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LE PRIME ACCOGLIENZE
IV

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De' tanti giudizi dati da' giornali d'allora intorno a' Promessi Sposi, due levarono un gran rumore: quello della Biblioteca italiana e quello dell'Antologia: ma l'eco di quest'ultimo, scritto da Niccolò Tommaseo60, si dileguò ben presto; non così l'eco dell'altro, uscito dalla penna di Paride Zaiotti61, in voce di critico ingegnoso e acuto tra' partigiani della vecchia scuola. Fin dal '24, appunto nella Biblioteca italiana, aveva scritto un lunghissimo articolo intorno all'Adelchi, diviso in due parti62; ma la Censura austriaca (è proprio il caso di ripetere: Tu quoque, Brute!) ne corresse e mutilò alcuni brani, con grave dispiacere del critico, che li mandò a leggere manoscritti al Manzoni; il quale, vinto dal tratto cortese, fu forzato a rispondergli e a ringraziarlo63.

L'incarico di scrivere la rassegna de' Promessi Sposi l'accettò contro voglia: era un libro che non gli andava a sangue; lo riteneva «sotto alcuni rapporti» inferiore alla Sibilla del Varese che, a suo giudizio, «era un romanzo, cosa che non osava dire degli Sposi promessi». La scrisse finalmente, dopo essersela fatta aspettare un gran pezzo; per concludere: «bello è questo romanzo, ma il Manzoni potea fare anche di più». E si accordò con lui il Tommaseo ripetendo: «dall'ingegno e dall'animo di Manzoni si deve pretender di più»64. Erano due delle tante «persone di gusto», che «lo trovavano molto inferiore all'aspettazione».

Un bibliofilo romagnolo, Giacomo Manzoni di Lugo, il futuro ministro della Repubblica Romana, inviando al P. Alessandro Checcucci l'articolo dello Zaiotti: Del romanzo in generale e dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni discorsi due, l'accompagnava con questa lettera: «Vi mando il libro dello Zaiotti, di cui vi parlai. E certamente questo vi sarà dono gratissimo, chè due prose di questo genere, così ben condotte, e scritte con pari facondia e modestia forse non le ha l'Italia nostra. Fra le lodi le più smodate che da ogni parte son piovute e piovono sopra il romanzo del Manzoni, fra il grido che lo proclama capo-scuola del Romanzo storico e principe dei romanzieri italiani, levarsi in piedi e pubblicare una censura di 101 pagine, giusta dalla prima all'ultima parola, sempre dignitosa senza iattanza, sempre riverente senza viltà, scriverla con istile che ogni letterato vorrebbe invidiargli, piano, armonioso e variatissimo, e divulgarla, e trovar plauso in Milano, sotto gli occhi del Manzoni, nel teatro delle maggiori sue glorie, è impresa ardua davvero». Il P. Checcucci si affrettò a fare una nuova edizione di «questi due maravigliosi discorsi, sì perchè chi non l'ebbe ancora alle mani potesse ammirarvi la vasta dottrina, la stupenda eloquenza, la profonda erudizione ed il retto giudizio di quell'esimio scrittore; sì perchè i giovani specialmente, usi a muoversi più per affetto che per ragione, nel giudicare delle opere, sebbene d'uomini grandi e giustamente reputati, prendano piuttosto norma dalle regole invariabili dell'arte, che dal prestigio dell'opinione, alcune volte sospetta e ben sovente non buona». Il Checcucci battezzò «quinta» la sua edizione65, ignorando che l'autore stesso già ne aveva fatta una «sesta» a Venezia66; nella quale, per bocca del tipografo, manifesta l'intendimento suo: quello di «preservare il cuore e l'ingegno» degli italiani «dalle dannose influenze che recar potevano i grandi esempi di Gualtiero Scott e di Alessandro Manzoni».

