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LA VITA PRIVATA NE' CASTELLI
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GIUSEPPE GIACOSA
Al tempo delle castella, la parola castellano ebbe tre significati diversi, o per dir meglio fu adoperata ad indicare tre diverse classi di persone. Era castellano il signore di uno o più castelli; era castellano colui che, nel nome del signore, teneva il governo di un castello; e castellano si chiamava pure chi dimorava nelle castella, cioè nelle piccole terre cinte di mura e dominate da una rocca.
Nelle regioni d'Italia dove fiorì la vita comunale e repubblicana, la parola era per lo più usata nel secondo significato, come quello che corrispondeva al maggior numero dei casi. Il vocabolario del Manuzzi, alla voce: Castellano, lo registra infatti innanzi di ogni altro, e prima scrive: Capitano di castello, che Signore di esso. E quando la parola racchiudeva il concetto della signoria, non implicava quello della dimora; occorre infatti ad ogni momento la locuzione: di molte o di poche terre castellano.
Invece nei paesi dove il sistema feudale ebbe il suo naturale compimento nella monarchia unitaria, grazie la intricata rete di privilegi, di prerogative e di interessi che fissava il signore alla terra e lo costringeva a risiedervi, per Castellano in ogni tempo si intese comunemente: il signore dimorante nel castello, il quale castello, dalla secolare e non interrotta consuetudine, venne prendendo una certa aria di famiglia, si adattò ai successivi crescenti bisogni, si piegò quasi ai minuti capricci dei padroni, così che ne rispecchiò poi fedelmente l'indole e le abitudini.
Fra questo castellano campagnuolo ed il signore dimorante nella città e più il Principe dei nuovi principati italiani all'epoca del Rinascimento, corrono differenze così profonde che la distanza di un secolo non ne darebbe di maggiori. Differenze nel campo dell'azione e delle attribuzioni politiche, differenze nell'ordinamento domestico e nelle abitudini della vita quotidiana. Le Corti, più ricche, più sfarzose, più colte, più popolose, ebbero istoriografi e descrittori in abbondanza, mentre ne difettarono i castelli. Ed ognuno di quegli istoriografi e descrittori fu in questi ultimi tempi argomento di nuovi e minutissimi commenti e raffronti, sicchè non si può oramai trovare in essi notizia che già non sia stata a sazietà detta e ripetuta. Ed anche riguardo i castelli, le notizie raccolte nei libri riflettono bensì molti momenti della vita privata, ma di preferenza quelli che si connettono colla pubblica, quali sarebbero le feste ed i ricevimenti o che hanno, in alcun modo, attinenza colle arti e colla cultura generale. Ora, noi gente positiva, abbiamo oggi delle curiosità più minute e meno discrete. Non ci basta sapere come quei fastosi signori accogliessero i frequenti ospiti, come ordinassero i banchetti, come uscissero a cavalcate, come vestissero nelle solenni occasioni, come si raccogliessero la sera in illustre compagnia a novellare od a ragionare di ornate cose, ma ci prende un indiscreto desiderio di entrare nelle più intime camere loro, di assistere la mattina al loro primo levare, di accompagnarli passo passo per tutta la giornata, di sorprendere le loro più gelose debolezze, di sedere alla loro tavola quando pranzano in famiglia, di gustare le loro vivande, di ascoltare i loro discorsi coi servitori e colle donne, e, quando la sera prendono commiato dai famigliari, di seguirli lungo i corritoi oscuri o su per le scale tortuose, e riaccompagnarli in camera, a meno che, fatti da qualche dolce ragione sospettosi e gelosi, non ce ne chiudano l'uscio sul muso, e non tirino il chiavistello. Queste nozioni, i libri che ci si mettono di proposito non ce le danno. Si possono bensì racimolare qua e là nei novellieri, e così mi sono industriato di fare, ma è bene dove le cose parlano, lasciar parlare le cose, le quali la sanno lunga e sono al solito più sincere che gli uomini.
