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1 III

Dopo mezzanotte, nuvole dense nascondevano la luna timida e l'oscurità aveva preso possesso dell'immensità del mare. Almice non aveva alcun riferimento visivo per seguire la rotta. Ora dubitava delle proprie reali possibilità, di poter realizzare il viaggio proposto alle sorelle. Chiaramente gli mancava l'esperienza per poter pilotare la barca in quelle condizioni, semplicemente si lasciava guidare dall’intuizione. Era passata quasi un'ora da quando non aveva più individuato nessuna stella per confermare la rotta. Il vento non era aumentato; ma poiché avevano lasciato il canale, formato tra l'isola di Samos e la terraferma, le onde erano più intense, schizzavano costantemente sul ponte della barca e l'incrocio a volte era eterno. Telma si sentiva fradicia, era andata a sedersi accanto alle sorelle. Nerisa, da parte sua, continuava ad essere spaventata nel tentativo di confortare Janira, che si era svegliata e piangeva inconsolabilmente chiamando la madre. Almice si lamentava con sé stesso per la rotta che aveva preso, invece di andare dritto verso est e raggiungere il vicino continente. Aveva preferito andare a sud per depistare sia il vicino che i romani, se avessero avuto la nave nell'altra baia. Ora non sapeva con certezza quanto fossero lontani dal continente, che nelle giornate limpide era perfettamente visibile da Samos. Sapeva che l'isola di Kos era a sud di quella di Samos, e quindi era molto difficile perdersi; ma la rotta che aveva tracciato con suo padre durante il viaggio verso l'isola seguiva la costa del continente fino a un'altra estensione che quasi raggiungeva Kos. Alla fine, sembrò che le nuvole concedessero una tregua lasciando passare la luce della timorosa luna, Almice guardò l'orizzonte in mezzo all'oscurità sempre più debole alla ricerca di un punto di riferimento che li avrebbe ricondotti di nuovo sulla buona strada. Improvvisamente la barca virò bruscamente scossa da un colpo di mare. Telma, di soprassalto, afferrò l'albero maestro. Le piccole si aggrapparono alla sorella.

«Almice! Che stai facendo?» Nerisa lo rimproverò.

«Mi dispiace» si scusò il fratello, correggendo la rotta. «Abbiamo terra di fronte, ma è troppo presto perché sia l'isola di Kos, né il continente.

«Non sai dove siamo?» La domanda rese nervoso Almice. Il ragazzo si portò la mano alla fronte cercando di ricordare le descrizioni delle isole vicine fatte dai pescatori del villaggio.

«Suppongo che potrebbe essere l'isola di Agathonisi, non sono mai stato qui con nostro padre. In tal caso, siamo sulla buona strada; sebbene sia una zona pericolosa, con molti piccoli isolotti intorno e potremmo incagliarci, meglio se stiamo lontani dalla costa e aspettiamo fino all'alba.

«Siamo ancora lontani da Kos?

«Se è l'isola che dico io, abbiamo ancora un'intera giornata di traversata o un po' di più. Non possiamo continuare a navigare verso di essa in questo momento. Dobbiamo aspettare ad una certa distanza, in modo da non avere incidenti. Spero che la tempesta si attenui e, se le nuvole si dissipano un po' di più, saprò con certezza la rotta che devo seguire. Riposate un po', Poseidone vuole che le onde ci diano una tregua.»

L'alba si fece attendere. Le bambine rimasero in silenzio, stordite. Nerisa non aveva più chiaro il suo desiderio di essere una pescatrice, non pensava che il mare fosse così duro. Telma, sconvolta dall'oscillazione della barca, rimaneva con gli occhi chiusi pregando dentro sé stessa. Janira si era finalmente addormentata per puro sfinimento. Almice, stanco di combattere contro il mare, si sforzava di tenere la barca lontana dalla costa. Alla fine, la tempesta sembrò essere passata con meno forza di quanto lui avesse stimato, ringraziò gli dèi e si alzò in piedi sulla prua dell'imbarcazione. Questa volta intravide la costa irregolare dell'isola con i suoi frangenti alla luce dell'alba, individuò diversi isolotti. Senza dubbio si trattava di Agathonisi. Si sciacquò la faccia con un po' d'acqua e alzò la vela per prendere un po' di vento. Presto la barca riprese la rotta.

A mezzogiorno stavano già vedendo di nuovo la costa continentale all'orizzonte e il ragazzo variò la rotta verso sud. Fortunatamente, non c'era la minima traccia di Andreas o dei romani, senza dubbio li avevano depistati. Si erano leggermente discostati dalla direzione che volevano prendere all'inizio della traversata, ma l'avevano recuperata. Il problema era che le nuvole si stavano addensando di nuovo minacciando una tempesta simile a quella della scorsa notte. Sebbene le bambine avessero mangiato qualcosa, non erano in buone condizioni. La mancanza di abitudine alla navigazione aveva lasciato tutte e tre con un mal mare che non sarebbe scomparso fino a quando non avessero toccato terra.

