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CAPITOLO QUINTO. INGANNO

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Ne diè Natura, è vero,

La lingua perchè serva

A palesar del cuor gli occulti sensi;

Ma l’artificio uman così l’adopra,

Che non gli manifesta, anzi gli asconde;

E ben io so ch’è folle

Chi mirar crede entro la voce l’alma.

Cleopatra, tragedia del Cardinale Delfino Patriarca d’Aquileia.

E se la vita fu bene, perchè mai ci vien tolta? – E se la vita fu male, perchè mai n’è stata concessa? – Oh! l’ora della morte travaglia d’ineffabile angoscia. Io, che, per felice disposizione della natura, posso senza dolore e senza gioia guardare la contesa della distruzione e della esistenza, ho considerato l’uomo spento col ferro: egli aveva i capelli ritti… le pupille terribili… la bocca in atto di profferire una minaccia… tutte le membra disposte a disperata difesa. Ho considerato l’uomo spento coll’arme da fuoco: i suoi occhi erano languidi… il volto abbattuto, come quello dello estenuato da lungo patire. Finalmente ho considerato la forza della malattia mortale sul giovane, e sul provetto: in quello la vita lottò con vigore proporzionato alle sue forze, e gli ultimi suoi istanti furono atrocemente dolorosi; in questo, di cui l’alito avrebbe a mala pena potuto muovere una piuma, e appannare il cristallo accostatogli alla bocca, la morte parve imperversare meno furiosa, anzi calare lieve lieve la mano ghiacciata a stringergli il cuore. – Ma e nello spento per ferro, e nello spento per fuoco, nel giovane, e nel vecchio… in tutti ho osservato il gravoso affannarsi dell’agonia… il ravvolgersi degli occhi desiderosi della luce… il brivido celerissimo a fiore di pelle precursore della cessazione del moto… la grossa lagrima distillata dal cervello gocciare giù per la pallida guancia… tutte le membra contrarsi… raccogliere coll’ultimo anelito in un sul punto la vita, e… con un sospiro il cuore ha cessato di battere: l’eterna immobilità inceppa le fibre: – l’uomo diventò tutto materia? – Oh! è amaro, è amaro il punto della distruzione della vita.

E pure più amaro parve a Rogiero quello in cui, ascoltando i passi di persona che si dirigeva alla sua volta, e la voce che di mano in mano si approssimava, fu costretto di sciogliersi dalle braccia di colei che tanto aveva amato senza speranza… Dio eterno! Era la di lei fronte ghiacciata… le membra irrigidite; nè di per sè stessa poteva reggersi in piedi: – e la bocca? Un alito leggerissimo annunziava la vita. – Le voci e i passi si fanno ad ogni momento più vicini. – L’adagerà Rogiero su l’erba del prato, o la sosterrà sempre stringendosela al seno? Veramente sarebbe la forte prova di amore abbandonarla così fuori di sè a persona sconosciuta! Ma l’averla tra le braccia è misfatto. – Nè la infamia del misfatto, nè il dolore della pena ricuserebbe Rogiero, purchè gli fosse concesso riporla nelle mani delle sue damigelle, o di sua madre. – All’improvviso la sua mente, più che dai molti anni, ammaestrata dalle molte scelleratezze degli uomini, ricorre al pensiero, che invidiato si solleva il bel giglio; vede il rettile schifoso anelante di contaminare quella intemerata candidezza; ode il malignare della razza del fango; un senso generoso lo esalta; vince la presente passione, adagia Yole sul terreno, china verso di lei i suoi sguardi, giunge le mani, si volge al cielo, e fugge senza mandare un sospiro.

Certo, non si vuole dubitare, che in ogni caso quell’addio sarebbe stato muto, perchè la passione loro non era da esprimersi con parole; pure se Yole fosse stata in sè, avrebbe veduto un tale sguardo, che poi invano avrebbe tentato di cancellare dalla memoria; uno sguardo che svelava il desiderio di cose che l’uomo non può conseguire, l’irremovibile giuramento di non declinare per casi o per tempi dalla stabilita proposta, e la coscienza di vivere senza speranza, e senza speranza morire. Fu senza dubbio nasconderle quel guardo profonda pietà: egli avrebbe accelerata la perdita della ragione, alla quale la misera era condannata fino dal suo nascimento.

Intanto Rogiero, ripostosi a guardia sotto la volta, non poteva condurre lo intelletto a meditare sopra i casi avvenuti, però che il cuore avvolgendosi per le memorie di quelli amava commettersi allo impeto delle sensazioni.