Lo Zaiotti, a cui non manca nè erudizione, nè urbanità, nè qualche acuta osservazione particolare, in fondo ammirava il Manzoni, ma come poeta e poeta lirico soprattutto. Fedele alla scuola de' classici, che proscrive in letteratura quanto non ha faccia d'antico, parlò del Manzoni tragico col preconcetto che fosse fuori di strada: «perchè vorrà egli ostinarsi ad esser meno di Sofocle, quando l'Italia gli offre la corona di Pindaro?» Parlò del Manzoni romanziere col convincimento che il romanzo storico sia da rigettarsi; e appunto perchè un grande ingegno si era dato a coltivarlo, gli parve una missione riparatrice flagellare quel nuovo genere senza pietà. A difesa del romanzo storico67 si levò animoso Giuseppe Mazzini; pur confessando (ed era giustizia) che «l'autore dei due discorsi scrivendo a lungo del romanzo d'Alessandro Manzoni, il fece con sì gentile animo e tanto affetto del vero, da insegnare ad ognuno, come la critica debba trattarsi». Nota che lo Zaiotti, «prevalendosi della fama che circonda il caro nome del Manzoni, attribuisce unicamente a vizio del genere il difetto d'interesse e calore ch'ei trova nei Promessi Sposi. Forse il difetto si esagera, e più d'una donna gentile che ha palpitato sui casi dell'ingenua Lucia e impallidito al ritratto dell'Innominato, accusa il giudizio di rigidezza; ma foss'anche vero, che trame? L'ingegno del Manzoni è vastissimo; ma a nessuno è dato balzar fuori, in un genere nuovo, perfetto come Pallade dal capo di Giove. Fors'egli avrebbe dovuto scegliere i suoi e personaggi ideali in una condizione, che ammettesse, se non più amore, modi almeno d'esprimerlo più caldi, e mezzi maggiori d'azione. Fors'anco il fine ch'egli ebbe di rischiarare un oscuro periodo del secolo XVII si svela troppo apertamente ad ogni capitolo, sicchè n'è riuscita piuttosto una storia resa dilettevole da romanzesche avventure innestatevi, che un romanzo fatto utile dall'intreccio d'un quadro storico»68.

Nell'esaminare l'Adelchi lo Zaiotti ne propose un nuovo disegno, «dove il notabile si è che violando la storia, viensi a provare come la storia sia necessaria a poesia»69. Anche nell'esaminare i Promessi Sposi suggerì de' mutamenti; questo, tra gli altri: «anche il luogo, in cui l'ottimo frate» [il P. Cristoforo] «viene ricondotto sopra la scena, ne sembra da collocarsi fra quelli che permettevano all'autore di aprire più largamente in suo volo… Era giusto che il tribolato servo del Signore raccogliesse finalmente la palma di quel suo lungo martirio, e felice era stata l'idea del Manzoni di presentarcelo afflitto di peste, e tuttavia occupato a confortare gl'infermi: anche l'aver colà ridotto don Rodrigo, ed uniti così l'oppressore, il difensore e le vittime, era degno di massima lode, perchè dava campo ai più gagliardi contrasti… Ma diremo noi che fosse impossibile il far meglio che raccontarci così in due parole le morti di don Rodrigo e di padre Cristoforo? Il Manzoni, meditando su quella situazione, avrebbe senza dubbio trovato qualche alto concetto, al quale noi non potremmo nè di lontano mai arrivare: tuttavia chi ne vieta di esporre anche un nostro pensiero? Renzo, che ha già rinvenuta la sua Lucia, torna dal frate per narrargli l'impedimento del voto ed implorarne l'aiuto: ma il frate, oppresso dalla gravezza del male, è caduto presso il letto di don Rodrigo che soccorreva, nè v'è più speranza ch'ei si possa rialzare. Le preghiere di Renzo gli vanno all'anima, ma la morte già vicina lo ha disteso su quella terra a cui sarà ricongiunto fra poco. Corri, egli dice coll'ultimo avanzo della cadente sua voce, corri da Lucia e qua la conduci, prima che venga la chiamata di Dio. Il povero Renzo vola alla capannetta della fanciulla, che con passi vacillanti, pallida pallida, lo segue, finchè giungono a quei due moribondi, che aspettano una sì diversa mercede. Ecco gli accusatori, il testimonio ed il reo: il Giudice sta più in alto, e fra pochi minuti l'irrevocabile sentenza sarà pronunciata. Gran Dio, non entrare in giudizio co' tuoi miseri servi! Noi non osiamo proceder più oltre, che l'ingegno ne cade innanzi a tanto orrore e a tanta pietà: ma che non avrebbe saputo fare il Manzoni? Gli effetti della Grazia erano già stati descritti nell'Innominato; qui rimaneva a mostrarci la disperata morte del reprobo, e il quadro riusciva perfetto, perchè lì presso ne consolava la placida dipartita del giusto. Una maledizione su gli sposi e sopra sè stesso è uscita da Rodrigo, padre Cristoforo ha sciolto il voto, e benedetti i due giovani. Un profondo silenzio è succeduto a quelle parole: tutto è finito. Si separino quei due corpi, che più non saranno vicini in eterno. Guai a chi non intende la muta lezione che s'innalza dalla polvere di quella capanna! È impossibile che i lettori non si dolgano pensando al maraviglioso partito che la mente e il cuore del Manzoni avrebbero tratto da tanta passione: ma anche qui è sempre necessario ripetere, che senza mutare l'orditura del romanzo non poteva arrischiarsi una scena sì viva. La narrazione degli avvenimenti successivi dopo quell'impeto d'affetti non era più tollerabile, ed ivi stesso, davanti a quel letto di morte, Renzo e Lucia doveano rinnovare il loro giuramento, abbandonata ogni più minuta conclusione alla fantasia de' lettori»70.