Il sole cominciava a calare quando si scatenò un forte vento che costrinse Almice a ripiegare l'intera vela. Telma e il giovane si misero a remare. Le onde peggiorarono e presto cominciò a piovere. Se guardavano verso il mare, il cielo di piombo si confondeva con il mantello d'acqua. Almice prese la decisione di avvicinarsi un po' di più alla costa. Non voleva rischiare l'abbordaggio di una nave sconosciuta, la zona era famosa per i pirati che la attraversavano; ma il rischio di imbarcare acqua era maggiore. La tempesta minacciava di essere molto più intensa rispetto a quella della notte precedente.

Il pomeriggio passò e la tempesta continuava a guadagnare forza, la barca aveva la costa a duecento o trecento passi. Almice non voleva rischiare di avvicinarsi per paura di possibili frangenti, quando subirono un colpo tremendo che gli risuonò nelle orecchie come un secco gemito.

«Cosa è successo!» Telma sobbalzò abbracciando forte le sorelle. Il giovane diede una rapida occhiata al ponte dell'imbarcazione.

«Abbiamo una falla nello scafo.» Almice si alzò rapidamente per cercare di tappare la breccia che si era formata a prua. Non era una grande fessura, ma l'acqua spingeva per inondare lo scafo della barca, non sarebbero arrivati molto lontano se non riuscivano a tapparla. Le piccole iniziarono a piangere di nuovo e la tensione si impadronì di loro un'altra volta.

«Posso aiutarti?» Telma, che aveva lasciato il remo per rassicurare le sorelle, si fece avanti per aiutare il fratello.

«Passami la pece e la canapa, sono laggiù.» Indicò una scatola di legno di abete ancorata sotto una delle sponde.

Telma fu sorpresa dalla capacità del fratello di risolvere quel problema inaspettato. La falla fu riparata, ma la tempesta seguì il suo corso e scoprirono nervosamente che il remo dimenticato da Telma era scomparso rubato dal mare. Con un solo remo, guidare la barca nel mezzo delle onde era una missione quasi impossibile. Almice decise di issare la vela un terzo per poter navigare con il vento e guidare così la barca tra le acque agitate.

Il giorno lasciò il posto alla notte e il vento aumentò. L'impulso che la nave riceveva, anche con una superficie di vele così piccola, le dava una velocità eccessiva. Il breccia continuava a far filtrare acqua, ma al momento non era un problema preoccupante. Almice calcolava che, a quella velocità, prima dell'alba avrebbero raggiunto Kos. La vela era stata forzata al massimo e lui la teneva costantemente d'occhio. I nodi che aveva fatto per mantenere aperta solo una parte della vela si sciolsero senza preavviso e l'intera vela si gonfiò improvvisamente. La nave oscillò bruscamente a prua e un rombo secco risuonò dall'albero maestro. I ragazzi alzarono lo sguardo e fissarono la vela strappata che svolazzava con violenza. La nave andò alla deriva scossa dalle onde forti. I quattro spaventati si strinsero intorno all'albero maestro per resistere ai colpi che subiva l'imbarcazione, pregando che la barca non si avvicinasse agli scogli della costa. Almice prese coraggio e cercò di ammainare la vela traballante con l'intenzione di ripararla, ma i suoi sforzi si rivelarono inutili, scoprì che era un compito impossibile nel mezzo della tempesta. Con il crepuscolo persero di vista il riferimento visivo della costa, la barca fu trascinata via dai capricci delle onde e presto Almice non seppe in quale direzione la tempesta li stesse spingendo.

L'alba sorprese l’imbarcazione dei Teópulos. Era stata una notte lunga e tesa e alla fine erano caduti sfiniti per la stanchezza uno dopo l'altro. Telma fu la prima a svegliarsi e controllò con calma che i quattro fossero ancora a bordo. Nonostante i danni, la barca aveva superato la tempesta. Alzò gli occhi e guardò la vela a brandelli, poi rivolse lo sguardo all'orizzonte, attorno alla barca, ma non vide terra in nessuna direzione. Si sentì di nuovo preda della preoccupazione e svegliò Almice.

«Fratello, svegliati.» Gli mise delicatamente una mano sulla spalla. Almice aprì gli occhi. Sdraiato sulla schiena osservò il cielo un po' nuvoloso, non sembrava che stesse per piovere. Si sedette stiracchiandosi.

«Buongiorno, Telma. Come stai? E le piccole?»

«Stanca, è stata una notte molto lunga, ho ancora mal di mare. Tu ti sei addormentato e poi le piccole si sono fatte i loro bisogni addosso.»

«Sì, sento l'odore.» Diede loro uno sguardo affettuoso. Dormivano ancora. «Ieri sera ero esausto e avevo dei problemi a tenere gli occhi aperti» tentò di scusarsi.

«Almice, sono preoccupata, non si vede terra da nessuna parte, dobbiamo fare qualcosa.»

«Non abbiamo un'altra vela a bordo. Dovremo prendere una delle coperte e usarla come vela.»

«Pensi che funzionerà?» Telma si preparò a raccogliere una delle coperte inzuppate dalla tempesta.