In questo modo dimorando, intese il romore di un passo che pareva avvicinarsegli; porse l’orecchio, e allorchè fu tempo domandò ad alta voce: «Chi è che passa?»

«Che San Germano vi aiuti!» rispose un uomo di sembianze piuttosto dure, di aspetto vigoroso, tutto coperto di piastre e maglie di ferro, come usavano portare gli uomini d’arme del Re Manfredi; «buona guardia, Rogiero.» «Oh! siete voi, Roberto?» disse Rogiero riconoscendo la voce; «qual diavolo vi porta in questi luoghi a questa ora?»

«Voi stesso.»

«Gran mercè alla cortesia vostra, Roberto; un amico qual siete voi giunge opportuno a tutte le ore, specialmente poi a quelle della guardia.»

«Rogiero, io ho le molte cose a dirvi.»

«Ed io, come vedete, luogo e pazienza da ascoltarle; parlate,» – disse Rogiero, facendo aspetto di non volere porgere grande attenzione a quello che stava per dirgli l’uomo di arme, e continuando a passeggiare.

«Giovane!» parlò cupamente Roberto, ponendosi a sedere, «io posso con una sola parola rendervi immobile per più lungo tempo che voi non vorreste: però accostatevi, sedetemi qui a canto, e sopra tutto parliamo basso, che nessuno ci senta.»

Rogiero non sapendo il perchè, senza alcuna cosa rispondere, obbediva; l’uomo di arme continuava così: «Rogiero, avete voi ripensato a quello, che nel mese scorso vi predisse l’astrologo saracino Ben Hussein?»

«Santa Rosalia! Codeste sono vanità; io le ho affatto dimenticate.»

«Se voi le credevate vanità, perchè le avete ascoltate? Voi avete interrogato le stelle, ed esse vi hanno risposto la verità; voi l’avete dimenticata, ma vi è tale che la rammenta per voi.»

«Manco male: parmi che parlasse del Sagittario…»

«Appunto: voi nasceste sotto questa costellazione, e il vostro oroscopo porta, che dovrete travagliarvi in lunghi viaggi. Furono ancora consultate le vostre mani; infatti, che cosa dice il sapiente Re Salomone? la lunghezza della vita è nella sua destra, le ricchezze e la gloria nella sua sinistra. L’arte manifestò la ruga della grandezza vermiglia e profonda; ma la ruga della vita comparve a un tratto interrotta, e fece andar pensoso l’astrologo, che una morte violenta innanzi tempo…»

«Roberto,» disse Rogiero, alzandosi con impazienza, «è egli forse vostro pensiero atterrirmi? Che serve che mi tentiate l’anima? Oggimai dovreste sapere, che il mio volto non impallidisce al pericolo.»

«Giovane! è vero quello che dite, ma voi siete troppo impetuoso; « – rispose Roberto costringendolo a sedersi di nuovo, e quindi riabbassando la voce lo domandò:

«Conoscete voi il padre vostro?»

«Io? – no.»

«Sapete voi chi vi ha salvata la vita?»

«Io ignoro quando mai sia stata in pericolo.»

«Lo fu.»

«E voi lo sapete forse? E perchè non me ne avete fatta parola prima d’ora?»

«Perche la notte viene a cacciare la luce dal firmamento?»

«Voi invece di risposta mi fate nuova domanda, Roberto.»

«Perchè la notte viene a cacciare la luce dal firmamento?»

«Perchè?… Perchè la legge della natura ve la costringe.»

«E me costrinse la forza degli uomini potenti quanto Lucifero.»

«Ma ora, se vi viene concesso, ditemi: qual’è mio padre? che fa? quale il suo stato? Fu per suo volere, o per altrui, che mi lasciò fino a questo momento languire nella oscurità?» – Roberto non rispondeva parola. Allora Rogiero, quasi supplichevole, riprendeva: «Parlate, Roberto, parlate; il vostro silenzio mi lacera il cuore.»

«Voi mi fate tante domande, alle quali risponderò due sole cose. Vostro padre vive, ma sta presso al morire. La vostra condizione vi sarà manifesta in questa notte.»

«Dove? In qual luogo? Ecco, io mi chiamo pronto a seguirvi.»

«Andiamo,» disse Roberto; e Rogiero levandosi moveva già il passo per andare, quando a un tratto ristette, e parlò:

«No… adesso è impossibile; fermatevi qui, Roberto, finchè la mia guardia sia finita… poco più manca a finirla,… altrimenti non potrei senza mancare al mio Re, e dare sospetto di tradimento.»

