentanza popolare. Il Cavour sentì il colpo e fieramente lo parò. «Tutti gli Italiani,» rispose, «hanno avuto parte nel gran dramma del nostro risorgimento, ma mi sia pur lecito dirlo e proclamarlo con profonda convinzione; negli ultimi avvenimenti l'iniziativa fu presa dal governo del Re… Fu il governo, che prese l'iniziativa della campagna di Crimea; fu il governo del Re, che prese l'iniziativa di proclamare il diritto d'Italia nel Congresso di Parigi; fu il governo del Re, che prese l'iniziativa dei grandi atti del 1859, in virtù dei quali l'Italia s'è costituita». Perciò, concludeva con altre parole, anche l'iniziativa di proclamare l'unità nazionale spetta al governo del Re.

E perchè no? Si millantava forse il Conte di Cavour? Senza quelle iniziative, tutte sue (e notate che tacque della campagna delle Marche e dell'Umbria) l'impresa di Garibaldi in Sicilia e Napoli sarebbe essa stata mai neppure possibile? Dell'unità nazionale non v'ha dubbio, il più antico e perseverante apostolo era stato il Mazzini, e quindi era egli pure un grande coefficente di ciò che ora accadeva, ma chi avrebbe potuto sul serio, nell'ordine dei fatti, paragonare l'opera del Conte di Cavour coi tentativi del Mazzini dal 1833 insino allora?

Se non che il partito radicale e ultra-democratico, di cui in quel momento si facea interprete il Brofferio, avea sempre capito così poco il Conte di Cavour da parergli la maggiore accusa, che gli si potesse fare, essere appunto questa, ch'egli fin dalla culla non era stato e ad ogni costo unitario, che, piemontese e monarchico innanzi tutto, sfruttava ora l'opera d'altri a beneficio dell'antica politica dinastica del carciofo, e affrettava le annessioni e l'unità italiana con lo zelo del neofita, dell'operaio dell'ultim'ora, del convertito da un improvviso raggio di sole sulla via di Damasco.

Tuttociò, se fu detto o scritto in buona fede (del che è lecito per molti di dubitare) è stolto ed insipiente in sommo grado, e non merita altra risposta se non quella che mi rammento aver io stesso sentita dare da Ruggero Bonghi ad un amico, progressista repubblicaneggiante, cui pareva aver trovato l'Achille degli argomenti contro la memoria del Conte di Cavour.

Passeggiavamo di piena estate in una campagna e dopo aver molto discusso: – Insomma, – sclamò quel tale, – Mazzini credeva fino dal 1832 all'unità italiana e il Conte di Cavour no. Ora all'ultimo chi ha avuto ragione? – Senti; – rispose il Bonghi – se tu in questo momento dici: «credo che nevica,» per certo dici una sciocchezza. Ma se seguiti a dirla fino a quest'inverno, e nevica, come di solito, e tu vuoi vantarti: «vedete, se avevo ragione?;» ne dici un'altra, e son due. Per oggi basta! —