Nell'ottobre del '27 mentre a Milano usciva alla luce il compimento di questi discorsi, Niccolò Tommaseo veleggiava per l'Adriatico, e parte negli ozi della traversata, parte in mezzo alle isole della sua Dalmazia e nel porto d'Ancona fece una quantità di postille71 sopra un esemplare de' Promessi Sposi donatogli dal Manzoni. Alcune sono in lode; le più in biasimo e non senza acrimonia72. Il Manzoni, raccontata la favola dello «scartafaccio», soggiunge: «Ed ecco l'origine del presente libro». Il Tommaseo chiosa: «Questo non iscusa la bugia. Si dirà che il Romanzo è tutto una bugia. Io rispondo che mentire non è mai bello». Ritiene «che più naturale sarebbe stato, invece di villani73, scegliere una famiglia di città, povera, ma gentile, chè anche allora era modo di dar risalto anche ai quadri campestri». Trova «che don Abbondio in questo romanzo fa troppa figura, occupa troppo spazio»; gli sembra «scarso di sovrane bellezze tutto ciò che» nel secondo tomo «appartiene al cardinal Federigo e all'Innominato»; e giudica si convertisse «troppo rabbiosamente»74. Del resto, a mettere in evidenza i biasimi tutti, bisognerebbe trascrivere le postille in grandissima parte, e con le postille l'ostico giudizio che inserì nell'Antologia75; dove la lode è sempre misurata, il desiderio di censurare vivissimo sempre; e la lode rivolta non al libro, ma all'uomo, «grande e per cuore e per ingegno», «ingegno mirabile», «sovrano ingegno», «ingegno divino», «uomo divino», «genio e cuore apertissimo», «il giusto solitario», «il poeta del meglio», che si era perfino «abbassato a donarci un romanzo»; divinizzazione76 che dispiacque ai Leopardi, «perchè ha dell'adulatorio, e gli eccessi non sono mai lodevoli».

Il Tommaseo a mano a mano andò temperando e modificando quel severo giudizio, e quando nel '43 ristampò ne' suoi Studi critici il vecchio articolo dell'Antologia molto vi tolse, non solo per condensar meglio il pensiero, ma anche per renderlo meno aspro e meno reciso77. V'aggiunse un accenno alla lingua adoperata dal Manzoni ne' Promessi Sposi; punto che fin allora non aveva toccato altro che in una lettera confidenziale a Cesare Cantù, scritta da Parigi l'11 gennaio del '37. Gli dice: «Godo che il Manzoni pensi a ristampare il romanzo, egli stesso; e tanto meglio se con mutazioni e con giunte. Non ponga indugio; non badi a' suoi scrupoli troppi, nè agli sdottoramenti dei consiglieri immancabili, de' quali è provveduto appunto chi non ne ha bisogno. Lasci stare ogni cosa, muti solo qualche parola o qualche modo, se vuole: e anche questo con carità, senza spellare vivi quel Renzo e quella Lucia»78. Le parole aggiunte al vecchio scritto son queste: «Nella dicitura senti meditazione e cura continua. Io non dirò se per tal cura Manzoni sia giunto a veramente italiana proprietà di linguaggio e snellezza di stile: ma certo è che ne' modi lombardi e francesi o non acconciamente toscani della prima stampa, quanto nelle docili e felici (sebbene non sufficienti) correzioni della stampa recente, è copia grande d'ammaestramenti agli amatori dell'arte»79. Il primo giudizio nella sostanza non lo mutò mai. Già vecchio, a un amico, che voleva scrivere intorno a' Promessi Sposi dava per consiglio: «Com'egli» [il Manzoni] «senta e ritragga la natura visibile è altresì da notare; il cielo, i monti; gli alberi, le acque; i suoni, i colori; se non che alla freschezza del sentimento e alla maestria dello stile, in quanto lo stile è concetto, non direi corrispondere sempre, anzi di rado, la freschezza e franchezza dello stile in quant'è lingua e armonia». Poi soggiungeva: «All'arte proprio direi, che nell'esame di tale lavoro non sia da dare peso se non in quanto essa è moralità». Voleva «della lingua e del numero» de' Promessi Sposi studiasse «quel che c'è di straniero, d'incerto, d'improprio, di prolisso senza necessità di chiarezza»80.