Mezzogiorno si avvicinava e il vento, così forte il giorno prima, non mostrava segni di comparire. Janira, stanca per la brusca traversata, alternava momenti di sonno e veglia a pianti e incubi. Nerisa si era chiusa in sé stessa. Si svegliò poco dopo i suoi fratelli maggiori e, senza una parola, si rannicchiò in un angolo guardando il mare come una statua di pietra. Telma provò a parlarle diverse volte; lei le rispondeva solo con monosillabi, tornando sempre con lo sguardo all'orizzonte. La vecchia coperta legata all'albero maestro della barca era così pesante che non si gonfiava nemmeno con la leggera brezza che si avvertiva. Quasi sempre Almice cercava di orientare la barca verso est, lottando con l'unico remo contro la corrente mentre Telma teneva il timone.

«Una barca!» esclamò Nerisa con un pizzico di speranza nella voce. «Guarda, Almice! Una barca laggiù.» Nerisa indicava insistentemente a babordo. Suo fratello guardò in quella direzione.

«Non sappiamo se sono amici oppure no, Nerisa, è meglio che non ci vedano, dobbiamo agire con cautela» le rispose Almice. In effetti, all'orizzonte si vedeva una piccola vela.

«In questo modo, non arriveremo da nessuna parte, fratello.» Telma si era unita alla conversazione. «Non ci resta quasi più acqua e non sappiamo se abbiamo terra nelle vicinanze. Forse possono aiutarci.»

«È molto rischioso» insistette il fratello, dubitando che sarebbe stata la cosa migliore.

«Almice, sembri nostra madre, che diffida sempre delle persone» lo rimproverò sua sorella maggiore. «Non possiamo rischiare di più, Janira deve riposare o la perderemo. Non abbiamo altra scelta che chiedere aiuto.» Nerisa la assecondava con la testa.

«Va bene, vireremo verso quella barca, forse possono vederci.» Modificò la rotta dell’imbarcazione, togliendo per un momento il timone a sua sorella; quindi, iniziò a remare con l'unico remo verso la barca che sembrava avvicinarsi a loro.

La vela si avvicinò lentamente. I Teópulos diedero per scontato di essere stati individuati. Quando fu a circa cinquecento braccia di distanza, calcolò Almice, la barca virò in modo inequivocabile verso di loro. La sorte era stata decisa, avevano dei soldi, se erano pescatori, supponevano di poter pagare un passaggio per Kos; se non lo erano, sarebbe stato meglio se tutto fosse accaduto rapidamente, pensò il ragazzo. Era una imbarcazione molto più grande della barchetta malconcia di Hermes Teópulos. Una grande vela triangolare la spingeva decisamente verso di loro. Dalla piccola barca si vedevano diverse persone manovrare sul ponte. L'agitazione a bordo avvertì Almice che si stavano preparando all'abbordaggio, iniziarono a piegare la vela.

«Oh, della barca! Chi siete?» La voce proveniva da prua, un uomo di corporatura massiccia alzò le mani con un gesto amichevole. Almice si apprestò a rispondere.

«Veniamo da Samos, la tempesta ha strappato la nostra vela e andiamo alla deriva. Abbiamo bisogno di aiuto per arrivare a Kos.»

«Si vede che la vostra barca è danneggiata, salite a bordo, andiamo verso Nisyros, vicino all'isola di Kos. Immagino che potremo lasciarvi da qualche parte sull'isola.»

Le due imbarcazioni si posizionarono fianco a fianco e i giovani salirono a bordo lasciando la piccola barca vuota, alla deriva. L'uomo corpulento che aveva parlato apparve davanti a loro.

«Buongiorno, ragazzi. Sono Zamar, il capitano di questo guscio. Benvenuti sulla mia barca.» Sorrise maliziosamente. «Questi sono i miei uomini.» Fece un gesto indicando i membri del suo equipaggio. Una dozzina di uomini di varie età, trasandati e sporchi. I fratelli iniziarono a temere che non fossero esattamente pescatori. Alcuni marinai lanciavano occhiate lascive al seno di Telma, che risaltava grazie all'abito della ragazza, ancora inzuppato per la tempesta. La barca era certamente di grandi dimensioni, doveva avere diversi compartimenti per l'equipaggio e un notevole spazio di carico. Non si vedeva nessuna rete.

«Grazie per averci raccolti» ruppe il ghiaccio Almice. «Cosa possiamo offrirvi come ricompensa?»

«Non vi preoccupate di questo ora, andate a riposare, tra un paio d'ore mangeremo e parleremo di tutto.» Il capitano, sorridendo, fece un gesto perché scendessero all'interno della barca. I ragazzi, un po' sospettosi, si sentivano esausti e dopo aver parlato brevemente tra loro finirono per accettare l'invito.

L'interno della nave era spartano, scesero dei gradini di legno e si ritrovarono nella stiva. Su entrambi i lati, alcune anfore immagazzinate si sostenevano a vicenda in modo irregolare vicino a delle cuccette che dovevano servire per far riposare l'equipaggio. Il marinaio che li guidava si diresse a prua e li fece entrare in una piccola stanza. Si congedò da loro lasciando la porta aperta e i Teópulos si rilassarono. Era un piccolo recinto, più piccolo del ponte della sua nave, ma era asciutto e se si sdraiavano ci stavano perfettamente. Almice e Telma erano ancora inquieti, la fatica accumulata durante le ore della fuga aveva messo a dura prova i quattro e presto tutti finirono per arrendersi al sonno.