Così è in realtà, e lasciando stare ciò che il Conte di Cavour abbia pensato e creduto in gioventù, perchè mai il giorno dopo Novara sarebb'egli stato unitario o federalista? chi sapeva, dopo quell'immensa ruina del 1848 e 49, che cosa sarebbe accaduto? Qual'è la dottrina, che s'era salvata? quale il partito politico, che non fosse stato sconfitto, benchè tutti avessero fatte lo loro prove? La grandezza maggiore, l'originalità vera del Conte di Cavour stanno appunto in quella piena libertà di spirito, con cui pigliò l'impresa italiana. Non una tradizione lo preoccupava, non un impegno settario lo impediva, non una vecchia dottrina tiranneggiava i suoi pensieri. Sentiva, e profondamente sentiva, tutta l'immensa miseria della vita italiana; solamente non avvertiva forse tutto il guasto, che tre secoli di servitù aveano arrecato al carattere nostro e perciò potè procedere più franco, più sicuro, più espedito d'ogni altro. La sua cultura era principalmente inglese e francese; i suoi viaggi erano stati tutti all'estero; l'Italia gli era quasi ignota, e tuttavia essa era in cima d'ogni suo pensiero. Ciò pure, direi, gli ha giovato. Gran parte delle incertezze di Massimo d'Azeglio, che avea vissuto a Roma, a Firenze, a Milano, a Napoli, gli proveniva dal conoscere troppo bene gli Italiani. L'audace confidenza del Conte di Cavour dal conoscerli poco; lo ha notato lo stesso Garibaldi. Non è un complimento per gli Italiani, ma sempre più ogni giorno che passa la credo una verità! Per questo il Conte di Cavour fu tra gli Italiani un fenomeno così straordinario. Non soltanto la potenza della mente lo singolareggiava fra tutti. Altri uomini di mente potentissima e per certi rispetti superiori a lui, non mancavano di certo all'Italia. Bensì l'organismo stesso della sua mente, la forma della sua cultura, la tendenza, la disposizione del suo spirito, il modo, con cui afferra, esamina, risolve ogni questione, che gli si presenti, tutto questo esser suo, così fondamentalmente diverso anche dalle più insigni varietà dell'ingegno italiano, fa del Conte di Cavour un fenomeno; fa sì ch'egli venga tardi sulla scena politica, che in sua gioventù e durante la rivoluzione del 1848-49 rimanga un po' appartato, che nonostante la perspicuità somma delle sue idee e delle forme, nelle quali le espone, apparisca per molto tempo agli avversari politici, ed anche uh poco agli amici, una specie di enigma, a cui si cercano mille assurde spiegazioni, ora titolandolo un anglomane (il Brofferio e compagni lo chiamavano Lord Cavour) ora un reazionario, ora un municipalista; fa sì che tra la stessa aristocrazia, donde usciva, lo si giudichi ne' suoi primordi un cervello torbido e fuor di squadra, a Corte un Giacobino in ritardo e fra la diffidente borghesia liberale del Piemonte, che avea tante rivendicazioni da fare, un personaggio sospetto e da mettere in quarantena. Chi prima di tutti lo indovinò e lo preconizzò fu Vincenzo Gioberti, stato già suo avversario politico, ma che gli rese giustizia con quelle parole del Rinnovamento Civile scritte nel 1851: «quel brio, quel vigore, quell'attività mi rapiscono e ammiro lo stesso errore magnanimo di trattare una provincia, come fosse la nazione, se lo ragguaglio alla dappocaggine di coloro, che ebbero la nazione in conto d'una provincia. Io lo reputo per uno degli uomini più capaci, dal lato dell'ingegno, di cooperare al principe nell'opera di cui ragiono.»

Ma di quale ingegno parlava il Gioberti? Perocchè su questa qualità così generica dell'ingegno, di cui a volte non sono privi neppur quelli che in sostanza non ne azzeccano mai una, e i tristi poi ne sono per lo più forniti a dovizia, anche su questa, dico, qualità generica dell'ingegno, bisogna intendersi. E quale propriamente fosse l'ingegno del Cavour niuno l'ha detto con più finezza di Isacco Artom, uno dei suoi collaboratori più modesti e più intimi. «Egli non si proponeva mai,» scrive l'Artom, «una mèta immaginaria e inaccessibile, ma nel tempo stesso egli non si contentava mai di conseguire meno del possibile. Il suo sguardo non oltrepassava mai i confini del reale, ma il reale era pel suo genio orizzonte ben più vasto, che non sia per gli altri uomini!»

Dio ci mandò, o signore, il Conte di Cavour (diciamolo a costo di pagare cinquanta centesimi a Rabagas, come nella commedia del Sardou) Dio ci mandò il Conte di Cavour, appunto perchè la rivoluzione italiana non si perdesse più ad almanaccare a priori di monarchia e di repubblica, di tradizioni storiche e di profezie letterarie, di federazione e di unità, ma tratta fuori da tutti i vecchi solchi, nei quali s'era malamente e le tante volte smarrita, uscisse finalmente dalla catalessi dei fanatici e dei solitari ed entrasse in un periodo di effettuale realtà, contasse sul possibile ed anche sull'osare a tempo, ma non farneticasse più sui milioni d'armati, che abbiano a sbucar di sotterra, su cataclismi, che abbiano a subissar mezzo mondo, su idealità vaghe e in tale contrasto con tutto il fuori di noi da farci parer sempre ubbriachi e sonnambuli, che battono capate in ogni spigolo di muraglia, o eroi metastasiani che trinciano l'aria col brando, ma non confidano che nella clemenza delle stelle.

Credete voi che in Italia ci volesse poco a persuadere d'un simile trapasso dal regno dei sogni a quello della realtà i milioni di Arcadi e d'analfabeti, dei quali Pasquale Villari potè tirare una somma spaventevole anche quattordici anni dopo?

Quando il Conte di Cavour inaugurò nel Piemonte quella politica di egemonia nazionale, che ha fatto l'Italia, non era forse nella sua mente alcun disegno preventivamente fissato con linee troppo rigide. Pei radicali e gli ultra-democratici ciò costituiva la sua grande inferiorità rispetto a loro, e fu invece la sua originalità e la sua forza. Amava con passione la patria, e due cose tenea per certissime: l'impotenza del riformismo dottrinario e del rivoluzionarismo alla Mazzini, e la necessità che il Piemonte s'inalzasse tanto nell'opinione pubblica europea da imbrigliar esso la rivoluzione a vantaggio della sua politica e da poter trattare da pari a pari con la diplomazia, nonostante che il fine della politica piemontese fosse quello di stracciarle sul muso i suoi trattati e di sconvolgerle e rovesciarle il maggiore di que' suoi accomodamenti posticci del 1815, alla perpetuità dei quali, con una boria non meno pazza di quella dei rivoluzionari di mestiere, era solita d'aggiustar piena fede.

