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AL BENEVOLO LETTORE

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Quando Omobuono Martini milanese riprodusse co’ suoi tipi la Battaglia di Benevento, a me piacque preporle un Discorso intorno alle ragioni della Letteratura moderna in Italia, e il Libro e il Discorso dedicai alla egregia donna Signora Angelica Bartolomei nata Palli. Comparendo adesso questa opera nuovamente alla luce per le stampe di Felice Le Monnier senza Discorso e senza Dedica, parmi cosa dicevole manifestarne la causa, onde uom non creda, che per sopraggiunto pentimento io gli abbia voluti omettere. Per certo, come la fama della illustre donna per la mia Dedica non aumentò, così nemmeno, per sopprimerla ch’io mi facessi, punto diminuirebbe: tuttavolta, tôrre quello che una volta si diè, e sia pure povera cosa, non sembra onesto; ed a me poi recherebbe gravezza grandissima, ove altri pensasse alterata verso Lei la mente, che un dì mi persuase a renderle, giusta le forze mie, quel tributo di onore. Anzi, poichè per questa guisa mi viene schiusa la via di favellare delle Dediche preposte alle altre opere mie, mi par bene valermi del destro per tenere proposito di tutte con brevissime parole.

A Niccolò Puccini io dedicava la Veronica Cybo in pegno di antica amicizia, ed ebbi sempre in pensiero intitolare al suo nome opera di maggiore momento, ch’Egli lo meritava pur troppo; ma mi mancò il tempo, e forse me ne sarebbe mancato anche lo ingegno. Di questo mio difetto mi consola ampiamente conoscere come Egli abbia saputo, troppo meglio che non saprebbero fare opere d’inchiostro, raccomandare la propria fama ai posteri, dando, se non unico, radissimo esempio del modo col quale hassi ad amare il Popolo di vero amore: avvegnadiochè di due cose abbisogni principalmente il Popolo, di esempii buoni, e d’insegnamento, che di parole ormai che cosa farsi non sa, tante ne furono sprecate, quasi tutte invano; talune poi, peggio che invano. Di questa verità udii sovente porgere testimonianza allo stesso Puccini, il quale con quel suo vispo linguaggio soleva dire, che i fatti erano maschi, e le parole femmine. Intitolando a lui il mio Libro, io volli pertanto rendere omaggio al savio cultore della carità verso il prossimo, ed allo amatore della Patria zelantissimo; onde fra le amarezze, di cui non è penuria nel turpe carcere, acerba mi percosse quella di non potere, come avrei voluto, dettare del morto amico sincerissima qual Ei non temeva, e quale a me non sarebbe riuscito concepire diversa, la Orazione funeraria. Ma poichè farlo liberamente mi era conteso, mi parve degno tacere; e così, ne vado persuaso, sembrerà anche allo spirito di Lui, se pure lo toccano le miserie alle quali noi siamo, infelicissimi, rimasti.

E tanto più duolmene, in quanto che a veruno poteva per avventura riuscire quanto a me di palesare al mondo il cuore ch’Egli ebbe, e certo poi a nessuno più che a me ne correva obbligo religiosissimo. Talora vagando insieme con Lui pei silenzi della notte nelle sue sale solitarie, a parte a parte mi apriva gli affanni che contristarono la sua infanzia, e le angoscie pungenti che gli derivarono dalla infermità miserabile di cui pure la Natura non lo aveva percosso… e spettacolo veramente portentoso era e lacrimevole a un punto contemplare come tanta copia di amaritudine non fosse bastata a corrompere le acque dolcissime della sua esistenza, nè il rigido alito della tristezza a spegnere la sua fede; – le lotte, le cadute, il rilevarsi più gagliardo, e il proponimento osservato fino al termine della vita di adottare per figliuolo il Popolo intero, dacchè le gioie di marito e di padre Ei si vietava; contemplare insomma quello affannarsi indefesso a mescere intera la sua grande anima nell’anima del Popolo, onde ei se ne avvantaggiasse. E se ne avvantaggerà, però che il Popolo abbia viscere di gratitudine, e se mai avvenga che traviato o corrotto da consigli pessimi prorompa in offese a danno dei suoi benefattori, presto si pente, e piange, e adora mutate in oggetto di culto le vittime del suo furore: – altri non si pente mai, nè piange.