«Sospetto!» – In verità voi dovrete tradirlo: innanzi che passi questa notte, desideroso di vendetta, vi porrete a capo dei traditori di colui che ora custodite dai tradimenti, ed il fine di ogni operazione di vostra vita sarà la morte di Manfredi.»

«Ribaldo! allontanati, o la mia lancia farà conoscenza col tuo sangue: tu vuoi ingannarmi, e tradirmi, – codardo! – Ed io che era già presso a darmi per vinto!… Allontanati.»

«Tradirvi io? ingannarvi io?» senza punto commuoversi soggiunse l’uomo d’arme. «Il bel suggello che siete, per ingannarvi! Giovane, non presumete tanto di voi stesso. L’oscurità, la miseria, il nulla in che giacete, più che l’ingegno vostro vi salvano dall’essere argomento d’inganno. Io ho fornita la mia commissione presso di voi; solo mi piace rammentarvi, che quando si diffida di un uomo, non conviene dirglielo così palese in faccia; poichè i momenti della vita di vostro padre sono numerati… e in questo punto medesimo è ormai troppo tardi il muoverci. – Buona notte…»

«Fermatevi: in nome del Santo Sepolcro, concedete un momento… Io non ho da conservare l’onore dei miei maggiori, perchè non appartengo a nessuna famiglia… non ho che il mio; ma questo mi è caro, come se mi fosse stato trasmesso da Roberto Guiscardo, o da Enrico l’Uccellatore: – ma mio padre muore, dite voi; e se non lo vedo adesso, nol rivedrò mai più, e rimarrò nelle tenebre dentro le quali sono nato… Ma il mio onore, il mio onore! Roberto, deh! per pietà, non vogliate ingannarmi.»

«Povera anima, sai tu veramente che cosa sia onore, che, cosa infamia?» proruppe Roberto. «Getta uno sguardo su i Baroni della corte di Manfredi; essi sono grandi, perchè i loro padri tradirono Guglielmo il Normanno: i loro figli si manterranno in grandezza nella corte dell’Angioino, perchè tradiranno Manfredi lo Svevo.»

«Ah! questa è dura verità.»

«Ne apprenderete ben altre, Rogiero, nel cammino della vita. Ma or via venite, se volete: affrettandoci, potrete tornare se volete, e, se vi parrà, essere piuttosto schiavo di un tiranno che vendicatore del padre.» E tale dicendo, Roberto camminava.

Rogiero stava tuttavia esitante, ed ora portava i suoi sguardi su l’asta che doveva abbandonare, ora su l’uomo di arme che si allontanava. «E v’è un destino!» finalmente proruppe; «noi tutti governa il destino. Invano ti adopererai tenerti a sinistra, tu ti troverai a destra, se così fu scritto nei cieli; e da che la resistenza non giova, il meglio è lasciarmi ire ciecamente nelle braccia della sorte che governa i miei giorni.» E gittava l’asta, e risoluto come colui ch’era ormai disposto ad affrontare ogni più dura occasione, si pose dietro alla sua scorta, e la raggiunse alla uscita della volta.

«Roberto,» disse Rogiero in andando «avete mai ascoltato la parola di Dio?»

«Certamente.»

«Avete mai pensato al premio di colui che vendè il sangue di Cristo per pochi agostari?»

«Certamente: – il capestro in questa vita, e la eterna dannazione nell’altra… Ma, se io non m’inganno, voi dubitate della mia fede pur sempre, Rogiero; ed io vi dico, che nessuno scopo mi stringe a far sì che voi mi seguiate; che la mia commissione finisce con l’ambasciata che vi ho riportato; che voi siete signore di rimanervi, perchè non ho, nè voglio impiegare, i mezzi da costringervi.»

«Oh! sì, ponete innanzi alla fantasia accesa un oggetto che valga a concitare potentemente la principale passione dell’anima, e poi dite in noi essere libero arbitrio di non seguitarlo, in noi forza da ributtare ogni lusinga! Questa sentenza parmi uno scherno feroce, che voi facciate alla nostra natura.»

«Dunque abbiatemi maggiore fiducia, scudiero: forse al mondo non v’è più lealtà?»

Mentre così tra loro favellavano, si erano di alcuni passi scostati dalla volta, di sotto alla quale, sul finire delle parole di Roberto, parve uscire, ed uscì certo, una voce che disse: non v’è più lealtà.»

