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LORENZO IL MAGNIFICO
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ERNESTO MASI
Vi ricordate della tragedia di Vittorio Alfieri intitolata: La Congiura de' Pazzi? Come opera d'arte non è gran che, lasciando stare anche l'alterazione quasi grottesca dei fatti storici, dei caratteri e persino dei nomi dei personaggi. Ma non si tratta ora di ciò. Voglio notare soltanto un fenomeno singolare, che parmi accaduto all'Alfieri nel trattar questo tema, ed è che mentre ha senza dubbio voluto travestire in Lorenzo e Giuliano de' Medici due de' suoi soliti Egisti e Creonti, due de' suoi soliti tiranni, messi là a ricevere in pieno petto le contumelie del prim'uomo e della prima donna, non solo il carattere di Lorenzo gli è, suo malgrado, riuscito il più simpatico della tragedia, ma all'ultimo non sa più egli stesso, l'Alfieri, da che lato pende il torto maggiore; i motivi della sanguinosa catastrofe, da prima apparsigli così chiari e lampanti, si direbbe che gli si oscurano tutto ad un tratto; e per conclusione finale mette in bocca a Lorenzo queste ambigue parole:
… E avverar sol può il tempo
Me non tiranno e traditor costoro!
Sembra accorgersi tardi che il tentativo di raccogliere tutta la pietà tragica sui Pazzi, anzichè sui Medici, è un grosso errore, tanto sotto l'aspetto della storia, quanto sotto quello dell'arte, com'ebbe poi a scrivergli con gran franchezza Melchiore Cesarotti, e si ferma lì come in dubbio, e in questo dubbio lascia gli ascoltatori ed i lettori della sua tragedia. La quale ritengo, avrebb'egli concepita in modo tutto diverso, se, in cambio d'averla scritta fra il 1779 e l'80, l'avesse scritta un dieci o dodici anni più tardi, quando, scoppiata la rivoluzione francese, la prospettiva della tirannide gli si era, per così dire, rovesciata e gli pareva molto più intollerabile quella che viene dal basso, anzichè quella che viene dall'alto, la tirannide dei molti, anzichè quella d'un solo.
Se non che il fenomeno accaduto all'Alfieri mi sembra essersi rinnovato in molti altri dei più sfidati avversari di Lorenzo il Magnifico, dai contemporanei fino ai giorni nostri. Molti altri accatastano fatti su fatti e poi s'accorgono con loro stupore che i più tornano a gloria di Lorenzo, e allora non possono tenersi dal mescolare le lodi ai biasimi, o per lo meno dallo scindere l'unità di questa grande e complessa figura storica del secolo XV in modo, da farne uscire due, tre, quattro anzi, come propone il Perrens, uomini diversi, contenuti in un solo, e così poterne lodare uno o due e biasimare i rimanenti; a molti altri è accaduto di fermarsi all'ultimo, al pari dell'Alfieri, dubbiosi, esitanti, come dinanzi ad un problema psicologico di troppo difficile soluzione.
A Lorenzo de' Medici è toccata del resto una singolare fortuna, ed è quella d'aver sempre appassionato pro o contro gli scrittori, che hanno trattato di lui, dai contemporanei fino agli odierni, come se in cambio d'aver vissuto dal 1449 al 1492 egli fosse nato, vissuto o morto pochi anni fa, come se in cambio d'un uomo del secolo XV si trattasse, ad esempio, d'un Napoleone I, gli effetti della cui gloria e dei cui disastri sono forse sensibili anche oggi nella vita europea. Eppure quei signori e principi della prima e seconda stirpe Medicea sono ben morti e sepolti! Nulla ci parla più di loro. Gli stessi edifici e monumenti d'arte, che hanno lasciato, ci ricordano ancora il nome e l'opera dell'artista, che gli ha ideati e compiuti, ma il nome del signore o del principe, che gli ha commessi, appena qualche erudito lo sa con precisione e al visitatore indigeno o forestiero poco importa oramai che si tratti dei primi o secondi Cosimi, Giuliani e Lorenzi, che si tratti dei Medici insidiatori della libertà fiorentina o dei Medici Granduchi, i quali alle loro vecchie dimore non hanno lasciato di proprio neppure il nome. A qualche scrutatore indiscreto alcuna traccia dei tempi Medicei parrà forse di scernere ancora nel temperamento e in certe disposizioni morali del popolo fiorentino (lo dico a lode, badiamo, non a biasimo di certo) ma nulla più. Chi ne dubitasse entri, qui prossimo, a San Lorenzo, in quelle sepolture Medicee. Che gelo, che tanfo di morte preistorica in quel buio della vecchia e nuova sagrestia, ma qui almeno danno lume e calore il genio di Andrea del Verrocchio e quello tra satirico e malinconico di Michelangelo! Peggio tra la sfarzosa e teatrale ricchezza del sepolcreto granducale! Qui nessun compenso possibile: la storia dice poco; l'arte non dice niente; il freddo dei marmi vi assidera, vi penetra crudelmente nell'ossa e nell'anima, e si sente il bisogno d'uscire più che di fretta, non già per odio a quei sepolti tiranni, che coi loro manti e le loro corone arieggiano innocui re da melodramma, ma per la prosaica paura d'un raffreddore.
Ora dunque perchè, tra questi morti e così ben morti, quelli della prima stirpe Medicea appassionano gli scrittori più di quelli della seconda, e perchè tra quelli della prima Lorenzo più degli altri ha il privilegio di eccitare anche oggi odii ed amori così tenaci?
Finchè in Italia i libri di storia furono per metà di politica, voi sapete quanto si sfruttarono l'assedio e la caduta di Firenze nel 1530 e quell'accordo del Papa coll'Imperatore, che fu la cagione immediata di tale catastrofe. Era la conclusione ultima di tutto il gran dramma, non della libertà fiorentina soltanto, ma della libertà italiana, e poichè quel Papa era un Medici ed un Medici il primo Duca di Firenze, non altro si volle vedere in tuttociò che la continuazione d'un antico disegno d'ambizione, che finalmente s'effettuava coll'aiuto dello straniero, ed i più rei parvero i primi autori di quella lunga e perseverante insidia, ed il peggiore di tutti, quegli in cui più splendidamente s'incarnarono la tradizione e il genio di tutta la stirpe. Divenne così una specie di obbligo pel liberalismo italiano non far grazia ai Medici e soprattutti a Lorenzo. Non parliamo dei contemporanei o dei quasi contemporanei. L'odio o l'amor loro troppo facilmente si spiega. Non parliamo neppure degli scrittori toscani dell'epoca granducale, medicea e lorenese. La lode o il silenzio in bocca loro sono troppo sospetti. Ma quando colla storia filosofica e Volteriana del secolo XVIII si cominciò ad opporre al Medio Evo credente e devoto il Rinascimento scettico e razionalista, eccoti, fra gli stranieri massimamente, fra gli indifferenti cioè alle nostre passioni politiche, eccoti il panegirico dei Medici e di Lorenzo in particolare, che tocca il colmo e, direi, passa il segno, nel famoso libro del Roscoe, ed eccoti di riscontro il Sismondi, scrittore di gran merito, ma uno dei santi padri, uno dei rappresentanti internazionali di quel dottrinarismo liberale e borghese, che ha nelle instituzioni repubblicane la panacea di tutti i mali, e quindi non perdona ai distruttori di repubbliche ed ai loro encomiatori. Non badò il Sismondi che nella vita di Lorenzo il Roscoe a dipinger l'uomo s'era attenuto al Valori, un coetaneo di Lorenzo, che a narrar la storia avea seguito il Machiavelli, che i documenti originali gliegli avea apprestati il Fabroni, che a penetrar nella storia letteraria lo aveano aiutato il Bandini, il Tiraboschi, autorità tutte di non poco valore; non si ricordò neppure ch'egli stesso avea tanto esaltato i Medici e Lorenzo nella sua storia letteraria dell'Europa meridionale, quanto li deprimeva nella sua storia delle Repubbliche Italiane; non badò a nulla, non volle curarsi di nulla; non altro gli stette a cuore che contrapporre al panegirico la diatriba e spinta al segno da non sdegnare esso, onest'uomo come era, di lodare quali azioni eroiche persino la dissimulazione dei Pazzi, che convitano Lorenzo e Giuliano de' Medici in casa loro a fine d'ammazzarli, persino il tasteggiare che fanno il giovane Giuliano, fingendo abbracciarlo amicamente, per assicurarsi se ha o no il giaco sotto la veste, quando lo inducono a entrar nel duomo e lo uccidono.