«Lasciatemi maledetti! Lasciatemi andare! Almice, aiutami!» Le urla di Telma svegliarono i suoi fratelli. La prima cosa che Almice pensò fu che la sorella fosse in preda ad un incubo. Aprì gli occhi e si sedette per capire cosa stesse succedendo.

«Lasciate stare mia sorella!» Il ragazzo balzò in piedi pronto a difenderla, ma un tremendo pugno lo fece cadere sulle bambine, che urlavano spaventate.

«Resta qui, moccioso!» Un marinaio barbuto lo minacciava con i pugni in guardia. Almice si alzò di nuovo e senza pensarci due volte avanzò verso il marinaio e gli diede un forte calcio tra le gambe, prendendolo di sorpresa e facendolo contorcere ululando di dolore. Il giovane gli saltò addosso. Un altro marinaio incrociò la gamba facendogli lo sgambetto e Almice, sprovveduto, cadde a faccia in giù accanto alle scale, ai piedi di Zamar. Il capitano della nave, forte e arrogante, gli stava di fronte. Almice notò il suo naso, un grosso naso aquilino mezzo schiacciato e deviato, il risultato di uno sfortunato scontro con un altro possente avversario. Una grossa cicatrice solcava la sua fronte finendo sopra il sopracciglio dell’occhio sinistro, dandogli un aspetto ancora più fiero.

«Vi ho ordinato di lasciarli riposare. Lasciatela stare!» I marinai si spaventarono quando sentirono l'ordine del capitano alle loro spalle.

«È la nostra ricompensa» recriminò uno degli uomini, quello che teneva stretta Telma per un braccio. Zamar tirò fuori un piccolo pugnale e lo portò con la velocità del pensiero al collo di quello che aveva parlato.

«Lasciala andare! Subito!» Il tono era autorevole e non lasciava dubbi. Il marinaio lasciò andare la ragazza. Telma si accovacciò piangendo accanto al fratello. «Voi tre, salite sul ponte e che non vi veda più in giro qui sotto.» Quindi abbassò lo sguardo sui ragazzi. «Per quanto riguarda voi due, è meglio che torniate nella vostra cabina.» Vi prego di scusare il mio equipaggio, sono uomini di mare e non hanno le maniere adatte a curare gli ospiti. Vi assicuro che non vi daranno più fastidio.»

I due fratelli, ancora scossi, si alzarono e tornarono insieme nella cabina. Abbracciarono le loro sorelle. Nessuno parlò. Spaventati, non sapevano se potessero fidarsi del capitano della barca. Zamar, che al momento li rispettava; si allontanò farfugliando qualcosa tra sé mentre si dirigeva verso il ponte. Passò mezzogiorno e, sebbene avessero un secchio pieno d'acqua nella loro cabina, nessuno scese per offrire loro del cibo. Si guardarono bene dall'andare a chiedere da mangiare. Lasciarono passare la giornata in silenzio, pensando nel loro intimo che era stato un errore salire su quella imbarcazine, guardandosi l'un l'altro con la paura riflessa sui loro volti fino al tardo pomeriggio.

«Si può sapere a cosa stavate pensando, idioti?» Zamar si rivolse ai tre marinai nella privacy della loro piccola sistemazione sul ponte. «Avete solo segatura in testa?» Uno dei marinai, quello che aveva preso Telma, parlò.

«Captano, ci avevi detto che in questo viaggio avremmo avuto il nostro bottino e abbiamo pensato che ...»

Zamar lo interruppe con rabbia:

«Avete pensato! Non avete nemmeno una minima idea di come stanno le cose. Forse non conoscete il valore che questi ragazzini possono avere a Tiro? Sicuramente i quattro sono ancora vergini. E voglio che lo rimangano!» ribadì l'ordine trapassandoli con gli occhi. «È chiaro?» I tre elementi annuirono. «Non hanno idea della navigazione, mi è bastato vedere la loro barca. Vogliono andare a Kos, quindi li porteremo lì.»

«Ma se noi non possiamo avvicinarci a Kos dall'anno scorso, ci cattureranno» lo interruppe l'altro marinaio in tono ironico.

«Non capite niente, stupidi. Meglio per tutti se pensano di essere liberi all'interno della nostra barca, in questo modo non ci daranno problemi finché non arriveremo a Tiro. In questo viaggio non abbiamo avuto molta fortuna con gli abbordaggi, ma questi ragazzi valgono molto più di quanto loro stessi immaginano. So che non siamo in un porto da molto tempo per riposare; ma aspettate, se qualcuno di voi fa loro il minimo danno, lo lascerò nel primo porto dove attraccheremo senza paga né bottino. Spero che vi sia chiaro, ci sono molti soldi in gioco e non lascerò che nessuno di voi rovini tutto pensando come un animale.»