Giambattista Bazzoni81, uno degli emuli, volle egli pure dire la sua. «I Promessi Sposi s'udirono annunziare tanto tempo innanzi che apparissero al pubblico, ch'ebbero tutto il campo di ricevere dalle mani abilissime del loro valente autore quella forbita, lucente e veramente nuziale acconciatura di cui egli seppe adornarli. V'ha in quei libri una inimitabile proprietà di vocaboli, espressioni fine, vere, calzanti: vi si trova per tutto una vita, un'indagine profonda del cuore, delle circostanze, delle cause; un nesso invisibile, ma universale, efficace, che offre pascolo a tutti i gradi d'intelligenza; è un complesso insomma di quadri affatto nuovi e sublimi. È vero però che vi si rinvenne un lato vulnerabile come il calcagno nel fatato corpo d'Achille; ma però le saette ad essi scagliate dai nostri Paridi non li ferirono sì addentro da togliere loro la vita, che durerà anzi sempre robustissima».

Ombra di Giambattista Bazzoni, che ti aggiri tra le rovine dimenticate del tuo Castello di Trezzo, metti il cuore in pace: non ebbero da quelle saette neppure scalfita la pelle; del resto, così dura, che sfida i secoli!

Torino, 27 marzo 1905.

Giovanni Sforza.

60

Antologia, n. 82, ottobre 1827, pp. 101-119. L'articolo, invece del Tommaseo, doveva scriverlo il dott. Gaetano Cioni, come si rileva da una lettera di Giuseppe Montani, del 16 di settembre: «L'articolo sugli Sposi Promessi lo fa il dottor Cioni. Manzoni è qui [a Firenze] adorato da tutti. Il Granduca ha voluto veder lui e il suo bambino, che sempre lo accompagna. Gli ha fatta, mi dicono, la più affettuosa accoglienza». Il 1º agosto aveva scritto: «Aspettiamo di giorno in giorno il Manzoni, e mai non lo vediamo. Del suo romanzo (crederesti?) non è ancor giunta copia, se non al Batelli, che gli fa il brutto complimento di ristamparglielo».

61

Biblioteca italiana, n. 141, settembre 1827, pp. 422-472; e n. 142, ottobre 1827, pp. 32-81.

62

La prima fu stampata a pp. 322-337 del t. XXXIV [marzo 1824]; la seconda a pp. 145-172 del tom. XXXV [aprile 1824].

63

Pubblicai questa lettera, scritta da Brusuglio il 6 luglio del '24, in Milano vecchia, strenna del Pio Istituto dei Rachitici di Milano, Anno IX, Milano, tip. Bernardoni di C. Rebeschini e C., 1889; pp. 51-58.