È sommamente istruttiva la polemica, che ne seguì fra il Roscoe e il Sismondi, la quale andò tant'oltre che il Sismondi stesso finì per dire: “smettiamola, signor Roscoe, altrimenti si riderà di noi che ci contendiamo un tiranno del secolo XV coll'accanimento medesimo, che due rivali si contenderebbero il cuore d'una bella donna. E poi di che ci scaldiamo tanto, noi, stranieri all'Italia tutti e due?„
Nè cadde a vuoto, sapete, quest'ultima parola, da cui s'arguirebbe esservi sui Medici e su Lorenzo in particolare la possibilità di due giudizi diversi, uno per gli Italiani, un altro per gli stranieri, perocchè questo è appunto lo scrupolo, che ha trattenuto il coscienzioso Burckhardt, nella sua classica opera sul Rinascimento in Italia, dal giudicare Lorenzo come uomo di Stato e dal decidere qual parte spetti agli uomini e quale sia superiore al loro stesso buono o mal volere (il vero problema di questa storia) nei destini di Firenze; scrupolo veramente eccessivo e che non trattenne per buona sorte il Reumont, il Buser, il Leo, il Thomas, il Perrens e tanti altri valentuomini stranieri dal fare della storia Medicea anche politica e di Lorenzo come uomo di Stato il soggetto delle loro ricerche, e dei loro studi.
Quanto agli Italiani, finchè durò il periodo della preparazione e degli esperimenti infelici della nostra rivoluzione e sino a poco dopo il 1859, si tennero più o meno a modello il Sismondi, pur evitandone le enormi esagerazioni, nel giudicare dei Medici e di Lorenzo, ma poi spesso l'argomento fece forza da sè al preconcetto politico, ed o si fermarono, ripeto, incerti e dubbiosi, a mezza spada, o il giudizio, da prima severissimo, si venne via via temperando, più si approfondivano le ricerche, come potete vedere in Gino Capponi, che nel 1842, quando si cospirava anche coll'Archivio Storico (una delle più nobili arme affilate nel gabinetto di Giampietro Vieusseux), ha parole di fuoco contro i Medici, e nel 1875, quando pubblicò la sua Storia della Repubblica di Firenze, ne parla con tanta maggiore serenità e obbiettività scientifica; come potete vedere in Pasquale Villari, che nel suo Savonarola, il libro caldo ancora di inspirazione giovanile e di passionata eloquenza, e assai prossimo al Sismondi, e nel suo Machiavelli, lo studio severo della sapiente virilità, se non ha dismessi tutti gli antichi corrucci, tuttavia tempera o per lo meno slarga il suo giudizio, che in questo caso val quanto di necessità temperarlo. Più notevole è il caso del Carducci, che in quei suoi primi saggi bellissimi sulle poesie di Lorenzo de' Medici e del Poliziano, ora la sua natura d'artista lo attrae irresistibilmente verso Lorenzo, natura d'artista esso pure, come dice il Capponi, anima di principe, ultima grandezza d'un'età splendida, che finiva, ora lo spirito rivoluzionario lo trattiene, lo tira indietro, gli strappa accenti di collera, troncati a mezzo però da una ripugnanza anche maggiore, la ripugnanza alla reazione del Savonarola, che tenta gettare la sua tonaca di frate su tutta quella radiosa giovinezza di Rinascimento artistico e letterario.
Intanto le ricerche e gli studi sull'età Medicea e su Lorenzo continuano indefessi; si ampliano e si integrano i documenti raccolti dal benemerito Fabroni; al togato Guicciardini della Storia d'Italia succede il Guicciardini della Storia Fiorentina, dei Ricordi e di quel capolavoro del pensiero politico italiano, che è il Dialogo sul Reggimento di Firenze; abbiamo cioè l'espressione viva e immediata di un quasi contemporaneo, che è insieme una gran mente d'uomo di Stato, e tuttociò ci frutta fra il 1874 e 75 l'opera capitale su Lorenzo dei Medici di Alfredo di Reumont ed il giudizio pieno e definitivo di Gino Capponi. Si direbbe che il processo è chiuso, che la sentenza ultima è pronunciata; che, com'è per lo più di tutte le sentenze della storia, Lorenzo ne esce nè del tutto assolto, nè condannato del tutto. Oibò! La buona fortuna del Sismondi non è finita. Esso rivive con tutte le sue collere e i suoi anatemi nel Perrens, che sotto gli occhi nostri, nel 1888, e valendosi anzi di tutto il lavoro critico avvenuto dal Sismondi in poi (giacchè, bisogna dirlo, il Perrens è anzi, per straniero e francese che parla d'Italia, mirabilmente informato), riapre il processo e non una parte di Lorenzo si salva; l'uomo, il padre, il marito, il cittadino, il signore, lo statista, il mecenate, il letterato, tutto, tutto è oscurato e ravvolto in una stessa condanna. È una demolizione compiuta. Del tempio e della statua non resta in piedi neppure una pietruzza, che dica al passeggiero: qui fu Lorenzo de' Medici; tantochè all'ultimo lo stesso Perrens si ferma col martello in mano e quasi spaventato dell'opera sua; si sente preso anch'esso da quel dubbio, da quell'incertezza, che, come dicevo, assale dall'Alfieri in giù tutti i più sfidati avversari di Lorenzo; ma è supremamente comica la forma che piglia questo tardivo rimorso nel Perrens, il quale si rivolta contro il suo maestro ed autore, contro il Sismondi, e quasi lo apostrofa dicendo: “via, è troppo! Un po' di discrezione, s'il vous plaît. Non è poi certissimo che quei vostri cari Albizzi fossero proprio campioni di libertà e di democrazia in confronto dei Medici e, quanto a Lorenzo, conveniamo che, se non fu veramente l'ago della bilancia nella politica italiana del suo tempo, come pretendono i suoi adulatori, qualche cosa ha pur fatto per mantenere la pace, almeno dalla guerra di Sarzana fino alla sua morte, dal 1487 al 1492. È pochino! Sono cinque annetti soli! Ma questo almeno si conceda per dimostrare, se non altro, la nostra imparzialità!„
Voi vedete, o signore, fra che odii e che amori, fra che assoluzioni e condanne, fra che spinaio di giudizi diversi sarebbe costretto a ravvolgersi chi avesse oggi da narrare a fondo la storia di Lorenzo il Magnifico, della sua vita e del suo tempo. E se ho dovuto indugiarmi tanto, solo per accennare le difficoltà del mio tema, mi conforta il pensiero che accennare tali difficoltà è già esso stesso un illustrarlo, e che, parlando ad un pubblico così culto e in massima parte fiorentino, m'è lecito presupporre l'argomento noto almeno nelle sue linee storiche principali e non tenermi obbligato a ridir tutto per filo e per segno, che già sarebbe chieder troppo all'industria del conferenziere e alla sofferenza del pubblico.