La barca si stava dirigendo verso est. Navigò tutto il giorno; il mare calmo e il dolce vento da nordovest erano favorevoli. Al crepuscolo, il capitano mandò a chiamare i ragazzini nel suo alloggio. Un marinaio andò a cercarli e loro, affamati e diffidenti, si affrettarono a salire in coperta, sbirciando tutto l'equipaggio che trovavano sul loro cammino.

«Avanti, amici miei» disse Zamar sorridendo dalla porta. «Spero che abbiate riposato un po', noi abbiamo lavorato molto qui in coperta e abbiamo pensato che dopo l'incidente di stamattina fosse meglio lasciarvi riposare fino al pomeriggio.» I fratelli entrarono nella stretta cabina e si sedettero insieme su una delle panchine fissate al suolo.

«Buon pomeriggio, capitano» cominciò a parlare Almice. «Perché i suoi uomini si sono comportati così?» Zamar si aspettava quella domanda.

«Dovete scusarli, sono a bordo da molto tempo e talvolta esagerano un po'. Li ho già rimproverati. Bene, ditemi, so che volete andare a Kos, ma non so come siate arrivati fino al punto in cui vi abbiamo raccolto.» Almice gli raccontò rapidamente, senza entrare in molti dettagli, la fuga da Samos e l'odissea affrontata con la loro barca. Apparentemente Zamar stava ascoltando con attenzione mentre calcolava quanto poteva ottenere per ciascuno di loro al mercato degli schiavi di Tiro.

«Così siete dei fuggitivi.»

«No, per niente» chiarì Telma, un po' contrariata dall'osservazione. «Non siamo dei fuggitivi. Abbiamo lasciato Samos perché non avevamo più famiglia lì, il nostro parente più stretto è a Kos.

«Scusatemi, non era mia intenzione offendervi. Comunque sia, ora siete in salvo sulla mia barca. Dai, sono sicuro che avete fame, mangiate un po'.» Si sedette anche lui al tavolo e si servì una succulenta coscia di pollo arrosto. Nerisa e Janira lo imitarono immediatamente mordendo avidamente il cibo. Telma e Almice incrociarono gli sguardi, dubitando per un momento prima di unirsi anche loro al pasto.

La cena passò tranquillamente, i ragazzi riacquistarono le forze e saziarono il loro appetito, erano passati due giorni da quando i genitori erano stati uccisi, due giorni eterni in mezzo al mare. Non erano abituati a mangiare carne, la loro dieta abituale includeva quasi sempre pesce e verdure e la carne veniva assaggiata solo in occasioni eccezionali. Recuperarono il desiderio di andare avanti.

«Vedo che non mangiavate da un po' di tempo.» Zamar si grattò la testa mentre parlava, scavando tra i capelli arruffati.

«Sì, abbiamo portato del cibo, ma in poca quantità; quasi tutto pesce essiccato, pensavamo che la traversata sarebbe stata più semplice. A quest'ora pensavamo di stare a Kos.»

«Il mare fa prendere molti spaventi. Fortunatamente siete vivi, anche se avete deviato abbastanza dalla vostra rotta.»

«Siamo così lontani da Kos?» Almice era sorpreso.

«Non molto, ad un paio di giorni; si capisce che la corrente vi ha trascinato verso ovest. In ogni caso, vi porteremo lì. Non significa deviare troppo dalla nostra rotta.»

«Per questo non si preoccupi, capitano, abbiamo del denaro per pagare il passaggio.» Almice prese le monete dall'interno dei suoi abiti e le offrì a Zamar. Il capitano le osservò, erano monete coniate dai Tolomei.

«Sono pochi soldi, ma sufficienti» si schiarì la gola e cambiò argomento, riponendo le monete nella borsa. «Domani sarà una lunga giornata, sarà meglio che vi ritiriate per riposare.»

«Faremo così, capitano.» rispose Telma alzandosi.

«Ancora una cosa, preferisco che non passiate per il ponte, lo dico per l'equipaggio, sono brave persone, ma è meglio prevenire.» Zamar spogliava la giovane donna con gli occhi mentre parlava. La ragazza aveva sicuramente molto più valore dei suoi fratelli nei mercati di Tiro. Il pirata sorrise tre sé mentre li congedava.

La notte trascorse senza ulteriori incidenti. Janira si addormentò velocemente. Telma e Nerisa erano preoccupate perché la bambina non parlava affatto, in due giorni praticamente non aveva detto nulla, né pianto né giocato. Era come se si fosse chiusa in sé stessa, isolandosi da tutto ciò che la circondava. Almice si sentiva responsabile della situazione di tutti loro, specialmente Janira; dopo tutto, era la più indifesa.

