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AUTORI E ATTORI DRAMMATICI
II

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Il Manzoni, da vecchio, diceva a Vittorio Bersezio che la forma drammatica antica era finita; il pensiero nuovo l'aveva trovata troppo angusta e l'aveva fatta scoppiare; non ve n'erano ormai più che i frantumi, che invano alcuni tentavano di raccozzare insieme per dar loro apparenza di cosa consistente: la forma nuova, intanto, quella che doveva corrispondere ai bisogni nuovi, non c'era stato ancora barba d'uomo a trovarla. Per conto suo, sperando che i tentativi irrequieti precedessero forse di lontano l'ignoto riformatore che ammirerebbero i figli o i nepoti, si compiaceva solo della commedia dialettale. Infatti, quando Le miserie 'd monssú Travet, da Torino, dove prima comparvero nel marzo 1863, passarono a Milano, egli, che da trent'anni non aveva messo piede in un teatro, andò a sentire e applaudire. Il pubblico, a vederlo, applaudì lui, ed egli, finchè potè, battè le mani sforzandosi a credere e a far credere agli altri che il Bersezio solo era il festeggiato così.

Fatto sta che la tragedia classica, colpita nel cuore dal Romanticismo, morì; e una caratteristica dell'età di cui vi discorro è appunto nel suo scomparire, nell'affievolirsi della commedia goldoniana, nel trasformarsi insomma del repertorio.

Fin dagli ultimi del secolo XVIII si erano alternate sul palcoscenico molte più forme e varietà di spettacoli che non abbiamo oggi. A scorrere i diarii teatrali di quel secolo declinante e del XIX sorgente, è impossibile non meravigliarsi della sovrabbondanza. La tragedia classica con le unità di tempo e di luogo era la forma officiale; ma accanto le sorgeva vigorosa la tragedia di argomento moderno, che chiamavano urbana, e che non di rado già delle unità non si curava; e all'una e all'altra toglieva un po' di favore la concorrenza del dramma storico e romanzesco, macchinoso, farraginoso, commisto di riso e di pianto. Del pari la commedia ridanciana con le maschere e senza le maschere, durava ancora, mentre la commedia sentimentale faceva spargere tante dolci lacrime. E vi erano inoltre allegorie e fiabe; e perfino libretti di melodramma recitati senza la musica. Più, le così dette commedie dell'arte, e le caricature regionali impersonate in Stenterello, Pulcinella, Arlecchino, Brighella, Pantalone, Cassandrino, Rogantino, e altre sì fatte argute o scurrili figure.

Venne la questione tra Classicisti e Romantici: e quella che era stata una confusa e polverosa baruffa di avventurieri si mutò in un'ordinata battaglia di belle e ben capitanate milizie. Dopo gli esempii del Goethe e dello Schiller, ebbe allora l'Italia col Manzoni il dramma storico meditato e dotto, senza le regole accademiche, sebbene quasi imbevuto di classicità, innanzi che la Francia prepotesse e in un certo senso snaturasse il romanticismo nel teatro: ma la Francia, comunque sia, non tardò ad esportare e a diffondere anche fra noi quelle sue nuove merci teatrali. Vani erano riusciti da un lato i tentativi del De Cristoforis e del Tedaldi Fores per mantenersi più o meno nella strada aperta dal Manzoni; vani anche, dall'altro, quelli di Giovan Battista Niccolini, d'iniziare lui una scuola che fosse possente di effetti lirici e drammatici insieme, con viva e diretta azione patriottica. Questa, non è dubbio, egli ottenne; ma l'Arnaldo da Brescia che nel 1843 suggellò l'arte sua, stampato a Marsiglia, non potè venire in Toscana che di nascosto, dentro alcune botti da caffè; e anche quando fu letto liberamente, non potè salire sul palcoscenico, perchè poema in dialogo anzi che dramma.

Molti tra voi rammentano, certo, il vivace racconto che Ferdinando Martini fece del suo arresto e della partaccia che a lui sedicenne toccò dal prefetto granducale, quando, nel luglio del '58, in una dimostrazione sorta nel Teatro Nuovo dopo una recita della Medea, sentendo crescere gli applausi da – Viva Niccolini! a – Viva il poeta italiano! – Viva la gloria d'Italia! – Viva l'Italia! – gridò per conto suo – Viva l'autore dell'Arnaldo! – ch'ei non sapeva, del resto, che cosa si fosse. Questi stessi evviva palesano la principale ragione di certi entusiasmi suscitati dal Niccolini; ed è indubitabile che egli nè iniziò nè poteva lasciare una scuola, sebbene alcune delle sue tragedie, come la Medea, l'Antonio Foscarini, il Giovanni da Procida, durassero a lungo sulle scene. Dopo il 1849 ormai il vecchio poeta viveva appartato, più studiando le storie che fantasticando poesia: ma sempre fisso col pensiero alla redenzione della patria, le dette nel 1858 ancora una tragedia, Mario e i Cimbri, di cui dicono l'intento così il tema come l'epigrafe petrarchesca apposta sul frontespizio: «Ben provvide natura al nostro stato – Quando dell'Alpi schermo – Pose tra noi e la tedesca rabbia.» A Tommaso Salvini, unico interprete degno, ne affidava la rappresentazione.