A giudicare dei Medici e di Lorenzo con quell'imparzialità almeno relativa, a cui gli uomini possono aspirare, mi pare del resto che la nostra generazione dovrebbe oramai essere meglio disposta delle precedenti, la nostra generazione, che in fatto di politica è passata a traverso tante bonacce e burrasche di promettenti primavere, di malinconici autunni e di inverni spietati. Essa dovrebbe sentirsi, dico, meglio disposta a non farsi guidare nel giudizio di un passato remoto, che si tratta di conoscer bene, ma non muta più, da idoleggiamenti rettorici di forme di governo, qualunque esse siano, o da preoccupazioni politiche, che mutano ogni giorno.
La storia indifferente al bene od al male perde non solo ogni efficacia morale, ma ancora ogni calore e vivezza di rappresentazione. Ma altro è una gelida indifferenza al bene od al male, altro è gettarsi a capo chino fra le lotte d'un'età tanto lontana da noi e sposarne gli odii, gli amori, come se fossero i nostri, e aggregarsi a una fazione contro dell'altra. Si moltiplicano per tal guisa deliberatamente le occasioni e le cause d'errori infiniti, giacchè, per quanto ci sia dato penetrare a dentro nella storia con le ricerche, gli studi e attingendo, finchè si può, dalle fonti originali delle memorie e dei documenti contemporanei, resta pur sempre un qualche cosa, che nessuna ricerca può far rivivere, che nessuno studio può rimetterci dianzi agli occhi, che nessun documento può dirci, ed è forse appunto in quell'inafferrabile qualche cosa, che giace riposta la spiegazione vera di un fatto o d'un uomo, la ragione ultima d'assolvere o di condannare. Di ciò si ha un segno evidente in quella specie di sforzo che occorre, in quella specie di disagio morale e qualche volta, direi quasi, anche fisico, che si prova a volersi addietrare col pensiero nella vita di generazioni già lontane da noi. Ce ne vuole per assuefare non soltanto l'animo a sentimenti e passioni, che non si provano più, ma la fantasia e gli occhi ad abitudini, a costumi, a fogge, ad arredi, a vestiari, che non sono più i nostri, a compiacersi di divertimenti, che oggi ci parrebbero torture, a persuadersi del buon gusto di un pranzo, che oggi ci rovescierebbe lo stomaco, a ridire d'una burla o d'un motto, che oggi ci suona come una freddura senza sugo, e via dicendo. Quello sforzo e quella specie di disagio scemano in noi più ci si affina il gusto della storia, e si convertono anzi in una misteriosa delizia, che può divenire persino passione e mania. Ma dimostrano insieme (e ciò dico in particolare a proposito dei Medici e di Lorenzo) la necessità che lo studio della storia rimanga, più che possibile, obbiettivo, la necessità di non spostare nè uomini, nè fatti, di sceverare il generale dal particolare, di non dar troppo all'ambiente, come oggi s'usa dire, per togliere all'uomo, nè attribuire a questo, per quanta azione abbia avuto sul tempo suo, ciò che è dell'ambiente, in cui quell'uomo ha vissuto, di sentenziare di preferenza dagli effetti palesi dell'opera sua, che sono ben noti, anzichè dai movimenti individuali e interiori, dei quali nessuno può più dirci intiero il segreto, di non prolungare finalmente al di là di certi limiti quegli effetti medesimi per incolparlo anche di ciò che risulta da tutti altri uomini e da tutt'altre condizioni di tempi, scordandoci a suo danno quello che l'esperienza ci dimostra ogni giorno, cioè che l'uomo è appena padrone del minuto che passa.
Ora se v'ha personaggi storici pei quali queste cautele siano state più trascurate, direi che sono i Medici per l'appunto. E si capisco facilmente il perchè. Non parliamo dei Medici, dal 1531 Duchi e Granduchi. Ma per quelli della prima linea, a non dir che di loro, per Cosimo il Vecchio, Piero il Gottoso, Lorenzo il Magnifico, furono tanto più facilmente trascurate quelle cautele, perchè essi appassionano, come già dissi, più di tant'altri personaggi storici, gli scrittori, e gli appassionano tanto più, perchè non sono semplici capi ereditari d'una dinastia, d'una città, d'un regno, ma, oltre alla singolarissima forma del potere che esercitano, sono, se non gli autori, gli attori più in vista, pel loro grado, per le loro tradizioni, per le loro aderenze, pel loro genio e le loro inclinazioni personali, di tutto un nuovo e gran moto di civiltà, comprendente non solo le forme di governo, le arti, le scienze, le lettere, ma i pensieri, i sentimenti, la religione, la morale, i costumi, le usanze, tutta nel suo complesso la vita pubblica e privata; ond'è che in essi si studia non il signore soltanto, ma l'uomo nelle sue relazioni cogli uguali e cogli inferiori, l'uomo nella vita quotidiana, in casa, in villa, per le vie, tra gli spettacoli carnevaleschi, fra le dispute dell'accademia, nel banco commerciale, nel museo, nella biblioteca, fra gli amici che predilige, fra le donne che ama, fra le pareti del suo palazzo, alle corti estere, dove, benchè semplice cittadino nella sua città, comparisce da principe; e lo si studia appunto fra tanta gente e in tanti luoghi diversi, perchè questa moltiplicità e varietà di gusti, di attitudini, di attività è carattere generale del tempo, ma principalmente carattere dei grandi uomini italiani, e fra gli Italiani dei Fiorentini, e fra i Fiorentini dei Medici, e fra i Medici di Lorenzo il Magnifico.