Una cosa sola, del resto, m'è sempre parso ch'egli, al pari di Carlo Alberto e di Cesare Balbo, considerasse come assoluta: la necessità di cacciar l'Austria dall'Italia. Quanto al programma unitario, però, non è vero ch'egli del tutto lo respingesse. Nel 1856 vide a Parigi Daniele Manin, che gli divisò il suo nuovo programma: «Indipendenza, Unità e Casa di Savoia.» Lo giudicò alquanto utopistico, ma già i grandi risultamenti morali e politici da lui potuti ottenere nel Congresso di Parigi, avevano talmente slargate le sue speranze, che nell'anno stesso in un segreto colloquio col Lafarina il quale era tutto inteso, insieme col Manin, col Pallavicino e quindi con Garibaldi, a fondare su quel programma una Società Nazionale da surrogare alla Giovine Italia del Mazzini: «ho fede, gli disse, che l'Italia diventerà uno Stato solo e che avrà Roma per sua capitale, ma ignoro se essa sia disposta a questa grande trasformazione.

«… Faccia la Società Nazionale; se gli Italiani si mostreranno maturi per l'unità, io ho speranza che l'opportunità non si farà lungamente attendere, ma badi che dei miei amici politici nessuno crede alla possibilità dell'impresa. Venga da me quando vuole, ma prima di giorno e che nessuno la veda e che nessuno lo sappia. Se sarò interrogato in Parlamento e dalla diplomazia, la rinnegherò come Pietro e dirò: non lo conosco».

Eccolo anche cospiratore. Avea tutte le corde al suo arco e, contro il suo solito, si vantò appunto d'aver cospirato colla Società Nazionale nel suo secondo gran discorso su Roma capitale. In Piemonte, come associazione consentita dalle leggi, la Società Nazionale fu pubblica; segreta invece nelle altre parti d'Italia, essa però non adottò nessuna delle forme delle antiche sètte, nè sottopose gli adepti a nessun altro vincolo morale, salvo accettare il programma: «Indipendenza, Unità e Casa di Savoia». E che una cospirazione politica, la quale si proponeva di raccogliere in una nuova concordia le sparse forze del paese e ai Mazziniani, in compenso della Monarchia, offriva l'unità nazionale, ai conservatori liberali, in compenso dell'unità, offriva la monarchia, a tutti l'indipendenza dallo straniero, che una cospirazione politica, dico, dovesse contrapporre alle antiche sètte un nuovo Credo molto determinato, si capisce bene.

Ma come avrebbe potuto il Conte di Cavour vincolarsi palesemente altrettanto? Non andrà un anno poco più, e all'ombra dei grandi alberi di Plombières sentirà offrirsi l'alleanza francese e la guerra immediata a prezzo d'una confederazione di tre Stati sotto la presidenza del Papa.

E che cosa sarebbe avvenuto dell'Italia, s'egli avesse rifiutato? A buon conto, da un progetto impossibile di confederazione uscirono Magenta e San Martino, e dalla guerra malamente troncata a Villafranca uscì l'unità italiana.

Ma dicono non soltanto gli avversari del Conte di Cavour, bensì altri molti: «No; l'unità politica dell'Italia s'è fatta malgrado il Conte di Cavour, e s'è fatta perchè l'unità era la grande, la vera, l'unica tradizione di tutta la storia italiana».

Non so se il Conte di Cavour, ma tutti, dal più al meno, siamo un po' passati per questa fisima; tutti, dal più al meno, siamo colpevoli d'aver bruciato qualche granello d'incenso rettorico a questa fisima; alla quale si contrapponeva poi un'altra scuola, cattolico-liberale o razionalista e repubblicana, che nella storia d'Italia pretendeva invece a trovare la tradizione federale. Non ne facciamo colpa a nessuno; forse anzi è un merito patriottico. Chi mai prima del 1859 poteva occuparsi di storia d'Italia senza un sottinteso politico? e questo sottinteso non dovea essere il programma del proprio partito? Perocchè v'ha bensì mia verità storica, ma purtroppo vi possono essere pure tante interpretazioni soggettive, quanti sono gli storici. Dio mi guardi dal dire che con la storia alla mano si possa ugualmente provare il ed il no, ma certo è che nell'immenso arsenale dei fatti della storia si possono trovare argomenti per tutte le cause, armi offensive e difensive per tutti i partiti, e sarebbe facile citarne esempi, specie fra gli scrittori di nostra storia contemporanea, italiani e stranieri. C'è insomma una rettorica dei fatti e secondo il modo di aggrupparli e farli apparire, ci sarebbe talvolta da credere, che si possano scrivere su documenti identici due storie di spirito diametralmente opposto, e da dar ragione a Beniamino Constant, quando diceva: «Io ho dieci, venti, quarantamila fatti e posso valermene a volontà». Vi pare scetticismo questo? No, signore. È servirsi della nostra ragione, poichè Dio ce l'ha data, ed è partendo da questo savissimo scetticismo, nota un grande scrittore inglese, che la civiltà moderna ha potuto correggere in parte quei tre massimi errori fondamentali, che, in passato, ci rendevano in politica così ignavi, in scienza così credenzoni, in religione così intolleranti.

