La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte I

La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte I
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Various. La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte I

LA POESIA DEL QUARANTOTTO

LA POESIA DEL GIUSTI

G. G. BELLI E LA VITA ROMANA

IL TEATRO UNA MUSA SCOMPARSA

LE BELLE ARTI DALL'HAYEZ AI FRATELLI INDUNO

IL VAPORE E LE SUE APPLICAZIONI

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Signore e Signori,

Chi dice «poesia del Giusti» (della quale, in relazione con la poesia italiana, mi propongo parlarvi) intende comunemente qualche cosa di agevole e svelto, nato senz'ombra di artifizio, un concepimento simultaneo e un'unione così schietta d'idea e di parola, che la parola vela appena l'idea senza punto impacciarla, e letto che si è ci pare che la cosa non potesse proprio esser detta altro che in quel modo lì. Nè fanno ostacolo il verso o la rima: perchè i metri sono quasi sempre i più snelli, i più vivaci, i più carezzevoli; nè il verso chiede mai al metro nulla di più di quello che il metro, secondo il suo naturale congegno e le pose sue ovvie, conceda; e la rima, la rima sembra appostata in fondo al verso a riceverlo a braccia aperte, e che se vi accadesse di ripetere quelle cose conversando, incappereste in quelle rime anche voi. Conversando, sicuro; perchè il Giusti è il poeta più conversevole che vi paia aver mai conosciuto: e quando egli scherza con voi, voi ne sentite la voce, voi lo vedete sorridere, e ammiccare, e comporre il viso, come il discorso richiede; cosicchè non manchi a quel tanto che la parola scritta ha di muto, non manchi (tale è, leggendo, l'illusione) l'avvivamento del tono, dello sguardo, dell'atteggiamento, del gesto.

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E nata satira più specialmente della regione toscana, addivenne popolare in tutta Italia, sì perchè a Italia tutta aveva il cuore il Poeta, e sì per le virtù nazionali della lingua toscana. Nè in altre regioni d'Italia nostra fu potuta la satira del Giusti imitare tollerabilmente, come potè essere quella del Guadagnoli dal Fusinato veneto. L'Italia ebbe dalla Toscana il suo Giusti; e basta. Rimase poi all'idioma meneghino la gloria del Porta artista sovrano; e il Piemonte patriottico ebbe un di mezzo fra il Giusti e il Béranger nelle Canzonette dialettali di Angelo Brofferio; e nel dialetto romanesco, il Belli atteggiò a epigramma popolare quel vecchio peccatore aristocratico del Parnaso italiano, il Sonetto; ve lo atteggiò con arguzia che direi non emulata, se non avessimo, parlati dal popolo pisano, i Sonetti di Renato Fucini.

Ma tornando al Giusti, il quesito sulla originalità della sua poesia, fu, almeno indirettamente, cioè in questi altri termini, – come fosse ella fatta, e in che assomigli o dissomigli a poesia di altri, – fu proposto assai prima che si curiosasse di critica quanto oggi; e dette occasione a uno scritto di Gino Capponi, che è, ad un tempo, e la testimonianza più autorevole anzi l'autentica, e la critica più intima, che della poesia del Giusti si sia avuta, anche dopo le belle pagine del Carducci, del Panzacchi, del Camerini, del Martini, del Masi, del Biagi. Rispondeva il Capponi nel maggio del 1851, appena un anno dopo la morte del caro ospite suo, a un articolo del critico francese Gustavo Planche, il quale era venuto narrando a' suoi compatriotti, essere il Giusti una sorta d'improvvisatore che, impaziente o incurante delle bellezze di stile, accettava senza pensarvi la prima parola che gli scendeva giù per la penna: perciò privo di vivezza, di eleganza, di precisione, di tutte insomma le doti proprie d'uno scrittore che ami e rispetti l'arte sua. Al che il Marchese, con quel suo sorriso benevolo che gli abbiamo conosciuto e quella temperanza che tanto più gravi quanto più miti faceva le sue sentenze, rispondeva, quello essere il ritratto non dell'amico suo ma di altri poeti (i burleschi appunto del penultimo periodo), diversi tanto dal Giusti, quanto «l'età decorsa, in ciò ch'ella ebbe di più sfrontato, discostasi dal sentire della nostra, e dalle norme ch'essa impone ad un'anima e ad una lingua naturalmente gentili.» Di questa lingua avere il Giusti, dai grandi scrittori e dal popolo, anche campagnolo, tratto tutto quanto è di più fino ma insieme di più nascosto, mediante un senso squisito suo proprio, educato sui classici latini e nostri, ed un grande studio ch'egli poneva con ostinata perseveranza nello scegliere le voci e collocarle industriosamente. Da ciò esser venuta alla sua poesia una efficacia piuttosto condensata e ristretta, «intesa com'ella è a penetrare più addentro»; tantochè aveva egli finito col quasi «negare parte di sè alla spedita intelligenza di molti degl'Italiani suoi» (il che è verissimo, e i commenti venuti dopo lo dicono), non che dei Francesi. E a questi più particolarmente volgendosi, e «sfidando la Francia tutta» a cogliere il valore di certi motti giustiani, come quello (negli Eroi da poltrona) sulle sorti future d'Italia «Vattel'a pesca», adduceva il Béranger, «nome» dice il Capponi «che riviene spontaneo a proposito del Giusti»; e dichiarava che non avremmo noi osato, sebbene tanto più familiari e alla lingua e alle cose di Francia che non alla lingua e alle cose d'Italia i Francesi, non oseremmo noi, e saviamente, dare sentenza sul Béranger (come nè su certi altri quasi indigeti di quella letteratura, quali il Lafontaine, il Rabelais), per non risicare di giudicarlo piuttosto facitor di canzonette che poeta. L'onore del qual nome, nel senso di artefice consapevole, e in queste due cose soprattutto insigne, «squisitezza di forma, finezza di espressione», rivendicava egli al Giusti contro la condanna pronunziata dal Planche, che «i versi suoi non vivrebbero».

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