Se le signorie dei secoli XIV e XV (che bisogna ben badare a non confondere in Firenze ed altrove coi Principati) fossero un fatto verificatosi in Firenze soltanto e per opera soltanto dei Medici, i quali con arti subdole, con lunga e tenace insidia avessero a poco a poco soffocata la vita del più torbido sì, ma del più glorioso Comune italiano del Medio Evo, mentre all'intorno avessero prosperato ancora gli altri Comuni, assodando la loro libertà e slargando la loro giurisdizione territoriale, non vi sarebbe, a dir vero, vituperio bastante a castigare un simile parricidio. Ma non è così! Nel secolo XV la declinazione della cosidetta libertà comunale, che è la prevalenza feudalesca di una città sul territorio che la circonda, e la sua mutazione in signoria, che è la prevalenza d'un capo partito, o di un capo militare, o di un vicario imperiale o di una potente famiglia sui partiti, che si contendono il primato nella città dominante, è un fatto universale in tutta Italia. In Firenze anzi, come fu più tardivo a sorgere il libero Comune, così è più tarda a sorgere la signoria. Nell'Italia superiore invece, dove il feudo s'insediò più vigoroso, questa trasformazione non aspetta il secolo XV. Nei due secoli antecedenti si compie e trascende già a principato vero coi Torriani e Visconti a Milano, coi Da Romano nella Marca Trevisana, cogli Scaligeri a Verona, coi Pelavicino a Piacenza e, più prossime a Firenze, di qua e di là dell'Appennino, le signorie pullulano e si frazionano all'infinito, più grandi, più piccole, or vigorose, ora deboli, ora divorate dalle maggiori, ora dilaniantisi in sè stesse fra odii sanguinosi di famiglie rivali. In Toscana stessa, ove le resistenze sono più forti, avete le signorie militari e transitorie, i tentativi sfortunati di Uguccione della Fagiuola e di Castruccio degli Antelminelli. In Firenze stessa, tralasciando le signorie Angioine, le quali si potrebbero dire delegazioni di poteri pubblici ad un fine determinato, tralasciando pure l'episodio di Gualtieri di Brienne, Duca d'Atene, la cui tirannia mette a repentaglio estremo le libertà popolari, avete tentativi interni, i quali dimostrano che ai Medici, anche nel maggior fervore della vita repubblicana, predecessori non mancano: Corso Donati, ad esempio, che fin dal principio del secolo XIV tenta farsi capo di una oligarchia di magnati; Rosso della Tosa, che non gli vuol sottostare e mira diritto al principato. Più facile forse il programma, come oggi si direbbe, di Corso Donati, perchè Rosso della Tosa ha troppa fretta d'anticipare i Medici. Avete ad ogni modo, e di non poco precedente la signoria Medicea, la tendenza ad afforzare in una forma aristocratica i vecchi ordini comunali già decadenti, il che si tenta fin dal secolo XIV col magistrato di parte Guelfa, instituito già da molti anni, ma divenuto allora così chiuso e potente, che non so davvero che cosa gli manchi per essere una vera tirannide; poi colla prevalenza della parte aristocratica dei Ricci e degli Albizzi, prima lottanti fra loro, poi degli Albizzi rivali dei Medici, i quali Medici primeggiano nella parte popolare, donde sono usciti, sicchè all'ultimo tutto si riduce a decidere quale delle due famiglie sopraffarà l'altra, quale delle due, se gli Albizzi o i Medici, dominerà la repubblica. Ma insomma questa inclinazione del Comune a signoria è fatale, è superiore a tutte le combinazioni umane o di procaccianti ambizioni o di tardive resistenze, perchè dipende da una legge più generale e più alta, quella per cui un'età storica succede ad un'altra, quando i principii, sui quali quella si reggeva sono logori, esausti, finiti, e le sottentrano altri principii, altre tendenze, altre voglie, altri indirizzi di civiltà, quasi un'altra società, un'altra gente.
Così è di questo tempo. Le grandi illusioni ghibelline sono finite fin dal 1313 con Arrigo VII. Se gli Imperatori scendono ancora in Italia da Lodovico il Bavaro a Carlo IV, a Venceslao, a Sigismondo, a Federico III, vengono per esiger taglie, trafficar titoli e diplomi, e se ne vanno. Settant'anni d'esilio in Avignone, quarant'anni di scisma, hanno sminuito e trasformato il Papa in un principotto italiano, che bada agli interessi suoi e de' suoi nipoti e lascia il partito Guelfo senza capo. Le due universali unità politiche, le due grandi forze ordinatrici, i due grandi ideali del Medio Evo sono dunque finiti e scomparsi nella storia italiana. Nè basta. Napoli s'è sottratta alla diretta soggezione imperiale. Venezia, che non fu mai nè guelfa nè ghibellina, che quasi non pareva appartenere all'Italia, cerca ora pigliarvi stato, e il difendersi da Napoli e da Venezia, nel linguaggio e nelle idee d'allora, val quanto difendere la libertà degli Stati italiani contro lo straniero. Nè basta ancora. Le potenti energie messe in moto dalla turbolenta libertà dei Comuni hanno dato vita ad una risurrezione d'arte e di sapere, ad una ristaurazione di classicismo, che sarà fondamento a tutta la cultura moderna, e che ora assorbe ogni attività spirituale e par fatta apposta per nascondere sotto i suoi fulgori la decadenza dei vecchi ordini repubblicani e la loro trasformazione in signorie. I Comuni colle loro lotte continue in casa, in piazza, in palazzo, stancavano tutte le forze del cittadino, fomentandone tutte le passioni, imponendogli attività e doveri continui. Ma ormai è venuta su una gente disposta a cercar riposo all'ombra d'un potere stabile e fermo, che tenga freno plebe e oligarchi; una gente, che vuol godere in pace, fra gli agi e i piaceri, il frutto della parsimonia e dell'operosità dei padri e degli avi, tanta ricchezza ammassata, tanto splendore e amenità di arti e di lettere e che per goderlo anche meglio si lascia cader le armi di mano, abbandonando l'arte della guerra al mestiere dei venturieri col fastidio superbo, colla noncuranza poltrona di opulenti, di mercanti, di artisti e di letterati. Aggiungete che l'umanesimo ha bisogno d'aiuto e di protezione signorile. Se la libera bottega bastò ai prodigi spontanei dell'arte, l'umanesimo tende a costituire una nuova aristocrazia piuttosto cortigiana, di quello che politicamente e virtuosamente operosa. Questo all'interno. E al di fuori? Al di fuori niun pericolo minaccia per ora: non dall'Impero troppo debole, non dalle altre nazioni ancora intente alla loro costituzione. Se un pericolo v'è, sta nella gelosia reciproca dei varii Stati italiani, nella necessità quindi di una politica di equilibrio tra i più forti, tanto più difficile a praticarsi, quanto più sono misteriosi e tutti egoistici e personali i motivi, pei quali le violenze e le rappresaglie si determinano. Firenze è al centro di tutto questo nuovo movimento di civiltà, di tutta questa trasformazione morale, sociale e politica, che si va compiendo, e in mezzo ad essa la signoria Medicea (di origine certamente meno illegittima di tante altre, in quanto sorge e si svolge dall'imo fondo dei rivolgimenti politici fiorentini) in mezzo ad essa la signoria Medicea si afferma e si assoda da Cosimo il Vecchio a Lorenzo il Magnifico, il quale ne segna l'apogèo, e dopo del quale non avrà che a decadere (per poi vigoreggiare di nuovo con forme e in tempi affatto diversi), tanto in questo strano congegno del governo signorile, che il Burckhardt ha con ragione chiamato un'opera d'arte, al pari d'un poema o d'un quadro, tutto è affidato alle qualità personali dell'uomo. Ma di tutto quel nuovo ambiente, in cui il poter loro prevale, i Medici sono essi la causa o l'effetto? L'effetto, io credo. Sono la produzione spontanea delle condizioni generali del tempo e delle particolari, che escono dalla storia di Firenze. Quindi è necessario non dimenticar mai di considerare i Medici della prima stirpe per quel che sono, uomini del loro tempo, Lorenzo sopra tutti, che colle sue pecche non lievi e le sue straordinarie qualità è anzi il tipo ideale del Signore italiano del Rinascimento.