Nel caso nostro non c'è in realtà nella storia d'Italia, fino almeno alla fine del secolo XVIII, nè una tradizione unitaria, nè una tradizione federale.

Ma eccovi gli uni a citarvi (per lo più pigliano le mosse di lontano) oltre alla forma allungata della penisola, alla varietà delle razze, che la popolarono, non appena divenne abitabile, alle indoli e costumi diversi, tutti indizi repugnanti a unità, le antiche federazioni italiche, anteriori a Roma, e resistenti per tanto tempo alla sua conquista, l'esperimento tipico, vale a dire, la prima pietra angolare della tradizione federale; ed eccovi gli altri a ribattere, non senza ragione, che quegli argomenti etnografici e morali non provan nulla, perchè di troppe altre nazioni unitarie si potrebbero addurre, e la penisola, che il mar circonda e l'Alpe, compensa ampiamente colla salda certezza de' suoi confini i pericoli della sua configurazione. Quanto alle prime federazioni italiche, circondate, com'erano, di popoli nomadi e selvaggi, se mai esprimevano qualche cosa, certo esprimevano piuttosto una rudimentale tendenza all'unità, la quale di fatto si compì col formarsi dello stato di Roma.

Se non che, come mai può dirsi la vecchia Roma, la Roma dei classici, uno stato unitario nel senso, che oggi intendiamo? Da prima Roma dovè lottare assai più per conquistare l'Italia, che non tutto il resto del suo impero. In secondo luogo le città italiane furono tutte a lei soggette in vario grado, con forme diverse, e tenute a freno con un sistema di colonie, che s'andava via via slargando e sempre col doppio intento d'impedire una rivolta e di difendere la città dominatrice. Nè federazione quindi, nè unita, ma soggezione pura e semplice, contro la quale le ribellioni furono molteplici e tremende, e sfido negare, come sogliono gli unitari, che le guerre sociali dall'anno 90 al 60 avanti Cristo, non esprimano una tendenza separatista, domata soltanto da un progressivo avviarsi alla dittatura.

Quanto all'Impero, esso non e più Roma, ma la dominazione universale del mondo, e se, quando l'Impero si dissolse, si ha il fatto che le grandi diocesi, nelle quali era spartito, furono il nucleo, intorno a cui si composero con lento lavoro le altre nazioni moderne, non è men vero che nella diocesi d'Italia appunto tale fatto non s'avverò, perchè il regno, che i Barbari vi fondarono, li fece bensì re in Italia, ma non re d'Italia, e gl'Italiani, perduti sempre dietro al vano fantasma del cosmopolitismo romano, non consentirono mai che questo regno li unificasse, come altrove era accaduto, fondendosi insieme perfettamente le due razze, quella degli indigeni e quella degli invasori. In Italia, invece, le due razze si contrastano ancora nell'età dei Comuni rappresentate rispettivamente (fino ad un certo segno però) dai feudatari dei castelli e dal popolo del Comune, e quindi entro il Comune stesso dai nobili e dal popolo, benchè nelle costoro discordie nè sempre le loro divisioni siano così esatte, nè sempre abbiano così remote cagioni.

Per questo non si diè tregua mai neppure a' Goti e a' Longobardi, i meno barbari fra i Barbari; per questo Leone III incoronò in Roma Carlomagno, per impedire cioè che mai sorgesse un regno d'Italia e potesse attecchire uno Stato unificatore.