Innanzi di conoscere il Castellano, vediamo dunque di visitare il Castello. Il Castello del secolo XV, ha già alquanto dimesso della originaria spavalderia bellicosa. Ancora gli durano le torri e a taluno i fossati, ma le varie cinte che nei secoli precedenti lo fasciavano tutto intorno e gli toglievano l'aria e la vista, sono in parte cadute, ed in parte dimezzate per l'altezza, reggono gli stecconi delle pergole o danno appoggio alle spalliere. Noi dobbiamo però, se ci è caro averne una giusta mozione, imbrigliare alquanto la fantasia amplificatrice, la quale suole rappresentarci il castello feudale d'assai più vasto che in realtà non fosse. A mano a mano che la facoltà di muovere ed i mezzi di sostenere la guerra, vennero restringendosi dai signori di terre ai signori di Stati, il castello feudale, ove dimoravano i padroni, prese meno spazio ed apparve meno imponente. Coll'assodarsi delle monarchie, cessò ai signori il diritto di levar genti e la necessità di allogarle in chiusi recinti a guardia della Rocca. Gli apparecchi belligeri che sul principio del secolo XV alcuni signori amano ancora disporre intorno al maniero, ci stanno più a testimonianza di prerogative nobiliari che a pratica difesa. E perchè sono incomodi e costosi, ci durano poco, o perdurando sono causa che il padrone sloggi dalla antica e si fabbrichi nelle vicinanze una nuova dimora. I castelli dei privati signori che ancora ci rimangono di quel tempo, sono ben lontani dal fastoso apparecchio che un secolo e mezzo o due secoli più tardi fa delle ville signoresche altrettanti luoghi incantati, dove gli spaziosi giardini, le gradinate a terrazzi e gli alberi secolari diventano elementi architettonici e combinano insieme col palazzo ad una magnifica ed armoniosa veduta. Il giardino del secolo XV più si assomiglia ad un orto che ai lambiccati giardini del seicento e del settecento; esso è quasi sempre chiuso fra muraglie alte onde prende un'apparenza claustrale che non disdice all'ordinamento interno della casa. – Al di fuori, il castello ha un aspetto severo e spesso arcigno. Da una larga porta e per un atrio spazioso, si riesce nel cortile, lastricato a lastroni massicci, intorno al quale corrono le quattro pareti della casa aperte in portici e loggie e fregiati i muri con fascie a rabeschi e colori, con stemmi in pietra o dipinti, o con istorie figurate. Nel mezzo del cortile sta il pozzo o la cisterna, col parapetto fatto di pietre o marmi scolpiti, col tettuccio a colonnini, o colle staffe di ferro battuto a delicati fiorami, che reggono la carrucola. A volte, fra i monti dove si può condurre al castello qualche acqua sorgiva, in luogo del pozzo si trova una vasca che riceve zampilli dalla colonna che le sorge nel mezzo o pioggia abbondante di stille da un albero fronzuto di naturale grandezza, tutto ferro operato dalle radici alle foglie ed ai frutti. Sotto il portico, rasente il pieno muro, corre una lunga fila di panche fisse colla spalliera vagamente intagliata. E tra il sommo della spalliera e la vôlta, alcune pitture a fresco narrano a episodi la vita del castello e del borgo. Una ci mostra il corpo di guardia: nel fondo sta la rastrelliera cui pendono le armi, nel mezzo i soldati seduti al desco bevono, uno briaco fradicio dorme, altri giocano, due si accapigliano, e ad un capo della tavola una donna mostra all'amante la scena disgustosa per svogliarlo dalla intemperanza. Poi viene la bottega del beccaio, poi il mercato delle frutta e degli erbaggi, poi il sarto, poi lo speziale. Scene popolari e borghesi, tutte movimento, ispirate certo alla vista delle cose reali, testimonio preziosissimo delle costumanze locali, perchè la ingenuità della fattura, e una certa rozzezza artistica, attestano che il pittore ancora non conobbe l'arte nuova, che non attinse a maestri, ma s'industriò alla meglio di rappresentare le cose che gli stavano intorno.
Nel corpo della casa opposto all'entrata, od in quello che apre esternamente sui luoghi meno belli, meno soleggiati e meno in vista, stanno le cucine, le dispense, il tinello e gli altri locali dati al servizio, al bucato, e via dicendo. A seconda della maggiore o minor mole del castello e della sua giacitura, si trovano pure a pian terreno una o più camere fornite, ad uso di ospizio per i viandanti. Certe volte, queste camere, stanno in qualche fabbrica staccata e vicina, colle scuderie, i canili, le stalle ed il fienile.