Lasciando ai genealogisti cortigiani di avvolgere le origini della famiglia Medici nelle nuvole della leggenda, dirò che essi appariscono relativamente tardi nella storia di Firenze, non prima, che si sappia, del 1301. Si dice che appariscono come sopraffattori di popolo nei sanguinosi tumulti, che finiscono alla proscrizione dei Guelfi bianchi e di Dante Alighieri. Si dice che con Salvestro de' Medici, il quale da Gonfaloniere di Giustizia, nel 1378, dà le mosse al tumulto de' Ciompi, essi cominciano a far l'arte loro di lusingar la plebe per aiutarsi a salire. Si dice che Giovanni di Bicci nel 1426, opponendosi a Rinaldo degli Albizzi, si atteggia a capo del partito popolare. Tuttociò è vero, come fatto. Ma è altrettanto conforme a verità trovarvi gli auspicii e il cominciamento del destino Mediceo? Se nel 1301 sono sopraffattori di popolo, vuol dire che erano violenti come tutti gli altri, come quel popolo stesso, il quale s'era armato dei cosidetti Ordinamenti di Giustizia. Se nel 1378 Salvestro ha parte nel tumulto de' Ciompi, non ve l'ha certo maggiore di Benedetto degli Alberti, di Giorgio Scali, di Tommaso Strozzi, i quali tutti sommuovono i Ciompi, cioè l'infima plebe, contro Piero degli Albizzi e la setta Guelfa. L'intervento dei Ciompi dà un carattere di rivoluzione sociale alla lotta, che non era nelle intenzioni dei sommovitori. Essi sono trascinati loro malgrado nella vittoria dei Ciompi, che si risolve poi in una prevalenza delle sette Arti Minori, e di questa l'Alberti, lo Scali, lo Strozzi sono le prime vittime, appunto perchè la parte ch'essi ebbero in tutto questo moto fu molto maggiore di quella di Salvestro de' Medici. La pretesa precocità dell'insidia Medicea, che si vuol dedurre dal tumulto dei Ciompi, è dunque una delle tante frasi fatte, che si ripete a carico dei Medici, ma che non ha fondamento nella storia. Quanto a Giovanni di Bicci, certo egli ha gran parte nella legge tutta popolare del Catasto del 1427, ma politicamente è un personaggio quasi insignificante: accresce bensì il credito e la ricchezza di Casa Medici, ma non può dirsi il fondatore politico di essa. Il suo fondatore vero è Cosimo il Vecchio. Quand'egli apparisce, le lotte si sono venute sempre più restringendo, e la rivalità dei Medici e degli Albizzi diventa quasi una lotta personale fra Cosimo e Rinaldo degli Albizzi, che, al dire di Jacopo Pitti, “come principe maneggiava lo Stato.„ Costui pensa essere ormai tempo di troncare di colpo la sempre crescente potenza Medicea e fa chiamar Cosimo in Palazzo per ucciderlo, ma deve contentarsi dell'esilio; transazione, di cui il Sismondi, il Perrens sono inconsolabili, perchè Cosimo è richiamato dall'esilio un anno dopo e torna in patria in trionfo. Nei giorni più splendidi di Casa Medici, sulle pareti del gran salone nella villa di Poggio a Caiano questo ritorno sarà magnificato, figurandolo per quello di Cicerone, ricondotto in patria sugli omeri di tutta Italia. Il vero è che Cosimo, tornando dall'esilio il 6 ottobre 1434, si fermò e pranzò a Careggi, non permettendogli la Signoria di rientrare in Firenze prima di sera, e poichè Via Larga era piena di popolo aspettante, dovette sgattaiolare nel Palazzo della Signoria e passarvi la notte, rientrando solo al mattino seguente nella sua dimora di Via Larga, lo stupendo edificio, forse allora ancora in costruzione, in cui, fra quel misto di solidità e di eleganza, di cittadino e di principesco, sembra ch'egli abbia veramente improntato sulle muraglie il proprio genio.
Se Lorenzo il Magnifico fosse succeduto a Cosimo il Vecchio, i primi tempi della sua signoria sarebbero stati meno difficili e meno travagliata la sua giovinezza. Ma succedette invece a Piero il Gottoso, che in mille modi avea compromesso il potere della sua casa, più di tutto deviando da quella esteriore semplicità e modestia di Cosimo, che, unite alla grandezza degli intenti civili, alla protezione delle lettere, al buon uso della ricchezza, alla passione magnifica dell'edificare, per cui Benozzo Gozzoli, con allegoria, che sa di satira, lo figurò nel Camposanto di Pisa assistente colla famiglia all'edificazione della torre di Babele, mentre fecero dare alla potenza Medicea il passo decisivo, valsero a lui il titolo glorioso di padre della patria.
Ma morto Piero nel 1469, succedevano due giovani, Lorenzo di 21 e Giuliano di 16 anni, sicchè rinverdirono le speranze dei nemici di Casa Medici, contando sull'inesperienza e sull'impeto giovanile, qualità poco adatte a conservare una potestà così vaga e indeterminata, così raccomandata tutta al valor personale, come quella dei Medici. Furono più forti l'amore del popolo, il terror dell'ignoto, le memorie di Cosimo, tanto più ch'esso in persona parea rivivere nel giovine Lorenzo, già messo in vista di tutti per la precocità dell'ingegno, la giovialità, il fare largo e liberalissimo, l'educazione ricevuta da grandi maestri, i viaggi alle corti estere, pei quali così giovane era messo a parte di gravi faccende politiche e ammonito dal padre a diportarsi già da uomo e da principe. Precoce era in tutto Lorenzo e già da giovanissimo i contemporanei gli mutavano in predicato d'onore il titolo di Magnifico spettante al suo grado e con cui è rimasto nella storia, mentre il fratello Giuliano, indole più rimessa e più spensierata tuffata nei piaceri, negli amori, negli spassi giovanili era dai suoi coetanei chiamato, dice il Giovio, principe della gioventù. All'arme non fu educato Lorenzo, non sì però ch'egli non fosse forte, aitante della persona, benchè assai brutto di volto, come si vede, meglio che dalla figura un po' idealizzata di Lorenzo giovine nel gran quadro dell'Epifania di Sandro Botticelli e dal ritrattino del Bronzino agli Uffizi, nella medaglia del Pollaiuolo e nella trista figura dipinta dal Vasari (pure agli Uffizi), in cui appariscono evidenti i segni del male, che lo trasse a morte prematura. Appassionatissimo pei cavalli, era cavalcatore valente, ma della corona riportata alla giostra del 1468, combattuta per le sue nozze con Clarice Orsini, e cantata da Luca Pulci, è il primo a ridere con la solita superiorità sua. Appena mortogli il padre, furono dunque a lui i principali cittadini, pregandolo a pigliarsi cura dello Stato. Esitò, forse ad arte, raccomandandosi ai consigli di tutti, ma certo ben risoluto in cuor suo a far da sè.
Quali sono da questo momento i punti prominenti della vita di Lorenzo? Dal 1472 al 1484 la sollevazione di Volterra, la congiura de' Pazzi, la guerra che ne consegue col papa Sisto IV e col re di Napoli, l'ardito viaggio di Lorenzo a Napoli, che stacca il re dal papa e assicura la pace, il ritorno di Lorenzo in patria e la riforma interna coll'instituzione dell'Ordine dei Settanta (che è il vero 18 Brumaio di Lorenzo), la guerra di Ferrara, la pace coi Veneziani, e la morte di Sisto IV, l'implacabile nemico di Lorenzo. Dal 1484 al 1492 l'intimità di Lorenzo con Innocenzo VIII, successore di Sisto, l'equilibrio politico a sommo studio mantenuto da Lorenzo, il maggior splendore della sua signoria ed i primordi d'un'opposizione morale nel Savonarola fino alla morte di Lorenzo, a cui seguitano così da presso la preponderanza straniera e la servitù dell'Italia, che Cesare Balbo, nella sua divisione della nostra storia, proponeva di finir qui (merito o fortuna, che sia, di Lorenzo) l'età dei Comuni Repubblicani, che altri protrae sino alla caduta di Firenze nel 1530.