Vi fu bensì un regno meridionale; ma straniero d'origine, feudale di carattere, non ha che fare colle tradizioni romane: somiglia appunto ai grandi Stati, che si vengono formando in Europa, e non ha quindi alcuna azione sull'assetto, che l'Italia prende nel Medio Evo. Serve solo ad essere opposto ora dal Papa all'Imperatore, ora dall'Imperatore al Papa, finchè diviene il titolo, il pretesto giuridico delle invasioni straniere e determina il fato della storia moderna in Italia da Carlo VIII fino ai giorni nostri, fino a che Garibaldi, cioè, lo manda a gambe levate. Non si assimila mai nessuna parte d'Italia. Federigo II, re di Puglia e Sicilia, non è in Toscana e in Lombardia se non l'Imperatore, il capo del partito ghibellino. Così Manfredi, così Carlo e Roberto d'Angiò in Toscana, in Romagna, in Piemonte, non fondano mai nulla di proprio, non sono che capi di parte, combattono per la Chiesa e per l'Impero, entrano, vale a dire, nel sistema particolarista delle città italiane, sistema frazionato all'infinito, nel quale non è traccia nè di unità nè di federazione, e a volte neppure di vero guelfismo papale o di vero ghibellismo imperiale, ma che nonostante, tra l'Imperatore assente e il Papa disarmato, si svolge con tale e tanta gloria, forza e potenza, da creare tutta una grande civiltà nazionale, senza paragone possibile nel mondo d'allora e nei secoli seguenti. Troppo ce ne siamo scordati noi, soffocando questa vera tradizione italiana sotto un'unità formale, meccanica e burocratica, che ci diede tutti i guai, senza nessuna delle grandi e feconde energie d'un forte Stato unitario!!

Il frazionamento è ancora maggiore e non compensato di tanta virtù operativa e di tanta gloria nell'età dei principati.

E se tuttociò è precisamente l'opposto d'una tradizione unitaria, forsechè nell'età dei Comuni o in quella dei Principati apparisce mai l'indizio d'una vera tradizione federale? Si vorrà ancora citare per l'età dei Comuni il giuramento di Pontida, a cui la Lega Lombarda preesisteva, mentre poi essa stessa non preluse ad alcuna stabile federazione, bensì condusse la lega temporanea di tante città, e dopo la stessa vittoria di Legnano, al Congresso di Venezia, in cui il Papa, capo della Lega, abbandonò subito i suoi alleati per non pensare che a sè, e alla pace di Costanza, in cui i Comuni riconobbero i diritti dell'Imperatore Romano e delle nuove franchigie ottenute si valsero per dilaniarsi peggio che mai fra di loro? Si ricorderà ancora l'equilibrio di Lorenzo il Magnifico, che era tutto un artificio d'un grand'uomo politico, ma non si fondava che sulla sua sapiente destrezza e scomparve con lui? No; una vera federazione stabile, ordinata, nazionale, in Italia non c'è stata mai nè nell'età dei Comuni, nè in quella dei Principati. Vi furono bensì al tempo dei Comuni leghe umbre, toscane, lombarde, formate sempre a qualche intento speciale e quasi sempre sciolte prima che quell'intento fosse conseguito. Ve ne furono altre al tempo dei principati, ma l'interesse, la defezione o il tradimento le sciolsero tutte, nè bisogna nella d'Italia lasciarsi prendere dai miraggi, che a quando a quando vi compariscono. Nel secolo XVI, per esempio, si direbbe che l'Italia stia per ordinarsi un momento sotto l'unità monarchica francese, o sotto la federazione di Cambrai, ma il miraggio scompare subito. Può concepirsi di fatto un'unità politica sotto la mano d'un re straniero, o una federazione di stranieri e italiani contro la gloriosa Repubblica di Venezia? No. Per quanto si faccia, se si cercano nella storia d'Italia, prima della Rivoluzione francese, tradizioni unitarie o federali, non altro si trova invece se non le cagioni prossime o remote delle preponderanze straniere. Nè bisogna lasciarsi ingannare neppure dal sentire tanti scrittori e statisti, e diplomatici e guerrieri, e persino papi, Giulio II, Clemente VII, Paolo IV, parlar sempre di libertà d'Italia. Per tutti (non vuolsi far loro colpa di ciò che in gran parte è colpa dei tempi) per tutti libertà d'Italia non significa già l'Italia nè unità, nè federata, nè libera dagli stranieri, bensì che nessuno degli stranieri, i quali si contendono Napoli o Milano, prevalga all'altro, e sotto a questo concetto v'è ancora un altro particolarismo, che sta più a cuore anche dei patriotti migliori, dei più elevati spiriti di questa o quella regione, vale a dire o che sia libera

Firenze, o che sia libera Milano, o che lo Stato del Papa non sia a discrezione nè di stranieri nè d'italiani: questo soprattutto che uno Stato italiano, per forza sua o d'alleanze non prevalga sugli altri, cosicchè quando le ambizioni di Venezia si volgono alla terraferma, nessun straniero pare più minaccioso di lei alla cosiddetta libertà d'Italia, nessuna preponderanza è più temuta e più contrastata della sua.