La cucina ha nella vita signoresca di quel tempo una importanza grandissima quale noi a stento possiamo concepire, anche quando confrontiamo alle modiche nostre le formidabili mangiate di quei nostri maggiori. La Castellana pur sapendo di greco e di latino (caso, più raro assai, a mio giudizio, di quanto sia stato detto e di quanto si creda), scende ogni giorno alla cucina, bada direttamente alla spesa, e ne registra i conti in apposito libretto, combina col cuoco, o più comunemente colla cuoca, la lista del desinare, misura il vino alla servitù, vigila alla nettezza dei rami e delle stoviglie. Tutti i rami portano impressa l'arme della famiglia, come pure le brocche, le mezzine, i gotti, ed i piatti di stagno, e belle armi scolpite mostrano i monumentali mortai. – La cucina ha due immensi camini: uno raccoglie sotto le ali della cappa i fornelli, l'altro, il maggiore che ospiterebbe al coperto tutto quanto il servitorame, ha in un fianco, sotto la cappa, il forno, e dal lato opposto, aperto nel muro del fondo, il passa vivande, che guarda nella sala da pranzo. Questa la conosciamo: gli scrittori di storia, i novellieri, i diplomatici ed i poeti, ce ne hanno lasciato diligenti e riconoscenti descrizioni. D'altra parte il suo arredamento non ha quella stabilità che si incontra in ogni altro membro della casa, e a norma delle circostanze e degli ospiti, variano le tappezzerie, variano i mobili e variano sopratutto le argenterie ed il vasellame di cui, nelle occasioni solenni, il sire del Castello fa grande e non sincera mostra, togliendone a prestito da qualche vicino o parente.
Qui sopratutto da Principe a Castellano ci corre. Il Principe del Rinascimento, venuto in subitanea ed impensata grandezza, ama lo sfarzo degli apparati per naturale inclinazione artistica e per accorgimento politico. Egli sa che tanto più può quanto più è creduto potere, e del potere è visibile indizio la magnificenza. Inoltre, salito all'altissimo grado per virtù d'ingegno, egli pregia tutte le manifestazioni dell'ingegno umano, e gli ingegni stessi, onde si circonda di poeti e di artisti, ne stimola con danari ed onori l'attività, traendo dalla loro dimestichezza e dalle opere loro, come osserva il Burckardt, una nuova legittimità alla sua illegittima potenza.
Il Castellano, nobile di antica data, ha bensì ambizioni grandi, ma deve fare i conti colle rendite che il potere sovrano gli va continuamente assottigliando. Nè in tempi di così instabili signorie, e nella rapida decadenza degli ordinamenti feudali, egli osa fare vistosa mostra di ricchezze; onde, dei nuovi agi e delle nuove eleganze, ama piuttosto fruire in famiglia che procacciare agli ospiti il godimento. Perciò troveremo più ornate e ricche le camere di sopra, destinate al dormire e all'abitare, che la sala da pranzo e quella antica sala baronale che ancora occupa al piano terreno il maggiore spazio, ma che sia ostentazione di austerità, sia religione degli avi o sia piuttosto il trovarcisi a disagio, il padrone lascia, per lo più, nuda, fredda e solenne quale l'ebbe dai padri.
Due scale mettono ai piani superiori della casa. Una, stretta, oscura e rotta da frequenti ripiani, è destinata al disbrigo delle faccende domestiche, l'altra spaziosa e chiara è riservata ai signori. Questa, o sale visibilmente dal cortile coperta di un tettuccio posato su pilastrini o colonnini, o si svolge in branche regolari con scalini larghissimi e di poco rilievo. Nell'Alta Italia non erano infrequenti le scale a chiocciola. Il Castello d'Issogne in Valle d'Aosta ce ne mostra una veramente bella e degna di studio. Ogni gradino s'impernia dall'uno dei capi in una colonna di granito sottilissima, e di là allarga a ventaglio il suo piano finchè infigge nel muro l'altro capo, più largo di un braccio. Rigirata sopra sè stessa, descrivendo un circolo che misura oltre quattro metri di diametro, quella scala, che pare empire colla sua elica enorme il cavo di una torre, ascende misteriosa, nascondendo, a chi sale, la persona che lo preceda di pochi gradini, ed ingrossando il suono di ogni passo e diffondendolo in quel vento continuo che rendono le spire di una conchiglia. La sera essa vi dà quella sottile inquietudine imaginosa, così piacevole agli adulti. Ogni passo ed ogni voce svegliano mille echi di passi e di voci che sembrano turbinare nel vano e salire e smarrirsi poi via per i solai tenebrosi. Vi scattano rumori secchi come il battere di un acciarino, spenti nell'attimo come la scintilla che ne lampeggia, vi corrono fruscii morbidi come di vesti che sfiorino la terra e rapidi come di persona snella che si rimpiatti. Se altri vi preceda colla lucerna, le muraglie, più che una luce, riflettono una bianchezza incerta simile a quella che irradiata dalle lampade degli altari fa più nera l'oscurità delle navate.