«Croce di Dio!» gridò Roberto indietreggiando per lo spavento, e facendosi il segno della salute; «avete sentito, Rogiero? Queste sono illusioni del demonio; che Santa Rosalia ci aiuti!» – E poi continuava in debole suono: «Mi maraviglio, come cento altre volte, nelle quali a ragione mi sarebbe stata diretta una parola di rimprovero, non abbia sentito mai nulla, ed ora si faccia sentire, ora» e qui alzava la voce «che nessuno può dirmi: sei un traditore.»

E la voce rispondeva: «sei un traditore.»

«Questo è più di quello che io possa sopportare! O uomo, o demonio, tu te ne menti per la gola.»

E la voce: «menti per la gola.»

L’uomo d’arme calò la visiera, trasse la spada, e avvoltosi il mantello intorno al braccio sinistro fece atto di avventarsi sotto la volta. Rogiero, che ragionevolmente non avea per anche deposto ogni dubbio sopra la fede di quell’uomo, stette ad osservarlo con diligenza: vide il subito terrore, figlio della trista coscienza, e vie più sempre esitò; ma quando poi si accôrse che il sentimento dell’onore, vinta la superstiziosa paura, gli poneva in mano la spada, e lo concitava a degna vendetta, deposto ogni altro sospetto, stabilì affidarglisi intero: onde, sapendo per uso da che quella voce derivasse, fattosi incontro a Roberto con viso ridente gli disse:

«Rimanetevi, buona lancia; ogni vostra impresa contro l’ente dal quale uscì quella voce sarebbe affatto impossibile.»

«Questo adesso vedremo,» – rispondeva Roberto, duramente respingendo Rogiero, e sempre in atto di avventarsi.

«Rimanetevi, rimanetevi; non vi siete accorto ch’è l’eco? Non ha egli ripetuto il fine dei vostri discorsi? Con cui vorreste combattere, se la voce è uscita da voi?»

«San Giorgio! Io credo che abbiate ragione, Rogiero,» disse Roberto; e in questa, fatto bocca da ridere, si asciugava la fronte sudante per la paura. «Ma come dice il proverbio? La natura non si vince; cacciala dalla porta, ti tornerà dalla finestra.» Dopo queste parole fatto silenzio, quasi temesse non giungere a tempo, si dette a riacquistare con passi veloci il tempo che aveva consumato in discorsi. Rogiero osservò ch’egli nondimeno curava di prendere la via più remota, piuttosto che la più corta; e sovente, come timoroso di smarrirsi, si soffermava; ed esaminato il luogo faceva un segnale, che, ripetuto subito di distanza in distanza, si propagava fino a tal punto, che l’orecchio a mala pena lo udisse. Così camminarono lungamente, allorchè Roberto soffermatosi si volse a Rogiero, e parlò:

«Scudiero, vi fidate di me?»

«Roberto mio, concedete che ve lo dica col cuore su le labbra; la vostra domanda è fatta in tal tempo e in tal luogo, da dare piuttosto sospetto, che sicurezza. E poi, voi dovreste vedere bene, che qualunque fossero i miei sentimenti, adesso mi conviene dire che mi fido.»

«Credo che voi abbiate ragione. – Se così è, mi permetterete che io vi bendi gli occhi.»

«Fatelo. Io non ho motivo di temere di voi. Non vi ho fatto mai male; e per me, comunque sia grande la scelleraggine umana, non crederò mai che giunga a porre le mani nel sangue innocente.»

«Il vostro cuore vale meglio della vostra lingua. Non siete voi che avete promosso poc’anzi l’esempio di Giuda? Povero giovane!» continuava con voce commossa, «voglia Dio mantenervi in tali sentimenti, come a me perdonare di essere stato una prova in contrario.» – Questa ultima parte del suo discorso fu appena mormorata, e parve come strappata di bocca per quell’arcano potere che ha la buona coscienza su la scellerata. Vero è però che l’opera che adesso l’occupava non pareva di sangue, imperciocchè il suo volto fosse sicuro, la voce ferma, nè le membra gli tremassero, come suole avvenire tra la gente della sua fatta, allorchè si apparecchiano a commettere un delitto.

Intanto Rogiero, bendati gli occhi, pose il suo braccio sotto quello di Roberto, il quale con amorosa diligenza lo condusse per cammino tortuoso e diverso. Percorsi circa cinquecento passi, fu fatto fermare. La guida dette un segno, battendo le mani; allora fu abbassato un ponte, che, per quant’arte avessero adoperata a nasconderne il rumore, Rogiero intese nondimeno calare. La guida lo invitava a proseguire il cammino, ed egli, passando sul ponte, lo sentì lastricato di pietre come la strada che aveva fino a quel punto percorsa, e questo certamente a bella posta, onde la gente bendata che vi passava sopra non se ne accorgesse. Rogiero poi, sia che fosse dalla natura di più squisiti sensi dotato, sia che qualche trascuranza fosse avvenuta nel calarlo, si accôrse benissimo del ponte, ma non ne fece sembianza, e tirò innanzi.