Ora questi fatti, che io ho accennati così in breve c'è chi gli ha narrati tutti a gloria, altri tutti a biasimo di Lorenzo. La Repubblica doma la ribellione di Volterra? È lui che vuol rubare i profitti delle cave d'allume. Volterra è posta a sacco? È lui, che ordina quell'inutile crudeltà. I Pazzi congiurano? È lui che li ha provocati. Il popolo fa scempio dei congiurati? È lui, che non è mai sazio di vendette. Sisto IV e il Re di Napoli muovon guerra? È Lorenzo, che strascina la patria in contese non sue. Lorenzo va a Napoli e si dà in mano al suo nemico? È una commedia. Torna e si impossessa coll'ordine dei Settanta dell'elezione dei Magistrati? È lui, che ha inventata questa trappola alla libertà la quale non ha riscontro nella storia di Firenze. Si stringe in amicizia e parentela con Innocenzo VIII? È lui, che è quasi reo del nepotismo dei Papi. Cerca la pace nell'equilibrio degli Stati? È una politica d'espedienti, che non val nulla. Firenze è prospera e gioconda? È lui che la educa alla servitù, corrompendola coi trionfi e i canti carnascialeschi. Che più? Neppur l'uomo privato si salva da questo pessimismo demolitore. Si ricusano tutte le testimonianze in suo favore, che concordemente lo dicono buono, gioviale e tollerante, nonostante le sue sofferenze fisiche, fedele agli amici, socievole, semplice nella grandezza, idolatra dei figli, non dimentico mai del tutto degli insegnamenti e degli esempi della pia madre, Lucrezia Tornabuoni, rispettoso della moglie, indole pur così diversa dalla sua e con poca grazia e senza avvenenza; e, per dimostrare com'era tuffato nei vizi, il Buser reca una lettera d'un Francesco Nacci da Napoli, che annuncia a Lorenzo la spedizione di cinquanta belle schiave turche, le più belle che si trovarono! Ah, la grazia! Cinquanta? Se non che, come fu provato, il buon tedesco ha letto nel documento belle invece di pelli, turche invece di tutte, e così, invece di 50 pelli di Schiavonia, ha letto 50 belle schiave turche, un harem da sultano, e senza accorgersi neppure che in tutto il contesto della lettera si parla della spedizione in modo, come se oggi si spedissero a qualche gran Don Giovanni 50 belle ragazze, turche o non turche, per pacco postale. Nè basta. Quello che il Machiavelli dice a lode di Lorenzo s'interpreta a biasimo, e nel dialogo sul Reggimento di Firenze del Guicciardini si vuol vedere non una discussione, ma una diatriba, e fra gli interlocutori del dialogo si menan buone tutte le accuse di Paolo Antonio Soderini e di Pier Capponi e non si tien conto alcuno di tutte le difese di Bernardo Del Nero.
Quanto erano stati belli e lieti gli anni della prima giovinezza di Lorenzo, altrettanto furono agitati e poi tristi e funesti i primi anni della sua signoria. Nel 1470 insorge Prato. Due anni dopo Volterra, a cagione delle miniere d'allume. Si vuole ch'egli vi fosse cointeressato e che nella repressione la città fosse posta a sacco per ordine suo. Ora è stato dimostrato che della prima accusa non c'è che una sola testimonianza contemporanea ed è di un nemico dei Medici; e quanto alla seconda, non solo che non furono gli assalitori, che la misero a sacco, bensì le masnade stesse, che essa avea assoldate per difendersi. Ma che monta? È un'altra delle frasi fatte a proposito dei Medici e di Lorenzo, e non è un anno, che se l'è ribevuta il Bourget, romanziere positivista, nelle sue Sensations d'Italie e l'ha ridivulgata colla magia del suo stile. Lorenzo volle non transigere, ma reprimere. Quella frequenza di ribellioni gli dava ombra; ecco la maggiore responsabilità sua. Ottenne di fatto qualche anno di tregua e ripigliò più che mai gli spassi, gli studi, le magnificenze d'arti e spettacoli, perocchè Lorenzo non era di quelle povere nature, come sarebbero le nostre, che una sola faccenda assorbe intiere e non ci lascia più nè tempo nè testa ad altro.
Natura grandiosa, fantasia ardente, ingegno universale, Lorenzo mandava di pari passo lettere, filosofia, galanterie, mascherate, vita di campagna, vita di città, laudi sacre, canti carnascialeschi, canzoni a ballo, sacre rappresentazioni, intimità cogli amici, i letterati e gli artisti, ospitalità sontuose a principi che capitavano, eriger chiese e ville, passione dei musei e dei cavalli, della musica e delle belle donne, banchetti e processioni, politica e giostre.
La più celebre è appunto di questi anni, nel 1478, e prende nome da Giuliano ed è la più celebre, perchè fornì argomento alle Stanze del Poliziano. Precede alla giostra e alla composizione delle Stanze un avvenimento intimo dei due fratelli Medici, la morte della bella Simonetta Vespucci, amante di Giuliano, nel 1476, ed interrompono la composizione delle Stanze la congiura de' Pazzi e l'uccisione di Giuliano nel 1478. Il terribile epilogo, e non voluto, del poema è dunque la narrazione in latino sallustiano, scritta dallo stesso Poliziano. L'epilogo, forse ideato e non potuto scrivere, il cavalleresco epilogo cioè della più bella data in premio al più cortese, al più prode, sarebbe mai quello rappresentato con inspirazione polizianesca dal Botticelli nello stupendo quadro dell'Accademia di Belle Arti, detto comunemente: la Primavera? È una ingegnosa e nuova interpretazione del quadro, proposta ora dal prof. Jacopo Cavallucci e che a me pare fondatissima. La Ninfa del poema è certo quella del quadro. Basta rileggere le Stanze:
Candida è ella e candida la vesta
Ma pur di rose e fior dipinta e d'erba;
Lo inanellato crin dell'aurea testa
Scende in la fronte umilmente superba.
Ridele intorno tutta la foresta
E quante può sue cure disacerba.
Nell'atto regalmente e mansueta
E pur col ciglio le tempeste acqueta.
…
Ella era assisa sopra la verdura
Allegra e ghirlandetta avea contesta
Di quanti fior creasse mai natura,
De' quali era dipinta la sua vesta.
E come prima al giovin pose cura
Alquanto paurosa alzò la testa,
Poi con la bianca man ripreso il lembo,
Levossi in piè con di fior pieno un grembo.
…
Mosse sovra l'erbetta i passi lenti
Con atto d'amorosa grazia adorno
…
Ma l'erba verde sotto i dolci passi
Bianca, gialla, vermiglia azzurra fassi.
Non meno certo è che la figura del giovine, situato a sinistra, è il ritratto idealizzato di Giuliano, somigliantissimo, parmi, all'altra figura di Giuliano, che è nel quadro dell'Epifania del medesimo Botticelli; e quasi lo stesso motivo poetico delle Stanze e del quadro la Primavera, e la poesia attribuita a Giuliano de' Medici, ma che il Carducci giudica del Poliziano, ed è diretta alla Simonetta. Se la ninfa del quadro sia il ritratto della Simonetta, fra tanta incertezza dei ritratti di questa vaga e celebre beltà, non si può forse determinare assolutamente, ma altri emblemi, il lauro allusivo a Lorenzo, i tre fiori d'ireos fiorentina, tutto concorre a dare a quel quadro un significato Mediceo spiccatissimo, e si sa che i Medici l'ebbero caro come un ricordo di famiglia.