La mattina salirono per un po' sul ponte per fare colazione con il capitano; era una buona scusa per respirare l'aria fresca. Gli sguardi lascivi che alcuni uomini lanciarono a Telma li fecero tornare presto sottocoperta. Avevano molto tempo per pensare. Almice scoprì che stavano andando ad est, era chiaro che avevano deviato; sebbene il capitano non avesse detto che fossero così lontani da Kos, non capiva come fossero riusciti ad allontanarsi così tanto dalla loro rotta originale. Consumarono pranzo e cena sottocoperta, preferirono non uscire sul ponte. Il capitano scese più volte a trovarli affinché si sentissero più sicuri, anticipandogli che probabilmente sarebbero arrivati a Kos alla fine del giorno successivo.

Doveva essere già oltre mezzanotte quando delle mani ruvide afferrarono Telma tappandole la bocca. Cercò di lottare, ma diversi uomini la tenevano e la portarono fuori dalla stanzetta senza che i suoi fratelli si accorgessero di nulla. Cercò di liberarsi per chiedere aiuto, come l'altra volta, spaventata, temendo il peggio, ma le mani dei suoi rapitori si strinsero come catene sui suoi mani e piedi. La portarono alla base dell'albero maestro, sottocoperta. Questi uomini parlavano a bassa voce mentre gli occhi spaventati di Telma cercavano di trovare una via d'uscita inesistente da quella assurdità. Pur sentendosi impotente, cercò disperatamente di divincolarsi dai suoi stupratori. Un duro colpo alla testa fece cessare la sua lotta.

Uno dei marinai le strappò la tela che le copriva il busto. I suoi seni emersero tremuli alla luce dei luminari, riflettendo il sudore causato dalla lotta. Un altro membro dell'equipaggio, senza fare rumore, le sollevò il resto degli abiti fino alla vita e diede libero sfogo ai suoi più bassi istinti. Telma tornò in sé urlando per il terrore. Era pienamente consapevole di ciò che stava accadendo, le sue peggiori paure stavano diventando realtà e doveva fuggire in ogni modo. Gli stupratori avevano abbassato la guardia e Telma aveva le mani libere così cercò di liberarsi del corpulento marinaio che la stava possedendo. In quel momento, Almice si svegliò di soprassalto per il rumore, si guardò intorno e vide sua sorella in mezzo alla stiva sotto il corpo del marinaio. Corse fuori pieno di rabbia verso l'aggressore, brandì un coltellino che teneva nascosto nei vestiti e dal quale non si separava mai, mentre Telma continuava a strillare e lottare, affondando le unghie con tutta la sua forza negli occhi del bastardo che le stava sopra. Gli altri marinai tentavano di allontanare le mani di Telma dagli occhi del loro compagno.

«Lasciala, figlio di puttana!» Almice si avventò su uno degli uomini che gli sbarrava il passo conficcandogli la piccola lama nella spalla. La vittima gli sferrò una ginocchiata allo stomaco, lasciandolo steso a terra senza aria.

«Lasciami, cagna!» Il marinaio che stava violentando Telma si mise a sedere pieno di dolore, con un occhio lacerato e fuori dall’orbita. Afferrò la ragazza per il collo con tutte le sue forze e le sbatté la testa più volte contro la base dell'albero maestro con insolita violenza mentre urlava. Fu l'ultima cosa che fece.

«Che cazzo state facendo, idioti!» Zamar aveva appena infilzato il marinaio da dietro con la sua spada. «Vi avevo detto di stare lontano da loro. Stupidi!» Un altro marinaio lo affrontò con una spessa barra di legno.

«Chi ti credi di essere per darci ordini?» Era un essere enorme, che restava piegato per evitare con la testa il tetto della stiva, Almice, ancora a terra, osservava la scena senza osare alzarsi, non aveva mai visto un uomo così grande. Si avventò sbuffando su Zamar, che fece un rapido movimento con la mano sinistra e un paio di coltelli rimasero si conficcarono nel torace di quella torre, che crollò come una massa inerte vicino alle pietre che fungevano da contrappeso della nave. Il terzo uomo, quello che aveva ferito Almice, lasciò cadere il bastone che brandiva, implorando clemenza. La lama della spada di Zamar fu infilzata nella carne umana una seconda volta quella notte.

Nerisa e Janira si erano svegliate, spaventate dal clamore della rissa e osservavano la scena con orrore senza il coraggio di lasciare la propria cabina o addirittura muoversi. Rimasero immobili come statue. Gli altri membri dell’equipaggio si avvicinarono, in attesa. Almice si alzò a sedere e si mosse lentamente verso la sorella maggiore. Telma era inerte, la testa deformata da colpi, i capelli arruffati e alcuni rivoli di sangue le scendevano sul collo. I suoi occhi senza vita e inzuppati di lacrime erano rivolti al ponte. Le abbassò i vestiti per coprirle il sesso e le coprì il seno.

«Come sta tua sorella?» si interessò Zamar, avvicinandosi a lui.

«Ci hai detto che eravamo al sicuro con te!» Il ragazzo lo rimproverò, la sua voce era un amalgama di rabbia e disprezzo. «Mia sorella è morta, i tuoi uomini l'hanno uccisa. Questo è il tuo maledetto aiuto?» Girò la faccia verso Zamar con uno sguardo gelido, che per un istante alterò la fredda compostezza del capitano.