Dopodichè, nell'età degli Stati non solo non c'è tradizione nè unitaria, nè federale, ma non c'è più politica propria di nessuna fatta. La politica d'ognuno di essi è, a seconda dei casi e dei tempi, francese, spagnuola, austriaca, e il popolo italiano perde persino ogni coscienza dell'esser suo. L'Italia, che pur ha così forti e spiccati segni d'individualità nazionale, essa stessa (molto prima che il Metternich lo dica) si lasciò ridurre nell'età degli Stati un'espressione geografica. Questa divisione dell'Italia, che era di quasi ottanta Stati, ridotti a dieci dopo le guerre di successione e la pace d'Aquisgrana, e non per opera certo degli italiani, ma degli stranieri, questa divisione nazionalmente non ricorda nulla, non rappresenta nulla. Parlando della sola Toscana il Giorgini scriveva nel 1861: «Io conosco tradizioni, glorie fiorentine, senesi, pisane; ma non conosco che umiliazioni e miserie toscane!» Il medesimo si potrebbe dire, e forse con più ragione, delle rimanenti parti d'Italia. E, per concludere, è opportuno notare che tutti gli spigolatori di tradizioni unitarie e federali nella storia d'Italia sono, non volendo, caduti in questo abbaglio singolare, che mentre credono indicare le traccie saltuarie e interrotte dell'uno o dell'altro concetto, altro non fanno che enumerare più o meno compiutamente le cagioni grandi o piccine, per le quali nè unità, nè federazione non sono mai state possibili.

Se non che, battuti sul terreno dei fatti, si rifugiano nelle visioni dei pensatori, nei vaticinii dei poeti, o tentano far passare per un principio almeno di unificazione nazionale le ambizioni di qualche principe, che approfittando di contingenze favorevoli voleva ingrandire lo Stato. Quanto alle visioni dei pensatori e ai vaticinii dei poeti, il fatto è vero e giovò certo a tener vivo qualche barlume di sentimento nazionale, se non altro, in qualche ristretto cenacolo letterario, ma ricollocati ognuno nel proprio tempo hanno essi veramente il significato che si suole loro attribuire? o qual maraviglia in ogni caso che ingegni ed animi eletti sorpassino la realtà che li circonda, e si slancino nell'utopia inapplicabile o nelle profezie, che non si verificano? può questo fatto da solo costituire una tradizione storica?

L'unità d'Italia per Dante Alighieri è l'unità dell'Impero restaurato, unità di giurisdizione suprema, non unità di Stato, dalla quale è difficile arguire che il misterioso Veltro, da lui profetato, potesse mai poco o molto rassomigliare prima a Napoleone, poi a Pio IX e finalmente a Vittorio Emanuele o a Garibaldi. Ma Dante è nel suo tempo e va considerato nel suo tempo, anche se il poema divino è, e deve essere per sempre, la bibbia nazionale degli Italiani.

Egli, difatto, ebbe per primo forse vera coscienza d'una nazionalità italiana. L'ebbe, perchè compose, si può dire, l'unità della lingua italiana, perchè mostrò di conoscere l'importanza etnografica e civile della nostra comunanza di linguaggio col verso: «Il bel paese là dove il sì suona», comprendendovi la Sicilia e il Trentino, perchè finalmente la penisola fu da lui descritta ne' suoi precisi confini geografici. Ma fuori di questo, e rifacendoci al suo concetto politico, egli invoca la calata d'un Imperatore, affinchè riconduca la pace, quella pace imperiale, che è quanto dire universale, in cui forse abbozzava un pensiero di fraternità umana. L'ideale suo grande è la pace; sono sempre le discordie politiche, ch'egli flagella, e gli pare che cesserebbero d'imperversare, se l'Imperatore ritornasse alla sua Roma. Quando sospira la venuta di Arrigo VII, Dante sa bene che esso non verrà a fare l'unità italiana. V'ha anzi chi ha persino creduto che

Dante sperasse in detta occasione una confederazione. Non credo. Egli non ha sperato e voluto che la pace, tant'è che non altro consiglia a popoli e principi; e, il solo mezzo di mantenerla, è per lui il riconoscimento dei diritti dell'Impero. Dante afferma bensì la nazionalità italiana, ma non discute l'assetto politico della nazione: per lui Roma è la sede dell'Impero, la monarchia universale è necessaria siccome istituita da Dio per la pace del mondo, senza cui l'uomo non può conseguire il proprio fine e la beatitudine eterna. Oltrediché quella monarchia è per lui la continuazione e il perfezionamento dell'Impero Romano. Così Dante è nelle sue idee e nel suo tempo.