Le camere del primo piano, sono chiare e spaziose; i mobili pochi, ma ognuno di essi ha singolari pregi artistici. Gli intagli assottigliano il legno e gli danno la vaghezza e la leggerezza di un ricamo, senza scemarne punto la solidità. All'opposto di quanto segue oggidì, i meglio ornati non sono i mobili di pretto lusso, ma gli usuali, come i grandi stipi addossati al muro, le credenze, il seggiolone o cattedra che fiancheggia il letto, la cui spalliera, imperniata al telaio, può all'occorrenza scendere, e posando sui bracciuoli formare una tavola. Ai piedi del letto sta il cassone, o la cassapanca, ornata di intagli a fiori o figure, e con delicati fregi di ferro, alle maniglie ed alla serratura, quella cassapanca che fu argomento di tante argute ed inverosimili storie ai novellieri, nella quale le donne riponevano le vesti più sfarzose, poichè ancora non usava, o poco, di appenderle negli armadi. Il letto a colonnini, è coperto e fasciato di ricchissime cortine. Quando il signore conduceva la sposa al castello, la camera nuziale era tutta apparata a nuovo. Le altre camere della casa erano depredate per raccoglierne in quella tutti gli agi e le ricchezze. Si ponevano sul letto fin quattro materassi di bambagia, le lenzuola erano di tela, sottilissime, tutte trapunte di seta e d'oro, che doveva far ribrezzo a toccarle. Le coperte, di raso rosso, azzurro, cremisino, mostravano ricami di fili d'oro con le frangie d'ognintorno. Le cortine erano a liste alternate di velluto e damasco e tocca. Quattro origlieri lavorati maravigliosamente a ricami e trine aspettavano le nobili teste. Alle pareti, arazzi istoriati o vaghe stoffe sottili, a ghirlande di fiori. Nel mezzo sulla tavola un tappeto alessandrino, ed un tappeto, alessandrino pure, sul palco che reggeva il letto. E intorno i forzieri recati in dote dalla sposa, pieni di gemme, di monili, di stoffe preziose e di merletti.
Ma tale fasto durava quanto la intima convivenza dei coniugi, i quali, a breve andare, si riducevano entrambi in meno ricchi appartamenti, e spartivano fra di essi ed in seguito colla figliolanza le quattro materasse, che erano spesso le sole della casa, e delle quali più d'una volta i figlioli maschi ignoravano, finchè non menassero moglie, le tepide mollezze. Perchè, il lusso era grande, ma non pari al lusso le comodità, o, quanto meno, non le minute comodità, che tanto pregiamo ai giorni nostri.
Avevano, onde è a credere che pregiassero sopratutto le comodità di spazio, e grande e nuovissima a quei tempi, ricchezza di luce e di aria. Nei secoli precedenti, il castello era più ordinato a fortezza che a dimora, onde apriva non sulla campagna, ma sugli spazi compresi fra le varie cinte, strette e basse finestre. Ora ogni camera guardava intorno, oltre i recenti ruderi delle cinte, i campi ed il cielo e lasciava entrare per le ampie e frequenti finestre, i raggi, i profumi, i suoni che manda la natura. E quelle finestre, dalla profonda strombatura, dovevano essere la dimora consueta delle donne a giudicarne dai sedili a muro che le fiancheggiano e che solevano ricoprire di morbidi cuscini. Di là le castellane aspettavano il marito od i figliuoli reduci dalle caccie, non dalle caccie festose e squillanti, raro e costoso sollazzo dato ai rari ospiti e delle quali esse pure erano parte, ma dalle caccie quotidiane, rude esercizio di forza e di astuzia, consueta e quasi unica educazione che i padri davano ai figli. Di là anche, le giovani donne ammonivano il damo che s'aggirava cauteloso nei pressi del castello, e con segnali convenuti gli davano la posta. Se non che, a scapito della poesia romantica, ed a gioia grande del demonio, esse solevano pur troppo concedere e richiedere amore, a gente dimorante, per uffici che vi tenessero, nel castello, e la distribuzione degli appartamenti aiutava i raggiri infernali perchè le camere delle donne stavano tutte dall'un lato del castello e quelle degli uomini dall'altro.