Comunque, il dolce nome della Simonetta mi riconduce a Lorenzo, perchè dalla vista di lei morta e portata, scoperto il volto, al sepolcro, come narra il famoso epigramma latino del Poliziano, Lorenzo pretende, nel Commento ai propri sonetti amorosi, essersi sentito sollevare alla perfetta cognizione platonica dell'amore, da una morta trapassato poi in una viva, dalla Simonetta in Lucrezia Donati, da lui incontrata in una festa, alla quale “concorsono, dic'egli, tutte le giovani nobili e belle„. È una gentilissima invenzione, ma invenzione di certo, perchè l'amore della Donati è precedente di dieci anni almeno alla morte della Simonetta, e solo dimostra che continuò anche dopo il matrimonio di Lorenzo con Clarice Orsini, sempre però puro, ideale, platonico, petrarchesco, come assicura Ugolino Verini, un poeta intrinseco di Lorenzo, e dietro a lui molti altri confermano, sicchè noi non possiamo far di meglio che credere ad occhi chiusi a sì concordi testimonianze.
Tutta questa lieta visione di giovinezza e di amori si dilegua nella congiura de' Pazzi. Non rinarrerò quella scena, una delle più straordinarie della storia di Firenze, perchè tutte già l'avete a memoria; quella messa in duomo col Cardinal Riario, che assiste; Giuliano e Lorenzo de' Medici con parecchi loro amici, vicini al coro e circondati, senza saperlo, dai congiurati; il popolo devoto, che li attornia, e mentre il sacerdote celebrante solleva l'ostia consacrata e le campane suonano a gloria, Giuliano, ferito a morte dal Bandini, cadere immerso nel proprio sangue, Lorenzo assalito e ferito anch'esso, ma avvoltasi la cappa a un braccio e tratta coll'altro la spada aprirsi il passo alla sagristia, dove riesce a scampare. La chiesa è tutta un tumulto; le vôlte quasi crollano alle grida; il Cardinal Riario, accovacciato presso l'altare, ne rimarrà pallido di terrore tutta la vita. Intanto a quel suono di campane, altri congiurati, con l'Arcivescovo Salviati alla testa, assalgono il Palazzo della Signoria, ma sono presi, i principali impiccati alle finestre, altri respinti, mentre il popolo, infuriato per la morte di Giuliano, vuol riveder salvo il suo Lorenzo dalle finestre del Palazzo di Via Larga, poi trucida per le vie quanti congiurati o sospetti gli vengono alle mani, chi dice settanta, chi cento, chi più; giustizia orrenda, ma che dimostra avere il popolo giudicata la congiura per quel che era, una trama ordita, non per amore di libertà, ma per odii e cupidigie private dei Pazzi, del Papa e dei Riario, suoi nipoti, e quindi aver senz'altro voluto vendetta dei congiurati. Dissimulando la complicità sua, il Papa ruppe guerra a Firenze e vi trascinò il Re di Napoli, suo alleato, pretendendo che la guerra era fatta non a Firenze, ma a Lorenzo. Questi vide bene il pericolo di tale perfidia; intuì rapidamente la necessità d'un gran colpo, scindere cioè l'alleanza del Papa col Re, e deliberò a qualunque rischio di consegnarsi da sè nelle mani del Re. Partì accompagnato dai voti e dall'ammirazione di tutti. Tornò colla pace, tornò glorioso, tornò onnipotente, e di questo momento si valse subito per riassodare l'autorità sua e della sua Casa. Questo si chiama veder chiaro in politica! Di più, poteva in quel momento esser principe e non volle; preferì una repubblica signorile a una signoria repubblicana. Questo si chiama moderarsi nella vittoria, la più difficile di tutte le virtù politiche. Poteva cioè uscire dalle tradizioni della storia fiorentina e non volle!
Quante volte il fatto dei Medici e di Lorenzo non s'è ripetuto anche nella storia d'altri paesi? Al ritorno di Cosimo dall'esilio il popolo vide in lui un liberatore, non un tiranno. Al ritorno di Lorenzo da Napoli accadde lo stesso e anche più. Perciò non credo ch'egli avesse bisogno di corrompere il popolo, distillandogli i sottili veleni della voluttà per meglio dominarlo. Anche questa è una delle tante frasi fatte, ma, ha ragione il Gaspary, “un individuo non corrompe una nazione, quando essa non sia già corrotta„. Quanto a morale e gusto di piaceri, il popolo valeva il signore e il signore il suo popolo. Per questo s'intesero così bene! Nè si nieghi l'azione di Lorenzo sulla civiltà della Firenze d'allora, sofisticando su qualche data di nascita o di morte di grandi artisti, perchè tutta la grande fioritura artistica e letteraria del 400 fiorentino è Medicea, nè tali quistioni si trattano coll'orologio alla mano. Il vero è che nè una protezione principesca basta da sola a creare una civiltà, nè una tirannia, anche più deprimente di quella dei Medici, a farla sparire. V'ha bensì sull'ultimo della vita di Lorenzo, come già dissi, un principio di reazione morale e religiosa, che s'incarna nel Savonarola, ma la impicciolirebbe di troppo chi la considerasse provocata da un uomo solo, anzichè dall'indole generale della nuova cultura, dei nuovi costumi e dei nuovi tempi. Le lettere, che Lorenzo scrive alla morte di sua madre, la pia e ingegnosa donna, la quale negli argomenti de' suoi inni sacri precorre il Manzoni, mostrano la tenerezza filiale di Lorenzo. Le lettere di Clarice Orsini e del Poliziano, del Pulci e di tanti altri mostrano l'amor suo pei figli, la sua bonaria e fedele affezione agli amici, dai quali fu idolatrato, e, quanto alla moglie, lasciando stare se il mi fu data dei Ricordi di Lorenzo sia la frase indifferente, che significa il fidanzamento o che la sposa non fu di sua scelta, certo è che i fatti e i documenti dimostrano rapporti non mai interrotti di affetto e di stima. Intercedendo per chi l'ha offeso: “non fareste, essa gli scrive, secondo la natura vostra a non gli perdonare„; parole, che fanno il maggior onore ad essa ed a lui e scritte l'anno stesso della congiura de' Pazzi, quando l'animo di Lorenzo dovea esser meno che mai disposto ad indulgenza. E quando si leggono nella lettera di Matteo Franco, che descrive il ritorno di Clarice dal Bagno a Morba, le parole, ch'essa risponde ai poveri terrazzani di Colle, i quali la supplicano di raccomandarli a Lorenzo, si vede chiaro quant'essa era addentro nel segreto della sua politica e con che arte gentile sapea all'occasione farsene strumento.
Se non avessi già troppo abusato della vostra cortese attenzione, mi sarebbe dunque facile dimostrarvi coi documenti alla mano che Lorenzo fu buon figlio, buon padre, marito convenientissimo, nella stessa guisa che potrei e dovrei mostrarvi, che come critico, precorre studi moderni, che come poeta, sorpassa forse il Poliziano ed il Pulci per osservazione della realtà e per sentimento vivo e immediato della natura esteriore, che, come umanista, tempera gli eccessi della scuola col culto della lingua volgare, di cui è restitutore e mantenitore, che, come filosofo finalmente, modera l'irreligione del tempo col teismo neoplatonico, il maggior tentativo di accordo fra il cristianesimo e la filosofia, quantunque non potesse di certo parer sufficiente al Savonarola.