64

Come si accorda quello che il Tommaseo scrisse de' Promessi Sposi nelle sue lettere al Vieusseux con quello che stampò nell'Antologia? È un repentino voltafaccia: non si può chiamare con altro nome. Il Barbi si domanda: «Ma è stato preso proprio pel suo verso quell'articolo? Ne dubito. Occorre, a intenderlo bene, una ricerca psicologica sul Tommaseo uomo e scrittore, e storica sull'ambiente, e dimenticare l'impressione che fa oggi generalmente il romanzo… E non può essere, che dove il Tommaseo tocca d'alcuni difetti, avesse in animo d'attenuarli e giustificarli, e che l'intendimento apologetico non appaia chiaro, o perchè così ha voluto l'autore, o per mancanza di quei nessi logici e formali che egli era solito trascurare? Avrebbe così ottenuto effetto contrario a quel che si proponeva; ma, si sa, altro è scrivere, altro riuscire a farsi intendere!» Questa spiegazione, per quanto ingegnosa, non mi persuade. Leggendo le postille e l'articolo si vede che a ogni istante la viva e sincera ammirazione del Tommaseo per i Promessi Sposi è come troncata dagli occulti paragoni ch'egli fa inconsapevolmente tra il Manzoni e sè stesso; e appunto quel continuo guardare a sè stesso gli svia il giudizio. Mentre riconosceva che il grande Poeta aveva «divinizzata la lirica, ricreata la tragedia, insegnata agl'Italiani la vera via della storia», e che in tutti questi campi gli era superiore; ho il convincimento che come romanziere ritenesse di stargli alla pari e anche di sorpassarlo. In fin de' conti che cosa significano le sue tante censure e correzioni ai Promessi Sposi? Significano: Avrei fatto meglio io!

65

Del Romanzo in generale e dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni discorsi dueQuinta edizione, Urbino, coi tipi della V. Capp. del SS. Sacram. per Giuseppe Rondini, 1846; in-16º. di pp. VIII-142.

66

Del Romanzo in generale e dei Promessi Sposi, romanzo di Manzoni, discorsi due. Sesta edizione, accresciuta d'altri scritti. In Venezia, nella Tip. Emiliana, MDCCCXL; in-16.º di pp. VI-236.

67

Trovò un difensore anche in Giuseppe Bianchetti di Treviso. Cfr. Sopra i Romanzi storici [lettera] Al barone cav. Ferdinando Porro, Milano; in Giornale sulle scienze e lettere delle Provincie Venete, n.º 107-108 del vol VI della Continuazione, bimestre di settembre e ottobre 1830. Fu ristampata a pp. 71-114 dei Discorsi critici intorno alla questione se giovi di ammettere o no nella letteratura italiana il Romanzo storico, Treviso, coi tipi di Gio. Paluello del fu Antonio, mdcccxxxii; in-16.º ed a pp. 503-522 del libro: Dei lettori e dei parlatori, saggi due di Giuseppe Bianchetti —Alcune lettere di lui medesimo, Firenze, Felice Le Monnier, 1858; in-16.º

68

Indicatore Genovese, n. 5, 6 e 7, giugno 1828. Cfr. Mazzini G., Scritti editi ed inediti [quarta edizione], volume II, Letteratura vol I, pp. 41-51.

69

Tommaseo N., Studi critici, Venezia, Andruzzi, I, 290.

70

E altrove: «Vogliamo almeno terminare con un voto, che è certo comune a tutta l'Italia. Perchè il Manzoni, così grande poeta, non ha intramesso alla sua prosa alcun verso? Perchè non ha egli seguito l'esempio del suo Goethe e di tanti altri illustri romanzieri, che ne aggiunsero questo diletto? La materia di frequente si prestava volentieri alla poesia… Chi non vorrebbe ascoltare il divoto cantico e le laudi dei valligiani che s'affollano con santa allegrezza incontro al Cardinal Federigo? Chi non intenderebbe un orecchio bramoso alle giulive canzoni di guerra dei soldati che vanno all'impresa di Mantova? Tutti ricordavano il sublime canto per la battaglia di Maclodio, tutti aspettavano rinnovata quella robusta armonia. Nè mancherà, in ispecie fra coloro che più strettamente appartengono alla scuola romantica, chi si dolga di non sentire espressa la canzonaccia de' monatti, che viene appena accennata».

71

Fin dal 1890 ne dette un saggio il prof. Emilio Teza [Postille inedite di N. Tommaseo ai «Promessi Sposi»; nella Nuova Antologia, serie III, vol XXVII, pp. 560-566]; poi, nel 1897, vennero stampate per intiero da Giuseppe Rigutini. Cfr. Postille inedite di Niccolò Tommaseo, precedute da un discorso critico e accompagnate da osservazioni, Firenze, R. Bemporad & figlio, 1897; in-16º. di pp. VIII-332.