Il medesimo è da faro col Petrarca, che nell'anarchia dei tribuni, dei signori e dei condottieri, fra la quale è condannato ad andare peregrinando tutta la vita, non lascia precisare affatto il suo sistema politico, perchè le sue speranze si fissano ora in Cola di Rienzi, ora nell'Imperatore Carlo IV, ora in Roberto d'Angiò, ora in Luchino e Galeazzo Visconti, e, mancati tutti a un per volta i suoi idoli, finisce esso pure nell'idillico:

Io vo gridando: pace, pace, pace;


il consiglio purtroppo più inutile da dare ai discendenti di Abele e Caino.

Chi può negare che uomini così grandi, rientrando in sè stessi, abbandonandosi alle proprie aspirazioni e speculazioni, non contemplino e non profetizzino ideali di redenzione della patria, superiori a quelli di tutti i loro contemporanei? Ma da questo al collegarli con ciò che è accaduto nel tempo nostro ci corre, e a furia d'interpretazioni arbitrarie ed anacronistiche si rischia di non comprenderli e svisarli del tutto.

Molto più moderno è certamente il Machiavelli, ma anche con lui si oltrepassa, si violenta il senso genuino dei fatti contemporanei, quando si afferma che pur d'ottenere l'unità d'Italia avrebbe magari accettato per re d'Italia Valentino Borgia. Leggete il libro del Villari e vedrete che Valentino Borgia non è pel Machiavelli il personaggio reale, che deve fare l'unità d'Italia, bensì il tipo, che con alcune delle sue qualità personali gli inspira il concetto, che occuperà poi tutta la sua vita e dominerà in tutti i suoi scritti, il concetto cioè d'una scienza di Stato separata e indipendente da ogni considerazione morale. Il Machiavelli fa per tal guisa del Valentino un personaggio ideale, ma del Valentino vero giudica come merita e l'ha per un furfante matricolato, degno figlio di Papa Alessandro, di cui giudica egualmente. Tant'è che della meschina catastrofe del Valentino in Roma, il Machiavelli, che era allora in Roma esso pure, non si dà quasi per inteso. In conclusione, mentre si usciva appena dall'anarchia medioevale, l'unità, a cui egli mira, è quella dello Stato, non quella della nazione. Perciò i suoi delenda Carthago sono il feudalismo, i soldati di ventura, il potere politico delle corporazioni d'arte, il dominio temporale dei papi e la loro ingerenza nello Stato, in cui ravvisa, e con ragione, l'ostacolo insuperabile dell'unificazione dell'Italia. In questo senso, se si vuole, il Machiavelli è profeta, in quanto cioè l'unità organica di uno Stato farà l'unità italiana, e di uno Stato opposto al Papa, libero dalla sua ingerenza, non quello cioè, su cui, come sul regno di Napoli, il Papa esercita giurisdizione feudale e di cui si è sempre valuto per gettarlo fra i piedi a chiunque pur di lontano accennasse ad una impresa italiana.

In seguito, che Eustachio Manfredi alla nascita d'un figlio di Amedeo II di Savoia canti in un sonetto:

Italia, Italia, il tuo soccorso è nato;


che Traiano Boccalini e Alessandro Tassoni scrivano con sentimento patrio contro la tirannide spagnuola, che questo sentimento riecheggi nei versi di Fulvio Testi, del Filicaia e di tanti altri sta benissimo ed è giusto che loro rendiamo la lode e la gratitudine, che meritano. Ma s'hanno a vedere in ciò i prodromi dell'unità italiana compiutasi fra il 1860 e il 1870?

Meno che mai mi pare di scorgerli nelle ambizioni di qualche signore o principe che tentò in Italia slargare la sua signoria o il suo principato. Mastino della Scala corre da Verona sino quasi alle porte di Firenze, ma ivi è fermato dalle forze unite di Firenze e di Venezia, e giuoca in questa impresa tutta la potenza della sua casa. Gian Galeazzo Visconti pare vicino a diventar padrone di quasi tutta Italia, ma se la piglia con Firenze, e una morte repentina sbarazza la gloriosa città di questo terribile nemico; Ladislao di Napoli tenta uguale impresa ed una morte molto opportuna la tronca anche a lui, il che facea dire a quella linguaccia del Machiavelli: «la morte fu sempre più amica ai Fiorentini che niuno altro amico e più potente a salvarli che alcuna loro virtù».

Comunque, finite così, queste imprese non provano nè pro nè contro la tradizione unitaria o federale.

Altro è di Valentino Borgia. Il romanzo francese del Blanquet ha però un bel titolarlo roi d'Italie, ma che vuol egli in sostanza? Egli mira a fondare la dinastia dei Borgia in un regno dell'Italia centrale, e forse a rendere ereditario il papato. Il progetto era grandioso; non dico di no. Era l'ultimo perfezionamento del nepotismo politico pontificio; ma troppo in opposizione colla costituzione stessa del Papato e colle condizioni dell'Italia da poter riescire e non riescì, nonostante l'energia diabolica e la mancanza di scrupoli dei due uomini, il Papa e il Duca Valentino, che cercarono d'attuarlo.