La morte, che immatura colpì quel caro capo, se non prodotta, fu per lo meno assai accelerata dalla sventura sopraggiuntagli per cagione mia, e fu questa. Apprendendo quel gentile con inestimabile fastidio, come gli Accusatori miei si fossero prevalsi a danno mio di certe sue lettere a me dirette nella festosa giocondità del suo spirito, non mise tempo fra mezzo a scendere giù dal Castello della Cavinana dov’erasi ridotto a circondarsi di ombre e di memorie, per cercare fra le sue carte le lettere che io con gravità di consiglio gli era venuto rispondendo, e quante gliene capitarono a mano tante me ne mandò: compito l’ufficio, nel tornarsene alla stanza del Castello infelice, i cavalli aombrando su di una erta diruparono con la carrozza a precipizio dentro un burrone: comecchè Ei restasse semivivo sul colpo, pure si rilevò, porgendogli anche cotesto infortunio argomento per manifestare lo amore suo verso il Popolo, il quale con ogni maniera di pietoso aiuto lo sovvenne; ma da quel giorno in poi Egli non ebbe più bene, e conobbe soprastargli il fato supremo, nè punto gliene dolse, anzi desiderò essere morto quattro anni avanti… E adesso siamo pochi. chi per un verso, chi per un altro, che come Lui non desideriamo; e dei superstiti, beati quelli cui verrà concesso morire senza rimorso, e senza vergogna…

L’antivigilia della sua morte, rinvenuto da lungo svenimento, quel gentile spirito ricordò di me, e commise al Medico, che in nome di Lui mi scrivesse, e mi offerisse quelle consolazioni le quali tornano grate sempre, da chiunque si muovano; se poi da amico, gratissime. Ricevuta appena la lettera, non mi trattenni un momento per rispondere come la stupenda cortesia dell’atto persuadeva… e non pertanto, ahimè! egli era tardi, imperciocchè io scrivessi ad un cadavere…

A Giovambatista Niccolini io dedicai il volume degli Scritti varii, e nel dedicarglielo lo salutai la migliore coscienza d’Italia; e tale fu, e tale si rimase, e si manterrà certamente, avvegnadio se da un lato quotidiani esempii c’insegnino come uom non possa celebrarsi incontaminato prima dei suoi funerali, dall’altro piaccia e giovi credere quanto sentenziò Sofocle nel Filottete, – che i cuori grandi non può fare a meno, che non sieno anche buoni; – e di vero, se lo inclito concittadino nostro sia più grande o più buono tu pendi incerto, comecchè grandissimo e buonissimo il mondo lo veneri meritamente. Cotesto suo intelletto pacato, senza ira come senza sdegno, dalla sapienza dei tempi ricavò la dottrina che tenace professa, onde non è da dirsi quanto rimanesse sbigottito sì, non iscosso, dal fragore di eventi che parvero prima, e poi sperimentammo mostruosi: molti ancora dei suoi amici vecchi a Lui oggimai declinante nella bene adoperata vita andavano susurrando dentro le orecchie: «Tu hai sbagliato…» Allora l’austero vecchio tacque crollando il capo, e tenne per fermo, e tenne bene, che co’ morti di Santa Croce non si sbaglia, e lasciò dire i vivi.

Amareggiato nella mente quando i casi parevano dargli torto, Egli si sentì ferito nel cuore allorchè tornarono a dargli ragione; però non pose giù sul pavimento l’animo invitto, e, richiamate le ispirazioni antiche, diè opera a tale impresa (se la fama porge il vero) che gli uomini vedranno maravigliando, conciossiachè vivano, ma rari, intelletti nel mondo, che non conoscono tramonto; e Niccolini è tra questi.

Non senza supremo consiglio la Provvidenza ordinò, che in questi luoghi vivesse Vittorio Alfieri, ed ora viva Giovambatista Niccolini, ponendo in certa guisa più gagliardi i puntelli là dove è minacciata la mina maggiore; e se costoro non erano, chi sa fin dove il Popolo nostro si sarebbe sprofondato nell’abiezione, che il tempo vile appella civiltà!

Dura pertanto questa Dedica, e la ragione della Dedica; e con essa dura il rammarico di avere presentato così povera offerta al genio tutelare della dignità toscana.

Ad Angelica Bartolomei nata Palli intitolai la Battaglia di Benevento. Nacque Ella in Livorno di greca stirpe, e giovanissima ancora, tanto le vennero a grado le greche e le italiane lettere, che potè leggere l’originale greco di Omero in quella età in cui, troppo più che non vorremmo, fanciulle italiane appena appena sanno compitare un libro nel paterno idioma. Di forti sensi dotata, la giovanetta fu udita improvvisare tragedie, di cui talune vanno attorno stampate, onde per giudicio universale Lei reputarono piuttosto maravigliosa, che rara. Posato alquanto quel ribollimento dello spirito, Ella ebbe in pregio più riposati studii, ed in questi perseverò con tale costanza, che io stesso ve la vidi versare quotidianamente per parecchie ore, sia in città, sia in campagna, nè mai le uscì dal labbro detto, o dalla penna scritto, che non promovesse il culto di quanto veneriamo quaggiù per decoro, per gentile, per buono, e per bello.