«Non volevo che ciò accadesse, mi dispiace per tua sorella. Ho perso molti soldi a causa di questi idioti, ma ora non mi daranno più fastidio.» Inguainò la spada nel fodero.

«Dei soldi? Cosa volevi fare con noi, miserabile?» Zamar gli ruppe un labbro con un pugno. Almice sopportò il dolore mentre il sangue gli affiorava dall'interno del labbro filtrando attraverso la gola e lasciandogli un sapore amaro.

«Disgraziati! Venderò te e le tue sorelle a Tiro, arriveremo in città tra una settimana.» rise sonoramente. «Pensavate che con alcune monete avreste potuto pagare il passaggio? È un peccato che tua sorella sia morta, mi avrebbero dato molto denaro per lei. Almeno ho voi e il corpo della tua amata sorella potrà soddisfare il resto dell'equipaggio mentre è ancora caldo, finalmente servirà a qualcosa di più che lamentarsi.» Almice lo colpì, accecato dalla rabbia. Ma un colpo secco alla schiena lo lasciò di nuovo privo di sensi.

Dopo un po'. Almice si svegliò chiuso nel piccolo recinto accanto alle sue sorelline, che stavano piangendo. Dall'altra parte del parapetto di legno che fungeva da muro, si udivano dei rumori. Tentò di aprire la porta spingendola ma era bloccata dall'esterno, erano chiusi dentro. Allora Almice guardò attraverso le fessure delle assi rosicchiate. Ciò che vide lo lasciò abbattuto. Alcuni uomini di Zamar facevano la fila per abusare del corpo senza vita di sua sorella. Non rispettavano nemmeno i morti. Cominciò a gridare, imprecare e supplicare, ma sembrava che le sue urla non potessero andare oltre la piccola cella. Gli dèi dovevano essere occupati in altri compiti più importanti per non voler intervenire in quel macabro evento. Continuò un tempo infinito a minacciare e implorare fino a quando non cedette alle emozioni e cominciò a piangere con le sorelle, distogliendo gli occhi dalle fessure della cella. Che cosa avevano fatto agli dèi perché tutte le disgrazie del mondo si abbattessero su di loro una dopo l'altra? Quali speranze gli restavano in questa vita? Quale sarebbe stato il futuro sinistro che inevitabilmente si stendeva sopra di loro? Non c'era più nulla al mondo che contava. Forse nemmeno i loro dèi erano veri, potevano anche non esistere. Almice voleva morire, magari fossero tutti riuniti insieme ai loro genitori.

«Su, figlioli» la voce di un marinaio li chiamava con dei colpi alla porta della stanzetta. Nerisa fu la prima ad aprire gli occhi, doveva essere già mezzogiorno. La piccola apertura che illuminava la loro cella nella prua della nave lasciava passare una luce diafana. I suoi occhi erano irritati dal pianto. Si sollevò per svegliare la sorella. Janira aprì gli occhi terrorizzata, immaginando qualche nuova calamità. Sua sorella le sorrise e l'abbracciò forte. Anche Almice si svegliò e si mise una mano sul labbro, riusciva a malapena a sfiorarlo senza emettere un gemito.

La porta si aprì e il marinaio chiese loro seccamente di uscire. Almice lo guardò attentamente, cercando di riconoscere nella sua faccia uno di quelli che ore prima erano in fila per profanare il corpo di sua sorella, ma non lo riconobbe. L'uomo li esortò a salire sul ponte. Almice afferrò le mani delle sorelle e si diressero con passo esitante verso i gradini che salivano sul ponte. Accanto alla base dell'albero maestro, una piccola macchia rossastra indicava il luogo in cui sua sorella era stata strappata alla vita. Si guardò intorno con gli occhi, non riuscì a localizzare il suo corpo.

Nerisa non si era sbagliata, il sole era già alto quando sbucarono sul ponte. Una giornata di sole li salutava. Nuove lacrime apparvero negli occhi della giovane donna, forse a causa della luce abbagliante o perché né sua sorella né i genitori potevano più contemplare quel sole. Janira non aveva ancora detto una parola. I suoi occhi rimanevano costantemente terrorizzati, guardando sempre il terreno senza voler contemplare la realtà che la circondava. Almice si rimproverò per essersi addormentato senza sapere cosa ne era stato del corpo della sorella. Lo cercò di nuovo sul ponte, ma notò solo alcuni tessuti macchiati di sangue accanto al lato di dritta. Suppose che l'avessero gettata in acqua, insieme ai cadaveri dei suoi stupratori. Il solo pensiero gli diede i brividi.

«Spero che abbiate riposato.» Zamar salutò come se durante la notte tutto fosse successo con assoluta normalità. Il giovane fu sorpreso da questo tremendo sangue freddo. Quell'uomo si era liberato di diversi membri dell’equipaggio e poi, senza scrupoli, aveva permesso ad altri di disonorare il corpo senza vita di Telma.

«Vi ho mandato a chiamare per dirvi che cosa ne sarà di voi d'ora in poi. Queste sono cose che succedono, ieri sera con tua sorella non avrebbe dovuto accadere nulla; quindi, per evitare qualsiasi altro incidente, posizioneremo dei bellissimi ceppi sui vostri piedi in modo che non possiate fare sciocchezze. Non voglio perdere altri soldi.»