72

Eccone un saggio: «È affettato – Pesante – È da buffone: tuono che Fautore assume talvolta – È brutto – È duro – Non mi piace – Miseria – Piccolezza – Cattivo – Inezia – Importuno – Non va – Quanta roba! – È goffo – Mal detto – Pedantesco – Affettazione – Pare un goffo dialogo di Goldoni – Rettoricume – Bassezza – Evviva i soliloqui! – È vecchiume – È un guazzabuglio questo periodo – Malissimo detto – Inezia grande – Lungherie misere – Falso – È ridicolo – È da retore e mostra la stanchezza dell'autore – Affettato e prolisso – Gretto e stracco»; e giù di questo tono, con mano sempre prodiga.

73

I critici si trovarono concordi nel biasimare il Manzoni d'avere scelto a protagonisti due operai; all'infuori però del Sismondi, del Pezzi, del Giannone e di pochi altri, tra' quali Giovita Scalvini, che scrisse: «Ha scelto Renzo e Lucia per isvergognare e ridurre al niente i Rodrighi e gli Egidii; per additarne come l'occhio di Dio, dinanzi il quale cessa ogni disuguaglianza, sappia scernere infra la turba gl'ignobili e spregevoli che in lui bene confidano, e la sua mano sollevarli sulla malvagità illustre e tremenda… Vuolsi dunque considerare Renzo e Lucia come un simbolo di tutti i deboli, di tutti quelli che soffrono, e ai quali la giustizia è dovuta… Che se a qualcuno e' paiono troppo piccioli, perch'ei sia curante dei loro umili casi, pensi che a lui per l'appunto il Manzoni li propone in esempio; affinchè corregga il suo orgoglio; nè da loro rivolga indifferente gli sguardi, senza dirizzarli verso Colui che li ha posti sulla terra, ascolta le loro imprecazioni, e non li lascerà cadere: chi non può stare con loro, come prossimo, se ne faccia scala a sani pensieri fuori e più alti di loro».

74

Nel dar conto nell'Antologia [n. 93, settembre 1828, pp. 120-132] d'un mediocrissimo romanzo francese: Gertrude, par mad. Hortense Allart de Thèrase, Florence, Ciardetti, 1827, scriveva: «Tutto ciò ch'è grande, è difficile: e però quant'è più l'altezza a cui si tende, più frequente è il pericolo della caduta. Troppo insistere sulla storia dell'uomo interiore, può generare facilmente sazietà e noia; può torre al poeta la forza e lo spazio di rappresentare i segni e gli effetti della passione; può renderlo affettatamente minuzioso ed ardito a spacciare de' fatti dell'anima passionata, i risultati o della fredda meditazione, o d'un'esperienza angusta, immatura. La maggior difficoltà sta nel cogliere appunto la reale gradazione dell'affetto; e mostrando il passaggio dell'anima dall'un grado all'altro, esser vero. Questa difficoltà non mi par superata in un de' tratti più mirabili de' Promessi Sposi; la conversione dell'Innominato. Le disposizioni di quell'anima annoiata del male, i primi tocchi della pietà ch'è, già per sè medesima un cambiamento in quel cuore ferreo, la confusione che lo assale alla vista della sua vittima, tutto è fin qui sovranamente côlto, è quasi tutto con egual potenza indicato. Ma quando siamo alla notte, i sentimenti di rabbia, di disperazione, d'orgoglio che l'assalgono con tanta furia di quanta è capace un'anima ancora verde nel delitto, non mi paiono direttamente condurre a un così prossimo cambiamento. Un carattere come l'Innominato, e non cangiato ancora, non ricevere alcuna impressione di sdegno, d'orgoglio da quel suo passaggio in mezzo alla folla meravigliata e sospettosa, non mi par verisimile. La storia dice che l'Innominato, dopo avuto un colloquio col Borromeo, cangiò vita: ma non dice, parmi, che l'Innominato sia ito a cercare la presenza del vescovo, in mezzo alla moltitudine radunata, in un giorno ch'era giorno di festa per tutto il dintorno. Egli scende tatto irritato di quella gioia comune, scende non per altro che per saperne il motivo, e va difilato a cercare dell'arcivescovo di Milano. Forse il passo parrebbe men brusco, se l'A. avesse dipinti i sentimenti che, cammin facendo, agitavano quell'anima umiliata. Ma umiliarla conveniva dapprima, umiliarla agli occhi suoi propri; giacchè la stanchezza del male non genera che maggior perversità, quando non conduca ad arrossire della propria bassezza. Io so bene che descritti tutti i gradi intermedii della conversione, la cosa sarebbe troppo ita in lungo, so che allora sarebbe stato assai più difficile rendere teatrale e romanzesca quella conversione: so in fine che nella pittura del nostro Manzoni, c'è tanta profondità da ammirare, che non è quasi lecito il mostrare desiderio di quello che manca».