Premii condegni non gli mancarono. La sera del 3 febbraio 1860, il teatro di via del Cocomero fu solennemente consacrato al nome di lui, recitandovi Ernesto e Cesare Rossi la grande scena dell'Arnaldo da Brescia tra il frate e papa Adriano, e il monologo di Arnaldo nell'ultimo atto. E mosse il Niccolini indi a poco a salutare tra noi il re possente che egli aveva invocato trent'anni prima, Vittorio Emanuele: e lieto così della mèsse di cui egli medesimo aveva cooperato a gettare il seme, morì nel 1861, il 20 settembre. Di un fulgido sorriso si sarebbe illuminato il volto al poeta dell'Arnaldo, se l'Angelo della morte gli avesse negli estremi momenti sussurrata all'orecchio la profezia, che essa data del 20 settembre sarebbe di lì a pochi anni divenuta sacra all'Italia per la liberazione di quella Roma dove era stato perseguitato ed arso il suo magnanimo Arnaldo.

Nel 1847 era morto Carlo Marenco, che, dopo l'Arnaldo del Niccolini, aveva osato dare in luce quello suo, sebbene non meglio adatto alle scene. Più degno di nota egli è per alcuni esperimenti di conciliare, seguendo in parte gli esempii del Delavigne, il classico col romantico. Prima la Carlotta Marchionni, che nel '37 incarnò in sè la Pia de' Tolomei, poi Adelaide Ristori, fecero applaudire questo che fu il più popolare de' lavori suoi, e che si rannoda in un certo modo alla popolarissima Francesca di Silvio Pellico, durata dal 1815 a commuovere con le lagrime sue e col disperato amore di Paolo.

E fin dal 1839 era uscito il Lorenzino de' Medici di Giuseppe Revere, dramma storico in prosa; che, afferrato dalle larghe e destre mani del Dumas, e imitato da lui, fu tradotto in italiano dal francese, e piacque allora a molti che dell'originale non sapevano o non si curavano. Dramma storico in prosa è anche il Fornaretto di Francesco Dall'Ongaro, che dal 1844 faceva fremere e inorridire, specialmente per l'arte di Gustavo Modena, sulle sorti pietose di quella vittima d'un errore giudiziario. Se non che nel Revere e nel Dall'Ongaro e, abbiamo visto, nel Marenco, un po' di infiltrazione francese non è difficile avvertire; e convien rammentare che il Moro di Venezia del De Vigny, e Marin Faliero del Delavigne sono del 1829; del '30 è l'Hernani di Victor Hugo; del '32 il Luigi XI del Delavigne; del '34 il Lorenzaccio del De Musset; del '35 il Chatterton del De Vigny; letti, tradotti, ammirati, rappresentati, discussi, via via, anche in Italia.

Ciò per la tragedia e pel dramma. La commedia, dopo le risate di buona lega suscitate sui primi del secolo dal Giraud con L'Aio nell'imbarazzo, con Don Desiderio disperato per eccesso di buon cuore, con L'apparecchio del pranzo alla fiera ossia Don Desiderio direttore del Pique Nique, e dopo i sorrisi annacquati delle commedie un po' pedantesche del Nota, si può dire non avesse altro, nella tradizione goldoniana, che i lavori di Francesco Augusto Bon. Non ridiamo noi ancora, e come di cuore, a Ludro e la sua gran giornata? Ma dopo la trilogia di Ludro e altre vispe commedie, il fortunato attore si volle provare malamente nientemeno che al dramma storico; e indispettito della gelida accoglienza fatta dai Milanesi al suo Pietro Paolo Rubens, non scrisse più, invecchiando nel dirigere compagnie di comici, e, da ultimo, di filodrammatici.

Ed ecco in Francia nel 1840 Il bicchier d'acqua dello Scribe e nel '45 la sua Catena; nel '48 l'Avventuriera dell'Augier, e l'anno dopo la sua Gabriella; nel '52 la Signora delle camelie del Dumas figlio; nel '54 Il genero del signor Poirier dell'Augier; nel '55 il Demi-monde del Dumas; nel '61 I nostri intimi del Sardou; e Il cappello di paglia d'Italia del Labiche è del '51. Le quali date mi era necessario rammentarvi perchè, trattandosi di drammi e commedie rimaste sino ad oggi, o sino a poco fa, nel repertorio de' nostri teatri, bastano di per sè sole a chiarire quanta e quale fu la invasione francese nelle scene italiane poco innanzi il 1848-49, e poi sempre più, sino a ciò che vediamo noi.