La famiglia del signore teneva il primo piano della casa. Il secondo era destinato agli ospiti. Ciò dico, dei castelli, non delle abitazioni signorili della città, nelle quali erano di solito serbate pei forestieri molte camere al piano terreno.
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La mattina, all'alba, il cortile è pieno del vario popolo dei servi e dei valletti. Gli uni portano le provvigioni alle cucine, e gli altri forbiscono le armi od i fornimenti per le cavalcature, gli scozzoni strigliano i cavalli, il maggiordomo, sotto il portico, misura, pesa e registra il latte, le farine, le ova ed il pollame che i villani arrecano dalle prossime cascine. Nel secolo XIV ancora squillava, al levare del sole, il corno della torre maggiore. Ora quell'uso guerresco è dimesso. Il signore s'alza per tempo, poichè andò la sera innanzi per tempo, al riposo. Quando gli tocca levarsi ad ore insolite, egli ricorre allo svegliarino, che chiamavano allora oriolo col destatoio, del quale, verso la fine del secolo XV, già l'uso era quasi comune. V'erano anzi orioli di così sottile congegno, che all'ora voluta, non solamente risonavano stridendo, ma battevano l'acciarino ed accendevano la candela. Appena desto, il Castellano scendeva alle stufe, pel bagno, bella usanza dovuta alle Crociate e che si andò perdendo di poi, e fu ripresa che non è molto; indi attendeva a vestirsi coll'aiuto del domestico che si era tutta la notte giaciuto sul tettuccio accanto al letto padronale. Di dormir solo in camera non si attentava nessuno. All'ospite era squisita cortesia, offrire il Castellano un posto nel suo proprio letto. E sempre o una dama, o una vecchia fante, dormiva o nel lettuccio accanto o nel letto istesso della Castellana. Di questa singolare, e a giudizio dei nostri tempi, fastidiosissima usanza, sono piene le novelle. E poichè, bisogna pur dire ogni cosa, la domestica non si rimoveva di camera, nemmeno quando il rimanervi la riduceva a terzo incomodo; se non che i signori, quasi non avendola in conto di creatura umana, nulla curavano di lei.
Com'era vestito, messer Castellano faceva le prime devozioni prostrato all'inginocchiatoio, e la Castellana nel piccolo oratorio adiacente alla sua camera. Bello e raccolto luogo di preghiera, colla vôlta azzurra a crociere dorate e tutto stellato il cielo e colle pareti dipinte a figure preganti inginocchiate fra l'erbe ed i fiori di un prato. Spesso quelle devote imagini raffiguravano la Castellana ed il signore, riconoscibili all'arme di famiglia che portano sulle vesti, e in fondo al prato sorgeva l'imagine del castello, dalle cui torri ascendeva fra nimbi al cielo un volo di angeli e di santi.