Così dopo ch’egli ebbe con infinite precauzioni trapassato un numero maraviglioso di corridori e di camere, intese una voce diversa da quella del suo conduttore, che in suono assoluto gli disse: «Potete togliervi la benda.»

Obbediva, e lo sguardo tornato al suo ufficio si volse curiosamente d’attorno per conoscere il luogo. Questo però non era singolare in nulla: presentava vastissima stanza fabbricata a volta; in parte illuminata da una lampada, che gettando tutta la luce sopra Rogiero, teneva quasi all’oscuro due uomini sedutisi ad una tavola posta a qualche intervallo da lui. Rogiero guardando se la sua scorta lo avesse abbandonato, si accôrse che su l’entrare di quella stanza se n’era partita. Pose pertanto ogni sua attenzione ai due personaggi rimasti. Le vesti loro apparivano semplicissime; nulla accennava in essi altezza di sangue, ed opulenza di stato; nè altra cosa era osservabile in loro, se non che il volto quasi tutto coperto di un drappo nero. Quegli, che, per quanto, si poteva conoscere, aveva maggiore autorità, si levò da sedere, e stese la mano verso Rogiero in atto di favellare; ma si adoperò invano a profferire parola, chè un subito tremito gl’invase la persona, e ricadde su la sedia dalla quale si era levato. Allora il secondo, quasi volesse prevalersi del suo turbamento, di subito cominciò:

«Le molte cautele adoperate nella vostra venuta, o Rogiero, devono servire meno a dimostrarvi la nostra diffidanza per voi, che l’altezza del pericolo in cui noi tutti adesso versiamo. Non vi prenda poi nessuna maraviglia di questo mio ragionamento; fra poco vi apparirà chiaro di per sè stesso. Intanto persuadetevi bene di ciò, che dove il fatto, il quale siamo per isvelarvi, fosse manifesto a chi ha il potere della spada, le nostre teste certamente cadrebbero, ma la vostra non andrebbe salva. Nè ciò diciamo per atterrirvi: se voi foste stato capace di passioni codarde, non vi avremmo chiamato a intendere un segreto che nessuno ci costringe a farvi sapere. È lungo tempo che noi vi osserviamo. I misteri più riposti del vostro cuore sono stati da noi conosciuti. Noi sappiamo tutto.... nè alcuna cosa ci occorse di scorgere in voi, che magnanima e generosa non fosse. Vero è però che noi avremmo desiderato tenervi all’oscuro di tutto, finchè, cessato ogni pericolo, aveste potuto raccogliere lietissimo frutto. E questo non già per poca stima, bensì pel grande amore che abbiamo per voi. Ma ora, siccome osserviamo tutto giorno avvenire, la prudenza ordisce e la fortuna tesse, secondo l’antico proverbio: non piacque ai cieli disporre quello che l’uomo aveva proposto. La morte vicina, ed ahimè! troppo certa, di personaggio principalissimo, impegnato in questo negozio, rende vano ogni nostro disegno, e ci costringe a quello che aborrivamo fare.»

«Non sarebbe forse mio padre questo moribondo?» domandò tutto agitato Rogiero.

«Calmatevi.... i vostri casi domandano un cuore che senta, una mano che operi, un volto che dissimuli. Ditemi, conoscete voi le vicende della casa di Svevia?»

«La casa di Svevia! La storia di questa famiglia mi riuscì sempre sopra le altre piacevole e grata; ma quantunque non siasi accumulato sul mio capo un molto avvolgersi di anni, pure non vive casa in Italia di cui non conosca l’origine e la storia....»