«Non puoi farci questo!» Nerisa aveva il viso stravolto.

«Beh, penso che il genio vi derivi dalla vostra famiglia» rise il capitano. «Senti, piccola, posso fare quello che voglio con te, persino offrirti ai pesci come cibo. Vostra sorella li ha già nutriti stasera.»

«Sei un miserabile!» Almice lottò con furia ma i suoi rapitori lo tenevano ben stretto.

«No, non più di quelli che hanno ucciso i vostri genitori.» Almice fu sorpreso, non gli avevano raccontato come erano morti i loro genitori. «Sorpreso?» Zamar continuò come se gli avesse letto nel pensiero. «Sognate ad alta voce e i vostri incubi sono già noti all'intero equipaggio. Come ho detto, non voglio che moriate, voglio solo essere pagato bene per voi. La vita dello schiavo non è così male, sarete sempre nutriti. E se non possono darvi da mangiare, vi venderanno a un altro. Sarete proprietà con un valore. La gente dell'Oriente non maltratta i propri schiavi, a volte li tratta persino meglio dei propri familiari.»

«Cosa ti abbiamo fatto? Ti abbiamo solo chiesto aiuto.» Nerisa non capiva l'atteggiamento del capitano.

«Così è la vita, ragazzina, siete molto giovani e avete tutta la vita davanti a voi per progredire e arrivare ad essere liberti, tutto dipenderà da voi. Per ora, trascorrerete una settimana all'ombra, il tempo che impiegheremo per arrivare a Tiro, sarà la cosa migliore per voi, non vorrete che vi succeda ciò che è accaduto a vostra sorella?»

«Ci hai detto di fidarti di te, che ci avresti portato a Kos.» Almice era sempre più furioso. «Fin dall'inizio volevi farci diventare schiavi!»

«Quando vi abbiamo individuati alla deriva, avevate già superato l'isola di Kos. Quello che abbiamo fatto è stato darvi una possibilità. Sareste finiti bruciati dal sole e morti di sete in mezzo al mare, ora almeno avete un'opportunità e noi una ricompensa per avervi soccorso. Non si tratta di nulla di personale, è il nostro lavoro. Ci rivedremo a Tiro.» Il capitano si voltò e si diresse alla sua cabina, mentre i marinai iniziarono a mettere loro le catene.

I giorni passarono lentamente sotto il ponte della nave. La piccola apertura della stiva e l'unico pasto al giorno che gli servivano erano gli unici riferimenti del passare del tempo che i Teópulos avevano. Il cibo era diventato una miscela di farina e acqua difficile da deglutire. L'acqua non mancava, ma lo spazio era ridotto e i bisogni corporali, rinchiusi com’erano, li facevano in un angolo della stanzetta.

Sebbene i primi due giorni furono molto difficili, Nerisa e Almice cercarono di convincere la loro sorellina a recuperare la parola. Non riuscirono nemmeno ad ottenere un minimo balbettio della ragazzina. Almice aveva trovato un piccolo pezzo di carbone sul pavimento, con cui disegnare degli scarabocchi per far divertire la sorella. Quando calava il buio, Nerisa si inventava piccole storie che cercavano senza successo di strappare un sorriso alla bambina.

Il tempo era bello e la traversata non presentò contrattempi. Zamar ottemperò a quanto promesso e i ragazzi non uscirono dalla loro cella né furono infastiditi nuovamente dall'equipaggio. Janira non recuperò la parola; non appena i suoi fratelli smettevano di parlarle, abbassava la testa guardando a terra per ore. Mangiava appena la sbobba che le davano e sembrava che stesse perdendo peso col passare dei giorni.

Nerisa e Almice ebbero molto tempo per parlare di tutto quello che era accaduto. Avevano molta nostalgia dei genitori e di Telma. Approfittarono delle ore di reclusione per raccontarsi molte cose su sé stessi e le loro esperienze di vita. Ripassarono a fondo le loro brevi vite. Impararono di più su loro stessi in quei giorni che in tutti gli anni precedenti. Quanto era matura Nerisa per la sua età, pensò Almice, quale forza presentasse. I primi giorni aveva pianto molto, ma ora suo fratello credeva che fosse molto più forte di lui. Lei pensava lo stesso del fratello, si sentiva orgogliosa di lui e voleva sollevargli il morale a tutti i costi. Evitavano di parlare di cosa sarebbe successo una volta arrivati a Tiro. Quando la loro sorellina lasciava che condividessero i suoi pensieri, cercavano di far uscire Janira dall'abisso interiore in cui era precipitata, ma era uno sforzo arduo con scarsi risultati. La bambina stava cadendo in una forte depressione in cui affondava gradualmente senza che i suoi fratelli sapessero come aiutarla

I giorni passarono e la traversata finì. A metà mattina dell'ottavo giorno di reclusione, Zamar si affacciò alla loro cella con il volto di una persona gentile incapace di nuocere a chiunque. Avevano raggiunto Tiro.

Samos

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