Poi tutta la famiglia si raccoglieva ad ascoltare la messa ed a comunicare nella ricca e fastosa cappella, servita da un cappellano che risiedeva in castello, dopo di che Madonna dava una prima capata alle cucine, Messere alle scuderie o alla sala dell'armi dove attendeva ad armeggiare coi figlioli o cogli ospiti o cogli scudieri, e le figliole girellavano nel giardino cogliendo fiori e dedicandoli intenzionalmente a lontani od a prossimi sospiranti. Quando la casa non aveva ospiti, i giorni del bucato, la signora e le figliuole non disdegnavano scendere nell'orto a sciorinarvi i panni, e nemmeno sdegnavano portarveli stillanti nelle ceste a ciò destinate, o se non era l'orto era qualche alta terrazza vicina al tetto. Altro ufficio della Castellana e delle figliuole, è la cura delle tappezzerie e degli arazzi, che si tengono piegati su appositi scaffali nella stanza chiamata per l'appunto: la guardaroba delle tappezzerie, è collocata di solito all'ultimo piano il più asciutto della casa ed il meno polveroso. Le fanti vi passano intere giornate a spiegare, battere, rimendare e ripiegare i preziosi paramenti, ma tale è il loro valore ed in tale pregio sono tenuti, che per lo più vi attende direttamente la padrona. Ben inteso, che a queste piccole cure le Castellane non andavano vestite di broccato, di raso o di tocca, quali ce le soliamo raffigurare. Simili vesti passavano per eredità dalla madre alla figliuola, onde è a credere che non le portassero se non nelle grandi occasioni. In casa, anzi, il vestire era dimesso, forti panni paesani a colori oscuri, biancheria grossa ed ahimè mutata di rado, ed ai piedi certe grosse pantofole di panno.
Del signore poi non parliamo che tra le armi, la caccia, le scuderie e le visite ai poderi, Dio sa come si trovasse conciato la sera. Alle dieci della mattina uno squillo di corno annunzia il desinare. Anche nei giorni ordinari, sono molti e grossi piatti: carni di bue, di cinghiale, di capriolo, di montone, galline, fagiani, e via dicendo, condite e fatte piccanti da salse formidabili, tutte aromi e pizzicori mordenti, pepe, gorofano, cannella, ginepro, ambra, belzoino, noce moscata, anice ed altre nostrane ed orientali delizie, sulle quali primeggiavano pur troppo l'aglio e la cipolla. Tale copia, scelta, e condimento di vivande, sono fatte apposta per stimolare la sete cui provvedono le ben fornite cantine che non più contente del prodotto paesano, già accolgono una ricca varietà di vini italiani e forestieri cotti e crudi. Cocevano per conservarlo più a lungo, il vin greco di malvasia, venuto di Candia, che solevano condire con aromi. Fra gli italiani era famoso un certo vino di Piacenza che nessuno più conosce, se pure non proveniva dai colli di Voghera e di Stradella, e del quale facevano grande incetta anche le cantine francesi. Erano gustati assai i vini di Toscana e di Sicilia, e fra i piemontesi il Nebiolo ed il Caluso. Ma a leggere i novellieri, non pare che presso di noi le copiose e robuste bevute degenerassero o era caso raro, in quelle brutali cotte di che menavano vanto i signori di Francia e di Allemagna. I novellieri italiani parlano raramente di gente briaca, nè si sarebbero astenuti dal farlo, quando ne avessero trovato frequente argomento nella vita del tempo loro.
La tovaglia della tavola usava larghissima e pendente quasi fino a terra perchè i lembi cadenti facevano l'ufficio del tovagliolo che ancora non costumava, ed a quelli si forbivano i commensali. Sempre al cominciare e al finire del pranzo era data l'acqua alle mani. Acque profumate, di solito alla rosa; e di profumi facevano poi grande abuso in ogni momento della giornata. Innanzi di portare in tavola un piatto, la sospettosa vigilanza dei Castellani voleva che se ne facessero palesi assaggi, paurosi come essi erano di veleno, e usavano pure tenere sulla tavola specifici ed amuleti contro l'azione dei veleni. Il Cibrario scrive, che nell'inventario delle gioie di Carlo I duca di Savoia (l'anno 1480) è registrata: “une espreuve plaine de langues de serpans pour tenir sur la table pour eviter le venyn„ ed aggiunge che forse era destinata allo stesso ufficio, o ad ogni modo, era tenuta in conto di amuleto, una “pierre, noire crapaudine, garnie a une chainette d'or„, compresa nello stesso inventario.
Dopo il pranzo che era protratto quanto più lungamente si poteva, il signore faceva quella siesta, che fu bazza per i novellieri. I fanciulli, dopo alcun tempo dato ad esercizi fisici, riparavano poi col pedagogo nella libreria (dove erano, caso raro, librerie), o nella stanza data agli studii. Si trovano ancora in parecchi castelli certe stanzette, all'ultimo piano, recanti sui muri, segnate in rosso, le figure elementari della geometria con scritture che datano certamente dal secolo XV. La Castellana e le figliuole riparavano nelle camere loro, ed attendevano, nella speranza di qualche visita, ad adornarsi. O forse in quell'ora le giovinette aggirandosi in ozio per la casa confidavano alle nude muraglie della scala e dei corritoi, i segreti movimenti del loro cuore, incidendovi motti, date, pensieri e sentenze amorose. O andavano rintracciando e rileggendo le sentenze scrittevi da altri che erano come lettere al loro recapito.