«Voi dunque rammenterete, Rogiero, che numerosi furono un giorno i figli dello imperatore Federigo II, e rammenterete pure suo primogenito essere stato Enrico, eletto Re di Lamagna, vivente il padre, ora volgarmente conosciuto col nome di Enrico lo sciancato, però che la malignità degli uomini non sia soddisfatta della sventura degli oppressi, ma li desideri ancora o ridicoli, o infami. Questo infelice principe, di non troppo fermo volere fornito, e della nostra religione amatore caldissimo, concitato dalle istanze di Gregorio IX, e da quelle dei molti nemici di suo padre, stimò fare cosa grata all’Eterno, sottraendo l’Impero di Lamagna al dominio di un respinto dalla comunione dei fedeli, qual era Federigo II. Ahi! che, guasto da malvagi consigli, non conobbe aborrire Dio le guerre parricide, e la sua maladizione abitare nella casa dell’empio, che osò nella scelleraggine del cuore sollevare la mano contro l’autore dei suoi giorni. Appena conobbe Federigo l’amara novella, abbandonata la Italia, valica celerissimo l’Adriatico e perviene a Vormazia. La gente stava adesso spaventata a vedere chi primo dei due, il padre o il figlio, avrebbe osato trarre la spada. L’eterna pietà non consentiva, che anco questo vituperio si registrasse nella voluminosa storia degli umani misfatti. A Dio non piacque indurare il cuore del figlio: – pallido, sbigottito, meno pauroso della pena che sconfortato dal rimorso, co’ piè nudi, la testa rasa, vestito di sacco, col capestro al collo, tenendo nelle mani la croce, venne a Vormazia; traversò, non curante gli scherni, la folla della gente che aveva atterrita con la sua colpa, e disperatamente piangendo si gettò a misericordia ai piedi del suo genitore, e lui scongiurò, non a risparmiargli il castigo, chè troppo sentiva averlo meritato la sua scelleranza, ma sì a volerlo benedire, e avanti la sua morte richiamare col dolce nome di figlio. Invano l’orgoglio offeso procurava sdegnarsi, invano la tradita autorità paterna mantenersi severa; le lagrime sgorgavano dagli occhi di Federigo, ed il suo cuore sentiva tutta la verità di quella sentenza, che la gioia è figlia del dolore. Scendeva dal trono, al collo del figlio le braccia amorosamente gettava, e lui per gli occhi, per la fronte, e su la bocca baciando, col nome di suo figlio diletto a chiamare ritornava. Oh! vera pace sarebbe stata quella; e perdono durevole. Ma tra le bestie feroci, che la natura ha formato, vivono, o Rogiero, e sventuratamente troppi, tali uomini, ai quali l’aspetto del cielo sereno par gemito; che si nudrono di veleno e di fiele, e renunzierebbero volentieri agli agi, alla vita, e a Dio stesso, per deliziarsi nello spettacolo di un uomo che sospira dal profondo della miseria, e sorridere a cotesti singulti: e mentre furono concesse così strette facoltà per giovare più di quella che non si vorrebbe abbiamo potenza per nuocere. Visse, e vive, o Rogiero, quel figlio del peccato, che suscitando ad ogni momento sospetti nel cuore di Federigo, ed ogni più incolpabile azione di Enrico volgendo in delitto, di mille insidie, e d’infiniti delatori circondandolo, ora con la calunnia, ora con la compassione… Ma che mi trattengo io più a svolgere ad uno ad uno tutti gli accorgimenti della infamia? Essi sono più di quelli che si possono numerare, e che l’onestà può intendere. La sua perfidia fu insomma tanto avventurosa, che Federigo, fieramente infellonito contro il suo sangue, quel male arrivato figliuolo decaduto dal trono di Lamagna chiarisse, e a lui stesso lo consegnasse, onde in qualche carcere della Puglia col pane del dolore e con l’acqua dell’angoscia gli facesse consumare la rimanente sua vita. Nè stette molto che fu annunziata a Federigo la morte di Enrico, il quale riaprendo il cuore alla pietà paterna sentì tanto amaro cordoglio del suo soverchio rigore, che chiusosi in una stanza si dispose a lasciarsi morire di fame; se non che i suoi più fedeli cortigiani a gran pena, favellandogli attraverso la porta, poterono indurlo a por giù quel fiero proposito, e a ristorarsi di cibo. Il rammarico di Federigo non era tale però da rimanersi celato: una epistola imperiale dettata dall’illustre Segretario Piero delle Vigne, e spedita al clero siciliano diceva: Per quanto grande possa essere la colpa dei figli, non diminuisce in nulla l’amarezza che la natura fa sentire ai genitori nel punto della loro morte; e però ordinava, che di magnifiche esequie si onorasse, stimando così compensare con la vanità della pompa un’anima che aveva condannata a inaridirsi nell’onta. Ma Enrico viveva: Federigo e il suo feroce consigliere erano stati delusi…»

«Viv’egli Enrico lo Sciancato?» gridò Rogiero, che ascoltando attentamente questo racconto non potè reprimere un moto di meraviglia.