Delle opere di Lei piacemi rammentarne sol due: l’Alessio, ch’ella dettò per sovvenire alla Grecia pericolante nelle fiere fortune della guerra turchesca, e il Libro non ha guari stampato a Torino per sovvenire alle fortune pencolate della Italia, non senza speranza però di possibile riscossa; conciossiachè come Patria Ella amasse Italia e Grecia; questa, perchè vi nacquero i suoi; quella, perchè a Lei diede vita: e certo Ella non poteva sortire dai cieli Patrie che più fossero degne di amore, nè più sventurate.

Consiglio non solamente buono, ma caritatevole altresì io per me non dubito dichiarare quello, che indusse la onoranda Signora a comporre l’ultimo Libro intorno ai costumi delle donne; avvegnadio far pressa che leggi mutinsi e stato, è nulla, se prima il costume non mutisi; e grande cosa paia questa, che mentre tutti si affannano a tutto mutare per di fuori, nessuno attenda a mutar niente in sè stesso; e pure bisogna o cominciare di qui, o rassegnarci a restar come stiamo.

Però, quantunque appaiano degnissimi di lode i meriti letterarii della illustre donna, io mi trovai disposto a farle onore non tanto per questi, quanto assai più per le doti morali, che la rendono spettabile: di vero in Lei conobbi strette con fraterno abbracciamento la pietà profonda pei parenti, la indole buona con tutti, voglie pronte a soccorrere i travagliati dalla fortuna, e sensi virili, e amor di Patria antico.

Non è mio istituto raccontare partitamente le virtù di Lei, molto più che la sua modestia potrebbe richiamarsene; nondimeno parlerò di alcune, perchè più che di lode a Lei tornano di esempio o rimproccio alla viltà che ci affoga. Quando prima arrise speranza di fati men tristi alle fortune afflitte della Patria, Ella non distolse già il marito dal proposito di accorrere su le pianure lombarde a combattere quella guerra, che allora senza eccezione da tutti celebravasi santa, e più da quelli, che, valicato ormai il confine ultimo della umana turpitudine, più la vilipendono adesso. Infamia di secolo, che vince in abbiettezza il paragone di ogni più vile metallo! – Certo a Giovampaolo Bartolomei non faceva punto mestieri incitamenti: tuttavolta glieli diè la consorte, diversa in questo dall’antica Andromaca e più animosa di lei; nè si ristette qui, che tolto seco l’unico e dilettissimo figlio, lasciando le morbidezze di vivere opulento, si condusse a perigliare su le orme del marito, affinchè il figliuol suo si educasse di vista nei paterni esempii ad operare fortemente per la Patria. E quando per disposizione dei cieli, o come credo piuttosto per punta virtù nostra, le italiane sorti di liete mutaronsi in lacrimevoli, la egregia donna non disperò, bensì cheta cheta, senza iattanza, condusse il figlio in Piemonte, e quivi lo arruolò semplice soldato nello esercito che unico drappella adesso la insegna italiana. Stanziata a Torino, Ella si mostra cortese di consiglio e di aiuto a quanti giovani toscani, e non sono pochi, si avviarono colà pel medesimo scopo; onde a molti di loro lontani dalle paterne case non sembra avere lontana la madre, che lo affetto in Lei per espandersi che faccia non menoma di calore e di luce. Quindi invece di scemare crebbero le ragioni di usarle ogni debito ossequio, e se qui non occorrono riprodotti il Discorso e la Dedica al suo nome, ciò vuolsi attribuire al trovarsi già stampati nel volume degli Scritti varii, ch’è parte della collezione della Biblioteca nazionale del Le Monnier; per la quale cosa parve superfluo ristamparli, molto più, che la esperienza dimostra, come coloro che acquistarono qualche volume separato di questa Biblioteca, di rado avviene che non si studino completarne la collezione, invaghiti dalla eleganza dei tipi, dalla correzione diligente, e dal pregio non grave.