Io non sono di quelli che per l'arte s'indignano, subito che alcun che ci venga da oltre le Alpi: tanto meglio per tutti quando ce ne venga del buono: noi già demmo, un tempo, assai agli altri, e gli altri ora dieno pure a noi, in uno scambio inevitabile e proficuo. Ma vero si è che nocque allora allo svolgimento dell'arte tra noi la soverchia voga conseguìta dal teatro francese: i fiori che davano speranza del frutto non allegarono e caddero appassiti o imbozzacchirono. Fino allora si era, meglio o peggio, conservata in onore la tragedia; oltre la Pia del Marenco e la Francesca del Pellico, anche il Filippo, il Saul, la Mirra, varie altre tragedie dell'Alfieri e di altri rialzavano all'alta poesia, quasi per turno settimanale, il gusto del pubblico. E si era conservata in onore, meglio o peggio, la commedia goldoniana: si applaudivano molto più spesso che oggi non accada I Rusteghi, Le Baruffe, Don Marzio, Il Bugiardo, del maestro, e Don Desiderio, La Fiera, I gelosi fortunati, Ludro, Niente di male, parecchi altri lavori, dei discepoli suoi. Che si rappresentassero insieme gli enormi drammi romanzeschi e spettacolosi, triste eredità del Willi, dell'Avelloni, del Federici, cresciuta di raffazzonamenti dal tedesco e dal Francese, non era insomma un male diffuso e che degenerasse in pustole maligne; e tutti sentivano la differenza sostanziale, quanto all'arte, tra la commozione estetica e la perturbazione nervosa: conseguìta quella, la commozione che nobilita, con l'analisi delle passioni e con la parola corretta e sobria, anche nella ricerca dell'efficacia teatrale; conseguìta questa, la perturbazione che abbassa, con l'azione violenta e con l'enfasi spesso sgrammaticata in caccia dell'applauso. Dopo il 1848-49 si ebbe il tracollo della bilancia: restarono i drammi sanguinosi o pietosi come I due sergenti; piovvero e dilagarono i drammi romanzeschi della nuova imitazione francese.

Ernesto Rossi nel 1850, a Trieste, corse rischio di esser fucilato davvero dai Croati che dovevano fucilarlo per chiasso nel finale del Generale Ramorino; buon per lui che, innanzi di andare a morte, volle si riscontrassero le cartucce! Ma se questo fu uno spettacolo d'occasione, Il vetturale del Moncenisio fu dato a Milano, in quel torno di tempo, ventiquattro sere di seguito. E allora un capitano dei bersaglieri a Torino, Andrea Codebò, mosse le baionette aguzze del suo rapido ingegno, contro I drammi francesi, in una parodia che appunto così da loro ebbe il titolo. Luogo dell'azione (narra il Costetti che bene tratteggiò la figura di lui e di altri scrittori e attori di quel tempo) un camposanto; quivi, in un solo atto, duelli, delirii, riconoscimenti, suicidii: figuratevi che un tale riconosce chi sia un colonnello che egli sta per uccidere, e gli grida: – Ah, tu sei dunque il figlio del carnefice di mio padre! – Grande fu il successo di codesta satira; ma, come era naturale, non valse contro la moda.

Del resto, col male venne il bene; coi drammacci vennero di Francia buone e belle commedie. Era il 1857; e La vecchia pazza alla Torre del Sangue, La tremenda sfida dei cavalieri della morte al Colle del Terrore, e consimili robe che un capocomico disperato imbandiva al popolino bolognese nell'Arena del Sole, doverono da lui medesimo esser messi da parte (copio anche questo dal Costetti) per dare al pubblico, in un teatro, di gente pulita, come egli diceva, una commedia di Dumas figlio che salvò lui e i suoi dalla fame. Senza estendere l'osservazione di un caso singolo a legge generale, può servire esso caso a indizio di ciò che allora accadeva: lo Scribe, l'Augier, il Dumas, con l'arte abilissima di tutt'e tre, moralmente eletta nel secondo, acutamente filosofica nel terzo, relegavano ne' teatri di terzo e di quart'ordine le reliquie di un teatro spettacoloso che risaliva a' primi del secolo XIX, e conquistavano i teatri migliori pel nuovo repertorio francese, cacciandone via la tragedia classica, ormai anch'essa decrepita, e la tragedia neoclassica e romantica che pur avrebbero potuto, con qualche accorgimento, restarvi utilmente.

Guglielmo Shakespeare, per opera di Ernesto Rossi, della Ristori, del Salvini, ottenne finalmente udienza e favore; ma fornì piuttosto pietre di paragone al raffronto di un artista con l'altro, che fiamma viva a infiammare, come era degno, le fantasie.

La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte III

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