«Troppo duro sarebbe, o figliuol mio, lo stato nostro quaggiù, se la pietà profonda che ne regge non ci fosse stata cortese di alcuno di quegli spiriti compassionevoli nati a temprare i misfatti, pei quali di giorno in giorno la nostra stirpe scellerata aumenta il tesoro della vendetta di Dio. Uno di questi bennati pose la Provvidenza a lato del consigliere di Federigo, e volle che in lui ogni sua fede riponesse: a questo furono gli atroci misteri svelati: a questo fu dal consigliere imposto che si trasferisse in Puglia; quivi col laccio, col ferro, o in qualunque altro modo, s’ingegnasse di spegnere Enrico, e poi in tutta fretta ne recasse in corte la nuova. Partiva il messo; con la nuova della morte di Enrico tornava, ma Enrico era stato salvato.»

«Oh! che possa essere io il primo ad annunziarlo a Manfredi; certo grande gioia sarà quella del Re a tanto grata novella!» interruppe Rogiero.

«E il figlio pure dell’infelice Enrico,» continuava senza badargli l’uomo misterioso «da crudele ambizione perseguitato, fu sottratto alla morte, surrogando in sua vece il cadavere di altro fanciullo defunto per naturale malattia.»

«E vive egli?» domandò Rogiero.

«Vive.»

«Perchè dunque non palesarlo a Manfredi?»

«Perchè il tradire la innocenza frutta il disprezzo degli uomini, e l’ira di Dio.»

«Manfredi lo restituirebbe in reale condizione.»

«Manfredi lo ucciderebbe prima che se ne sapesse parola, per risparmiarsi anche la spesa dei funerali.»

«A chiunque voi siate.» rispose con terribil voce Rogiero «che così meno che onesto favellate del mio Re, faccio solenne protesta, che non ne tolgo vendetta in questo luogo perchè non siete vestito di armi convenienti. Nondimeno fino da questo punto dichiaro voi mentitore, e cavaliere sleale, e me pronto a sostenere con lancia, spada, e pugnale, o a piedi o a cavallo, a primo transito, o a tutta oltranza, il Re Manfredi di Svevia, il più virtuoso signore di tutta la Cristianità.»

«Accetto la sfida, e sostituisco un campione

«Si avanzi il campione,» disse Rogiero traendo la spada; «chi sarà mai costui?»

«Quantunque in cavalleria non sia lecito domandare il nome del cavaliere, voglio non pertanto soddisfarvi: egli è il figlio di Enrico, il nepote di Manfredi.»

«Dov’è egli?»

«In questa stanza.»

«Io non lo vedo… Sarebbe forse quel vostro compagno silenzioso, che si vanta figliuolo di Enrico?»

«Non egli nasce da tanto illustre lignaggio.»

«Dunque?» disse Rogiero guardandosi intorno.

«Dunque, siete voi stesso.»

«Io nepote dell’Imperatore Federigo!» gridò tutto stupefatto Rogiero, e la spada gli cadeva dalla mano tremante. «Ma perchè…» dopo riprendeva a fatica quasi anelando «ma perchè non palesarmelo innanzi? Perchè, invece di sospettare tanto vilmente del Re Manfredi, non manifestargli l’esser mio? Il tempo ha forse calmato l’odio, se pure il Re lo ha mai sentito pel suo fratello Enrico, ed egli mi avrebbe accolto con quello amore col quale si accolgono i più cari parenti…»

«Il tempo consuma il cuore che odia, ma l’odio… oh! l’odio non cessa neppure col palpito del cuore. – Egli scende nei sepolcri, ed agita perfino la polvere dei morti. Egli è la sola passione immortale concessa all’anima costretta dentro spoglie mortali. Ma ora non è proposito di odio; si tratta di cruda, fredda, calcolata ambizione.»

Benchè la mente di Rogiero fosse da gran tempo assuefatta a veementi commozioni, pure non potè di tanto sopportare quelle che referimmo senza che la sua testa si smarrisse. Gli si affacciarono agli occhi globi di luce: gli oggetti circostanti parvero volgerglisi attorno; uno indefinibile spossamento gl’invase la persona, e suo malgrado lo costrinse ad abbandonarsi.

L’uomo che gli aveva fin qui favellato stava immobile a riguardarlo, come se dal suo stato angoscioso ricavasse argomento di piacere; ma quegli che era rimasto taciturno, balzò premuroso dalla sedia, lo sostenne cadente, gli fu cortese di ogni soccorso, e quando lo conobbe tornato in sè con voce soffocata gli domandò: «Vi sentite confortato?»

«Oh! non è nulla,» rispose Rogiero «assolutamente nulla:» ed ostentando sicurezza allontanava le braccia di lui; «un breve disordine qui nella mente… ma ora è tutto passato.»