Il Castello d'Issogne serba molte di tali scritte che ci danno a conoscere il nome, ed in certa misura l'animo degli ospiti che vi dimorarono. Vi fu ospite un tale Escobar che segnò sulle pareti il proprio motto: Selon le pouvoir, colla firma e la data. Vi passarono pure un tedesco, Wolf. Sckonfletter, ed un francese, De Vateuil, il quale fa precedere al proprio nome queste parole sibilline: Non sans cause. Un messere P. Gran scrive: In Omnes et ad omnia fidus, e lo stesso Escobar di pocanzi tornatoci una seconda volta: No piedo mas fortuna, più non cerco fortuna, onde è a credere che l'avesse trovata, o che si fosse rassegnato a disperarne per sempre. E ancora l'Escobar sentenzia: Palabras de piuma lo viento le lieva. Poi vengono gli anonimi: Qualis homo talia opera. A mala fama caveas. Sic vive ut postea vivas. Ed i consigli igienici:
Carolus ægrotus faciunt ieunia morbum,
Ut recte valeas, Carole sume cibum.
Un altro tedesco apre l'animo con due versi così ingenui e sinceri che muovono a pietà.
Per non mostrar el mio dolore
Talvolta rido che crepe el cuore.
Thoma Druenwald. von Nuremberg.
Durante un periodo di tre anni, a giudicarne dalle date, si direbbe che sia passato nella valle e sul castello un vento caldo, tutto impregnato di olezzi stimolanti; un vento snervatore e tentatore, soffiato dal demonio per scombuiare l'animo delle castellane. Sui muri, abbondano sentenze d'amore ripetute a sazietà, scritte sempre dalla stessa mano, mano femminile, mano padronale e signoresca, poichè ebbe agio di confidare a tutte le stanze del castello la piena dell'animo. Quella che s'incontra più spesso dice: Omnia vincit amor, l'amore vince ogni cosa, sentenza che colma le distanze gerarchiche, ed afferma la assoluta sovranità del piccolo Dio. Un'altra dice: Non est amor imo dolor, mulieris amor. Non è amore, ma dolore, l'amore della donna. Dolore, è a credere, di virtù resistente; se non che la resistenza poco dura e l'amore finisce veramente per vincere ogni cosa, poichè l'anno appresso, la stessa mano scrive: Vivamus et amemus, grido di gioia spensierata, allegro ritornello di una canzone forse malinconica. Infatti, in poco d'ora, l'idillio si chiude in elegia e l'angoscia esce in lamenti in ogni parte della casa, colle scritte: In me turbatum est cor meum, in me turbato è il mio cuore, e: Meror et dolor venerunt super me: il pianto ed il dolore vennero sopra di me, le quali si incontrano in ogni dove, sulla scala, negli anditi, nelle camere delle donne.
*
Riprendiamo la nostra giornata.
Quando capitavano visite, o v'erano ospiti in casa, verso le due, tutti convenivano o nel giardino o nel parlatoio, e là si trattenevano confettando e bevendo. A questa specie di lunch erano rosoli, marmellate, bocche di dama, pasticci, uccelletti arrosto, e le migliori frutta della stagione. La Castellana apprestava canzonieri scelti ed ogni sorta di lodevoli istrumenti, ed erano musiche e canti di madrigali fino all'ora della cena, che batteva tra le quattro e le cinque pomeridiane, ed era il maggior pasto della giornata.
Delle caccie, delle cavalcate, e di altri fastosi e festosi sollazzi non parlo, perchè, come ho detto in principio, essi meno appartengono alla vita privata che alla pubblica, e perchè troppo già furono e maestrevolmente descritti, e d'altra parte richiederebbero troppo lungo discorso. Basti dire, che verso la fine del secolo troviamo le prime carrozze o carrette come le chiama il Bandello, ma erano poche, e non usavano che nelle città. Non avevano molle, ma portavano fregi ricchissimi e dorature, ed erano ricoperte di stoffe maravigliose. Le tiravano, a seconda dei casi, due, quattro, sei, otto cavalli, dei quali i più pregiati erano i Frisoni ed i Corsieri del Regno di Napoli.