75

L'Antologia [n. 116, agosto 1830; pp. 140-142] tornò a parlare de' Promessi Sposi pigliando occasione dalla ristampa che ne fece a Firenze, nel '30, la tipografia Passigli, Borghi e C. in un vol in-8.º e in sei volumetti in-32.º con vignette. Dell'articolo, scritto dal Montani, è notevole questo brano: «Walter Scott, ha già detto qualcuno, va dalla storia al romanzo, Manzoni dal romanzo alla storia. Da questo loro andamento diverso risulta che ciò che nelle composizioni dell'uno forma, per così dire, lo sfondo delle composizioni medesime, in quello dell'altro forma il soggetto principale. Quindi non fa meraviglia ciò che da un anno si va bucinando, e in un giornale assai recente si narra senza mistero, che il Manzoni in uno scritto, che verrà presto alla luce, sul romanzo storico, si separi interamente da Walter Scott. Può egli non separarsene in teorica, quando in pratica ne va tanto lontano?».

76

Singolare è questa lettera del Tommaseo al Vieusseux, scritta da Milano il 12 novembre del '26: «Manzoni forse per la primavera vegnente verrà con la famiglia a Firenze… Del resto, se egli venisse a Firenze, vedreste un uomo che dall'assenza di ogni singolarità è reso agli occhi d'ognuno che non gli dissomigli, affatto singolare e mirabile. Una statura comune, un volto allungato, vaiuolato, oscuro, ma impresso di quella bontà che l'ingegno, non che guastarla, rende più sincera e profonda: una voce di modestia e quasi di timidità, cui lo stesso balbettare un poco giunge come un vezzo alle parole, che paiono escir più mature, più desiderate: un vestito dimesso, un piglio semplice, un tuono famigliare, una mite sapienza che irradia per riflessimento tutto ciò che a lui s'avvicina… Questo è l'uomo direste, il cui nome sarà simile di qui a mill'anni, adorato, com'io venero oggi il suo volto. Questo è l'uomo che in ogni via che calcò impresse un'orma indelebile; che ha divinizzata la tragedia, che ha insegnata agl'Italiani la vera via della storia; che ha fatto il romanzo la lettura del Genio e della Virtù; ch'ebbe amici i più buoni del secol suo; che fu pio, semplice, generoso; che trasse il suo genio dal cuore: e potreste aggiungere (questo è forse il maggiore degli encomii) che fu visto più d'una volta piangere sulle sventure degl'infelici».

77

Il Rigutini ristampò il vecchio articolo dell'Antologia, in fronte alle Postille [pp. 1-21], ma senza accennare per nulla ai tanti cambiamenti che vi aveva fatto l'autore nell'edizione del '43 ed ai lievi ritocchi di quella del '58.

78

Il primo esilio di Nicolò Tommaseo 1834-1839, lettere di lui a Cesare Cantù, Milano, Cogliati, 1904; p. 102.

79

Tommaseo N., Studi critici; I, 304-312.

Cfr. Ispirazione e arte o lo scrittore educato dalla società e educatore, studi di Niccolò Tommaseo, Firenze, Felice Le Monnier, 1858; pp. 417-426.

80

Tommaseo N. Dizionario estetico, Firenze, Successori Le Monnier, 1867, pp. 622-623.

81

Nacque a Novara il 12 febbraio del 1803; si laureò in legge a Pavia; presa la carriera della magistratura, al pane onorato del suo forte Piemonte e de' suoi vecchi Re preferì quello dell'Austria, e morì il 9 ottobre del 1850, consigliere dell'I. e R. Tribunale criminale di Milano.

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