Èmmi confessarlo amaro, tuttavia non negherò essere rimasta per alcun tempo offuscata l›amicizia che mi stringeva con la onorevole famiglia Bartolomei; la mutua stima non già, e di questo io mi ebbi nobilissime prove, fra le quali ricorderò perpetuamente con animo commosso quella di tutelare con paterna cura il sangue mio in tempi calamitosi, e nell›ospizio cortese con tanto solenne diligenza custodirlo, che, se fosse stato proprio, eguale avrebbe potuto essere, difficilmente maggiore. Narra Plutarco nella vita di Demostene, come trovandosi questo oratore costretto ad esulare di Patria, arrivato che fu non molte miglia discosto dalla città, sentisse alcuni cittadini dei suoi avversarii, che lo inseguivano, dai quali egli s›ingegnava a tutta possa cansarsi; ma essi il chiamarono, e profferendogli i sussidii che seco loro portavano, lo confortarono a starsi di buono animo, e a sopportare pazientemente la presente disavventura. Per la qual cosa Demostene si mise a piangere: «E come potrò» egli disse «allontanarmi pazientemente da una città dove i miei nemici sono tali, quali in un›altra si troverebbero appena gli amici?» Onde io, che sento la fortuna apparecchiarsi a darmi colpo uguale, nel presagio mi attristo, e vado meco stesso ripetendo le parole di Demostene. Una gente crudele ha preso a versare vituperio su la mia terra, e a torto. Dio la perdoni! Per ora a me non si addice pronunziare che una sola sentenza, ed è questa, che se vivo non potrò, morto almeno mi fie grato trovarvi la pace che desidero. Ordinariamente cessano gli odii sopra la sacra soglia della morte, e spesso convertonsi in fervidi amori ed in cocenti rimpianti: che anche di me abbia a succedere questo io spero, ed in tale speranza mi acquieto.

Lo Assedio di Firenze dedicai a persona anonima, e così rimanga: questo è un segreto fra un sepolcro e me, nè a me giova levare il sigillo della morte.

La Isabella Orsini dedicai a Gino Capponi.

La Battaglia di Benevento incontrò fortuna oltre il merito: di questa può dirsi, che fu quasi il Beniamino della critica, e fino ad oggi essa ebbe l’onore di ben quattordici edizioni: però in siffatta specie di trionfo letterario, nei tempi novissimi si levarono parole acerbe, come anche in Roma accadeva in ogni trionfo. Non avendo mai speso inchiostro a difendere il pregio degli scritti miei, non mi prende vaghezza d’incominciare a farlo adesso: dello ingegno giudichi ognuno come gli piace, dell’onor mio come deve. Tuttavolta se m’interdico dir bene dei miei scritti, prego licenza per dirne alcun poco di male. Rileggendo adesso la Battaglia di Benevento, parmi libro ardentissimo e non di bella fiamma: vi traspira dentro certo sgomento per nulla naturale alla età in cui lo dettai, che fu il mio ventunesimo anno, e un alito di dubbio, che appena si perdona agli uomini i quali sviati dalle decezioni si sentono sazii di vita: fra tutti i tristi peccati, pessimo. Di ciò ne incolpo tre cose principalmente: i molti guai, che me fino dai primi anni inasprirono, e la pazienza corta a sopportarli; la condizione dei tempi, che parve agli inesperti irrimediabile; e il culto che professavo e professo ancora a Giorgio Byron. Ma se questo basta alla scusa, non giova alla lode, conciossiachè l’uomo deva tenere in sè la sua tristezza, e non ispanderla a sgomentare l’anima altrui; abbia virtù di adoperare egli vivo la carità della quale io rinvenni cortese un morto. Nel Cimiterio inglese dentro le mura di Livorno, occorre una lapide dove si legge incisa la iscrizione che parla così. «Morii di tristezza sul fiore degli anni: passeggiero, leggi il mio nome, e affrettati ad allontanarti, per sospetto che il vento ti soffii addosso parte della mia polvere, e ti attacchi il male crudele che mi condusse a morte.»

Rispetto alle condizioni dei tempi, la esperienza dimostra unicamente vero il consiglio che dava Focione al suo giovane amico: «Non è lecito, o Nicocle, disperare giammai della salute della Patria.» Ma la esperienza, anche per coloro a cui frutta, è pianta tarda. Rispetto al Byron poi, giova rammentare che nè sconforti, nè dubbii, lo trattennero di dare vita e sostanze per la causa di Cristo e della Libertà.

Certo, lo scopo della Battaglia di Benevento fu quello, che altrove annunciai, compreso nel detto dello Alfieri:

«..... oh! ben provvide il cielo,

Che uom per delitti mai lieto non sia.»

Tuttavolta di leggieri confesso, che il modo col quale apparisce dettato il Libro, toglie non poco alla efficacia del fine proposto.

Questa edizione comparisce notabilmente emendata, e nello stile corretta, non però mutata: avvegnachè per volgere degli anni o in meglio o in peggio lo stile muti, e i rattoppi stridano con la stoffa, come i ritocchi a secco sopra gli affreschi: nonostante questo, per varianti. emende e correzioni, la edizione Le Monnier è l’unica che io ritenga normale della Battaglia di Benevento.

Vivi felice.

Dal Carcere delle Murate, questo dì 4 giugno 1852.

F.-D. Guerrazzi.

La battaglia di Benvenuto

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