Molti e vari erano i giuochi da tavola, il trictrac, gli scacchi, i dadi, le carte, che servivano al Picchetto ed all'Homo, un giuoco portato di Spagna, ed i tarocchi, che non furono già come si volle inventati a svago dal re Carlo VI di Francia, ma vennero d'Oriente, a segno che un moderno dottissimo ma fantasioso negromante, l'Eliphas Levi, ravvisa nelle figure del pazzo, del carro, della giustizia, della morte, del mondo, delle stelle, e via dicendo, i segni cabalistici del libro di Salomone.
Ma di tali giuochi, eredità del fosco Medio Evo, e delizia poi della grossa nobiltà dei secoli XVII e XVIII poco si diletta il nostro castellano. Egli preferisce il pallone, o la più domestica partita alle boccie in cortile o sul prato, cogli scudieri, col cappellano o col pedagogo. Già non è a credere che quelle menti non provassero quel continuo bisogno di attività e di applicazione, che agita le nostre. A furia di voler noi ammazzare il tempo, il tempo si vendica e ci ammazza: quelli lo lasciavano vivere, e si ristoravano delle cercate fatiche fisiche, abbandonandosi ad una specie di assopimento intellettuale. Agitate e pronte erano le menti nelle città e quelle dei fortissimi avventurieri che in quel secolo e nel seguente disfecero e crearono stati; ma se da essi procede e di essi parla la storia, non se ne deve indurre che gli animi in generale e gli ingegni dei signori somigliassero ai loro. Essi diedero la scalata alle signorie, poichè ne ebbero abbassato il prestigio, e la dappocaggine dei molti fu appunto argomento e giustificazione al prevalere dei pochi. Io per me credo, che in tale dappocaggine sia da cercare la ragione dei corrottissimi costumi femminili di quel tempo. Dalla decadenza romana a noi non s'incontra altro periodo di così largo rilassamento morale. Nè la religione poteva oramai fare argine allo sfrenarsi delle passioni. Al tempo del carnevale, era lecito ai religiosi di rallegrarsi, onde i frati tra loro recitavano commedie, e di qual fatta!, e suonavano e cantavano ballando, e alle monache non si disdiceva, quei giorni, vestirsi da uomini, colle berrette di velluto in testa, colle calze chiuse in gamba e colla spada al fianco.
È davvero inconcepibile come in mezzo a tanto rinnovamento di studi e gentilezza di coltura le donne parlassero lo sboccato linguaggio che loro attribuiscono gli autori di commedie e i novellieri. Il Boccaccio è di gran lunga più riguardoso. Nelle Cene del Lasca, troviamo narrata da una donna, Amaranta, e con minutissimi particolari, la sconcia beffa fatta da un giovine ricco e nobile al suo pedagogo, ed essa è tale che nessuno artifizio di stile potrebbe farmi lecito di raccontare. E quella del Lasca a sentirlo era compagnia che sapeva di greco e di latino. Dicono: erano più sinceri di noi. Ma, astrazion fatta della morale, la verecondia è più una grazia che una virtù, ed è grazia sopratutto di gente colta. Nè Virgilio, nè Orazio, nè Catullo, nè Ovidio, nè lo stesso Giovenale, potevano apprendere a quelle dame ed a quei cavalieri somiglianti modi, onde è lecito sospettare che la vantata coltura fosse meno diffusa di quanto si crede, sicchè la gentilezza dei pochi nulla potesse contro la rozzezza dell'universale. Ed è certo poi che fra i meno colti, era il mio signor Castellano. Il quale, venuta la sera, si riduceva accanto al fuoco, in sonnacchioso silenzio, e le donne fatte alcune lente danze al dubbio chiarore delle fumose lucerne, prima novellavano alquanto fra di loro, indi infilavano in cerchio pater noster ed ave Marie, ed il cappellano dava loro lo spunto. Poi i valletti mescevano al signore il vino del sonno, e Madonna e Messere ognuno dalla sua ed in diversa e servile compagnia andavano a letto.
E a me non rimane che augurare tranquille notti a quei morti, e gioconde giornate a questi vivi.