«Ei mi rifiuta!» Disse, con suono che più che a voce umana rassomigliava al bramito di una fiera, quel silenzioso, e a passi lenti ritornava al suo luogo.

«Rogiero, nostro pensiero, prima di favellarvi, era condurvi presso vostro padre. Veramente sarebbe compassione celarvelo: egli è miserabile avanzo di tal vita, che l’ira e la follia hanno lacerato a vicenda; e questo avanzo adesso sta nel dominio della morte. Pensate dunque qual fiero spettacolo voi dovrete sostenere. – Lo stato di debolezza in che adesso vi scorgo, mi fa grandemente temere per la prova alla quale siete chiamato. – Se non volete subirla, sta in voi. La vista del padre moribondo è più angosciosa di quello che cuore umano possa soffrire.» Tutto questo discorso fu fatto dal primo favellatore, il quale ad ogni periodo si soffermava, quasi per godere della impressione dolorosa che faceva nell’anima di Rogiero.

«Tacete, uomo spietato,» riprese questi: «se le vostre parole sono profferite da voi per gioire del mio affanno, la vostra perfidia non è cosa mortale; se per consolazione dell’anima afflitta, siete il meno destro confortatore di quanti vissero al mondo. Tacete, ve ne prego. Pur troppo io conosco quanto questa amarezza contristi! Io era nato per amare, e per quanto si fossero moltiplicate al mio sguardo le cose che si amano, esse non avrebbero potuto esaurire giammai quell’immenso affetto che nascendo sortii. E pure io non conobbi padre, nè madre, nè consorte, nè amico, cui indirizzare il desio dell’anima mia. Questo fuoco, non trovando modo a svilupparsi, ha consumato il principio che doveva alimentarlo. Era rimasta una sola scintilla, e questa deve brillare un momento, come la meteora della notte, e morire… Muora, ma brilli. Sento che in questa notte io devo affatto mutarmi, sento avvicinarsi un tormento inudito finquì; già mi si abbrividiscono le carni, le viscere mi si dirompono, e questi travagli derivano dalla immaginazione soltanto!… Proviamo fin dove l’uomo può patire, e il destino perseguitare: proviamo, che sia la voce di un padre su l’anima del figlio, comunque voce di padre moribondo.»

Agitato da profonda passione, mosse contro cotesti uomini, che gli stavano davanti; e benchè tacesse, parve minacciarli, dove non lo avessero celermente condotto all’oggetto del suo desiderio. Quei due si levarono tosto, ed avendogli fatto cenno di rimanere un poco, s’incamminarono alla estremità della stanza opposta all’uscio pel quale era entrato Rogiero. Per via uno di loro parlava all’orecchio dell’altro: «Io da qui innanzi, Conte di Caserta, amo avere la vostra approvazione. Che parvi dunque del mio operato?»

«Guarda se la misericordia di Dio è grande… pure tu mi appari più scellerato assai che egli non sia misericordioso.»

«E sì che le mie parole suonarono religione, e virtù.»

«Tanto è vero, che non si dà momento in cui Satana si mostra così terribile, come quello in cui si veste da Santo.»

«Troppa grazia,» rispose sorridendo il Conte della Cerra; e cavata una chiave, schiuse una porticella assicurata da forti sbarre di ferro. Ciò fatto, vi sporse il capo e chiamò: «Gisfredo! Gisfredo!» – Dopo poco tempo comparve una testa, poi le spalle, e il petto di un uomo, come quando ascendiamo una scala. Il Conte della Cerra gli si fece all’orecchio; lo domandò di alcuna cosa, alla quale avendo egli risposto col cenno del capo affermativamente, si volse a Rogiero, e disse: «Potete avanzarvi.»

Accorse Rogiero, e senza esitare si cacciò giù per la scaletta strettissima. I due Conti gli tenevano dietro: Gisfredo lo precedeva facendogli lume con la lanterna che aveva recata. Egli poi, per quanto studio vi ponesse, non potè conoscere nè anche chi fosse questo Gisfredo, perchè il suo volto andava come quello degli altri ricoperto di drappo; ma dall’afferrarlo ch’ei fece alcuna volta all’improvviso, come fingendo di cadere, dal suo volgersi rattissimo e sospettoso, dallo smarrimento delle pupille, ch’egli osservò attraverso i fori del drappo, allorchè gli prese la mano, e quasi per caso gliela pose su la guardia del suo pugnale, si accôrse essere costui un uomo di frode, anzichè di aperta violenza.

La battaglia di Benvenuto

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