Se come uomo Lorenzo de' Medici deve dirsi buono, se come letterato e filosofo superiore al suo tempo (il quale tuttavia non ha nel suo complesso chi lo rappresenti meglio e più intieramente di lui), forsechè come politico è inferiore agli altri signori e principi del tempo suo? Il sistema d'equilibrio dei quattro maggiori Stati d'Italia, quale lo praticò Lorenzo al disopra della scellerata politica degli altri principi, compresi i Papi, al disopra dei pregiudizi Guelfi Fiorentini, al disopra d'ogni interesse di famiglia, perchè nella politica estera egli non ha, nè può avere, notate bene, appunto perchè non principe, altro pensiero che della potenza di Firenze, lo rende indubitabilmente superiore a tutti gli statisti, non speculativi, ma operanti del suo tempo. Ed ebbe pure il presentimento del donde potea venire il pericolo futuro, poichè quando Luigi XI gli profferse aiuto contro il Papa ed il Re di Napoli: “io non posso, disse, anteporre il mio particolare vantaggio al pericolo di tutta Italia; volesse Iddio che ai Re di Francia non venisse mai in mente di sperimentare le proprie forze in questo paese. Quando ciò accada, l'Italia sarà perduta!„ E lo fu in realtà, due anni dopo appena ch'egli era morto. Non possiamo dire, ch'egli avrebbe impedita la catastrofe, ma ben possiamo esser certi che la sua condotta non sarebbe stata così pazza ed improvvida, come fu quella di Piero, suo figlio.
Moriva Lorenzo l'8 aprile 1492 nella sua villa di Careggi fra il dolore disperato dei congiunti e degli amici; moriva fra il lutto e le lagrime di tutto un popolo; moriva nel colmo della potenza e della gloria. Ciò non potè tollerare l'intolleranza Piagnona e creò la leggenda del Savonarola che all'ultim'ora gli nega l'assoluzione e lo lascia morire fra i rimorsi. Nè basta. Ci voleva un po' di delitto per colorir meglio il quadro e si raccontò, e si cantò anche in versi elegiaci, che il medico Pier Leoni di Spoleto fu gettato in un pozzo per ordine del primogenito di Lorenzo. Quanto alla prima parte della leggenda, essa, come questione storica, s'è ingrossata, e allorchè un Villari le presta fede, un Ranke non osava più negarla addirittura, un Reumont la giudicava per lo meno incerta, non oserei io di mescolarmi in tal disputa. Debbo però al mio gentile uditorio la mia opinione, ed è che la lettera del Poliziano a Jacopo Antiquario, in cui il Savonarola (ciò che s'accorda anche col tempo) si mostra solo uomo di chiesa e ammonisce e benedice (non confessa ed assolve) in articulo mortis il peccatore pentito, mi pare a tutt'oggi il solo documento attendibile e che tutte le altre parole messe dalla leggenda in bocca al Savonarola e a Lorenzo mi sembrano un anacronismo e un assurdo. Quanto al medico, la lettera, ora pubblicata, di Bartolommeo Dei toglie ogni dubbio. Impazzò e si suicidò! Meno male, perchè il terribile Perrens aveva già scartata l'ipotesi del suicidio, dicendo: “Les medécins tuent, ne se tuent pas!„
Ed ora concludiamo. Chi dalle mie parole argomentasse che ho voluto fare non la storia, ma l'apologia di Lorenzo il Magnifico, avrebbe gran torto. Nè l'una, nè l'altra, se mai; non la storia, perchè in sì piccolo quadro non si fa star dentro una così grande figura; non l'apologia, perchè non credo che Lorenzo n'abbia bisogno. Volli esporre il concetto, che mi sono formato della storia di Lorenzo in relazione a quella di Firenze e d'Italia, e tale concetto posso riassumerlo così.
Nella storia di Firenze a me pare di scorgere una continuità nelle parti, che si contendono il predominio cittadino ed un perpetuo ricorso delle stesse forme, che, spogliate di quanto hanno d'accidentale e d'occasionale, accennano fin dai più antichi tempi al dove vanno in ultimo a terminare tutte le lotte fiorentine, al predominio cioè d'una consorteria, d'una famiglia, d'un uomo. Furono i Medici! Potevano essere gli Albizzi, gli Alberti, gli Strozzi, ma a questi non sarebbe probabilmente riescito di dare alla loro signoria quel carattere, che poterono darle i Medici, di pura preminenza d'un cittadino in una repubblica. Le lotte delle fazioni si presentano subito in Firenze come contrasto di due famiglie. Queste aggruppano intorno a sè gli elementi, che sono proprii della lotta comunale in tutta Italia, elementi politici, guelfismo e ghibellinismo, elementi sociali, aristocrazia e democrazia. Il Comune è da prima fuori del contrasto, poi naturalmente, e presto, diviene l'oggetto del contrasto medesimo e gli dà la forma esteriore, mentre l'impulso segreto, l'impulso, che è l'anima vera del contrasto, è sempre d'una famiglia e della clientela, che le sta d'attorno. Se così non fosse, quando il fine, per cui una fazione si muove, è ottenuto, si vedrebbe cessare questo moto, per poi ricominciarne un altro. Invece, siano guelfi e ghibellini, che lottano, grandi e popolo, arti maggiori e arti minori, appena una fazione vince, si divide in sè stessa e la lotta continua sempre. È per questo, io credo, che il Villani, il Compagni, tutti i cronisti, non parlano mai dei principii o dei fini politici, pei quali una fazione s'è mossa, bensì dei pregi o difetti della famiglia o dell'uomo, che alla fazione dà nome, perchè questo è per essi importante; il resto accessorio. Talvolta pare che si mira a slargare in senso democratico l'ordinamento del Comune. Ma appena s'è vinto, la famiglia, la setta (come la chiamano i Fiorentini nella seconda metà del trecento), cerca sfruttare la vittoria a suo pro. Questo tentativo costante non riesce ad altri; riesce ai Medici, perchè Cosimo sa far apparire la vittoria, vittoria sua, non della parte, e non ha quindi da sconvolgere l'ordinamento comunale per soddisfarla; frena insomma subito egli stesso la fazione, con cui ha vinto gli Albizzi, e ciò tanto più facilmente, in quanto non è fazion vera la sua, non una classe, non un'arte contro l'altra, bensì un'accozzaglia d'amici e di malcontenti, che non spera che in lui, ond'egli detta legge, non la riceve, e la vittoria contro la minacciante tirannide degli Albizzi gli fa anzi quasi un obbligo, una necessità di rispettare gli ordinamenti comunali, pur piegandoli alla volontà sua, che è la tradizione di tutte le famiglie, le quali hanno capitanate le fazioni fiorentine e con esse sono pervenute più o meno lungamente al governo del Comune. Sempre le stesse arti, sempre gli stessi mezzi, all'ombra sempre delle stesse instituzioni! Finchè l'elemento di famiglia è costretto a tenersi celato dietro l'elemento politico e sociale, la signoria non può fondarsi. Quando per l'inclinazione generale dei Comuni italiani a signoria, può mostrarsi a viso aperto, allora la signoria si fonda, ma col carattere speciale delle passeggere signorie fiorentine, cioè tirando a sè, non distruggendo, le instituzioni del Comune. Lorenzo restituisce e conserva il tipo di Cosimo, ma da Cosimo a Lorenzo la signoria Medicea fa un passo innanzi. Con Lorenzo è ancora più personale. Diciamo, se volete, che Lorenzo è addirittura un tiranno, ma, in questo caso, soggiungiamo subito col Guicciardini, che Firenze non poteva avere “un tiranno migliore e più piacevole„ di lui.