Resta la Casa di Savoia, la cui fortunata ambizione fino ad Emanuele Filiberto, che fissa la capitale a Torino, non si sa da qual lato delle Alpi inclinerà. In appresso è già molto ch'essa possa bilanciarsi con una abilità ed un coraggio singolare fra Francia e Spagna e tra i due contendenti ingrandirsi. L'indizio maggiore dei suoi futuri destini sta nella grandezza dei suoi disegni e dei suoi propositi e, direi quasi, nella sproporzione stessa, che è fra questi e le sue forze e l'estensione del suo territorio. Ma più che tutto sta nell'aver l'armi in mano e nell'adoprarle sempre, nel valor militare e nella stretta unione fra principi e popolo. Affinchè però comincino ad avverarsi per essa i vaticinii dei pensatori, degli uomini di Stato e dei poeti, e gli oroscopi che le predicono:

La tua stirpe dall'Alpi native

Scender deve cogli anni e col Po,


bisognerà aspettare che una coscienza nazionale spenta nei tre secoli di servitù, si sia rifatta in tutto il popolo italiano, e che la meteora napoleonica passi; bisognerà aspettare che dopo essere stato il Piemonte travolto esso pure nella reazione, l'eccesso di questa susciti in Carlo Alberto il misterioso Amleto vendicatore; bisognerà aspettare che la rivoluzione italiana si svolga e che, colle insurrezioni del 1820 e 21 sia decisa irrevocabilmente la rivalità delle due monarchie italiane e risolto in modo definitivo che la direziono della rivoluzione debba esser presa dal nord, anzichè dal sud della penisola.

Allora accadrà questo fatto straordinario che per due volte l'Italia stessa si offre ai Savoia, nel 1831 per bocca di Giuseppe Mazzini, repubblicano unitario, che si dichiara disposto a rinunciare alla repubblica, purchè Carlo Alberto faccia l'unità d'Italia e gli dice: «a questo patto siamo tutti con voi; se no, no;» nel 1856 per bocca di Daniele Manin, repubblicano federale, che, rinunciando alla federazione e alla repubblica, dice a Vittorio Emanuele colle medesime parole: «fate l'unità d'Italia e siamo tutti con voi; se no, no».

Stringo oramai il mio discorso. Nella storia d'Italia, precedente alla Rivoluzione francese, non c'è, non ci può essere tradizione nè unitaria, nè federale. La coscienza stessa della nazione s'era spenta nella servitù, e chi la rifece fu la Rivoluzione francese, precorsa in Italia dal moto filosofico, che agita i pensieri e i sentimenti, soprattutto nell'alta e nella media classe, e, per dir solo della sua aziono più largamente diffusa e sentita, col Parini e l'altra moralità della sua satira ritempra l'uomo, e coll'Alfieri e il fremito di ribellione della sua tragedia, invoca per quest'uomo, da lui già rinnovato in sè stesso, una patria e la libertà. Questi sì, o signore, che sono i veri precursori!

La scossa, che l'Italia riceve dall'invasione francese nel 1796, è sgarbata, violenta e provoca fiere e sanguinose reazioni nelle plebi, ma mercè sua la rivoluzione italiana incomincia, e a traverso mille diverse vicende ora felici, ora infelicissime, non si fermerà più per settantaquattro anni sino al suo pieno trionfo.

Dopo le meravigliose vittorie del Bonaparte, se muovendo dai congressi di Modena e Reggio del 1796 per la federazione Cispadana, voi passate ai Parlamenti della Cisalpina e alla Costituente di Lione, da cui esce per la prima volta dopo tanti secoli uno Stato di nome italiano «è una continua ascensione (dicono gli editori degli atti della Cispadana) verso l'ideale della patria unita». Se non che pei repubblicani francesi l'Italia non è se non una conquista da sfruttare, e allora il contrasto (è una bella e profonda considerazione di Augusto Franchetti) il contrasto fra le promesse di redenzione universale della filosofia e le opere ladre degli invasori, fra la proclamazione dei diritti dell'uomo e l'applicazione, che i francesi ne fanno in Italia, forma per la prima volta in Italia un'opinione, che si fa strada prima negli animi più eletti, poi nei vari ordini della cittadinanza, che cioè non bisogna più vagellar sempre dietro a concetti universali, come già la Chiesa e l'Impero ed ora la repubblica democratica, ai quali la storia degli Italiani fu un continuo olocausto, bensì pensare finalmente ad avere anche noi una patria unita e indipendente dallo straniero.

La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte I

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